Massimo Fochi, psicologo e psicoterapeuta, è docente di Filosofia e Storia presso il Liceo "Coluccio Salutati" di Montecatini Terme (PT).

Il problema del rapporto con l’autorità rimanda alla figura del padre e a ciò che resta del “nome del padre”. È davvero “quello che resta del padre” un problema centrale del nostro tempo, un tempo in cui la sua potenza simbolica è evaporata e assistiamo attoniti alla dissoluzione di questa figura, depositaria e custode del grande potere evolutivo del “no”. Ma per comprendere il rapporto con l’autorità suggerirei di fare un passo avanti e partire dal tentativo di capire qualcosa di più, in chiave psicoanalitica, sul tema del desiderio e su come esso si formi e si strutturi dentro di noi.

Sappiamo che non c’è vita umana se non oltrepassando la dimensione incestuosa del desiderio. Il dissolversi della figura del padre ci apre ad una delle problematiche psicologiche centrali del nostro tempo: cosa resta del padre?

Per Freud il padre è essenzialmente il simbolo della Legge e introduce l’esperienza dell’“impossibile” nell’umano. Dobbiamo cioè accettare, per crescere, che ci sono cose non ammesse e non ammissibili. Lo strutturarsi dell’Edipo costituisce la legge prima e originaria, che fonda la necessità delle diverse strutture giuridiche che caratterizzano l’umano. In altri termini il figlio deve accettare i limiti della condizione umana. «Tu non poi sapere tutto, non puoi godere di tutto, non puoi avere tutto, non devi nemmeno ritenere di essere tutto».

Questa è la potenza traumatica e benefica della Legge che, introducendo l’impossibile nell’umano, rende possibile il desiderio nella sua dimensione generativa e non mortifera. Attraverso la castrazione simbolica si istituisce il limite, la salutare riduzione dell’onnipotenza originaria. Il padre dopo aver stabilito il limite regala la possibilità di un appagamento pieno, completo e superiore perché, grazie alla sua valenza simbolica, riesce a tenere insieme la legge e il desiderio.

Se ciò non accade abbiamo il trionfo della dimensione mortifera e non generativa di un principio di piacere che non sa diventare principio di realtà. Vittima di un desiderio disordinato e scomposto, senza l’ideale che protegge, che regala una prospettiva, la vita si disgiunge dal senso e la depressione, il senso di vuoto trionfano drammaticamente. La legge che si stacchi dal desiderio fino a soffocarlo è prevaricazione, mortificazione, prigione moralistica e, laddove l’istanza proibitrice prevalga insensatamente, abbiamo l’isteria e tutte le patologie connesse alla rimozione eccessiva.

In questo caso l’autorità si è fatta smodato e insensato autoritarismo, negazione del fluire della vita e di ogni dimensione dionisiaca dell’essere. È proprio questo lo scenario che Freud rinvenne nell’inconscio delle isteriche dell’età vittoriana. Ma anche il desiderio che si stacchi dalla legge non va incontro ad un destino migliore facendo naufragare l’individuo nell’insensatezza del vivere. Quando ciò accade, anche se si dovesse riuscire a sottrarsi alla logica mortale degli eccessi e delle sostanze, si scivolerebbe inevitabilmente verso una dimensione tragicamente nichilista.

Oggi è il tempo del trionfo di questo secondo eccesso, e, scomparsa o quasi l’isteria dai nostri scenari terapeutici, i giovani, gli adolescenti si presentano in terapia svuotati di vita, di energia vitale, infiacchiti, dicendo: «La vita non ha senso; non ho voglia di vivere, di fare, di lottare, insomma la vita è una merda!».

Correlativamente da molti anni assistiamo ad una nuova dimensione genitoriale, che sempre più frequentemente ci troviamo ad incontrare anche nel mondo della scuola. Sempre più spesso si assiste ad una fusione simbiotica non interrotta. Il figlio non è riconosciuto veramente nella sua alterità, e dunque ogni conflitto che inneschi tensioni e ostacoli rispetto ai suoi eventuali comportamenti inappropriati, suona nell’assordante campana simbiotica, come un’offesa che il genitore rifiuta perchè vive e sente come rivolta a se stesso. Troppo spesso i genitori non sanno situarsi in sintonia col ruolo correttivo e talora punitivo che può esercitare una qualunque autorità esterna alla famiglia accettando tutto ciò come una legittima e utile continuazione dei loro compiti educativi, ma, al contrario, lo sentono come un nemico da affrontare e combattere. L’autorità esterna che richiama, disapprova e punisce, infligge una intollerabile mutilazione narcisistica a questo modello di famiglia che contiene germi di pericolosa e grave asocialità. Nessun ridimensionamento, nessun fallimento è ammissibile e per salvare lo status del figlio si può giungere a fantasiose narrazioni che ne fanno un martire, una vittima che magari nasconde, nelle sue profondità, un genio incompreso.

Salta il patto generazionale e molto spesso i docenti sono lasciati soli nella loro missione educativa che assomma alla bassa valutazione che la politica, al di là delle dichiarazioni di facciata, riserva loro, anche l’ostilità di genitori che, avendo abdicato al ruolo complesso e faticoso di fondere legge e desiderio, spossati dalle richieste sempre più elevate della società, preferiscono rapportarsi sempre più debolmente con le richieste dei figli, ritenendo erroneamente di accondiscendere per amore. La fusione simbiotica e a-conflittuale col figlio, in questa declinazione deludentemente narcisistica dell’amore genitoriale, non è amore che feconda e fa crescere, ma terra arida e secca su cui si alzeranno fusti sempre più deboli, imbelli, malati, incapaci di godere delle fatiche e delle vittorie che la vita ci può regalare.

Illuminante un passo di una delle dieci omelie scritte da Sant’Agostino a commento della I lettera di San Giovanni:

Non credere allora di amare il tuo servo, per il fatto che non lo percuoti; oppure che ami tuo figlio, per il fatto che non lo castighi; o che ami il tuo vicino allorquando non lo rimproveri; questa non è carità, ma trascuratezza.

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