Annalisa Giachi è responsabile Area Ricerche di Promo PA Fondazione. Coordina OReP, Osservatorio sul Recovery Plan. Esperta di metodologie di ricerca e analisi quali-quantitativa. Esperienza ventennale in indagini comparative internazionali sui temi dello sviluppo economico e delle politiche di riforma delle pubbliche amministrazioni. Project manager in progetti di affiancamento e supporto alle pubbliche amministrazioni in materia di comunicazione istituzionale, strategie di marketing territoriale e turistico, politiche culturali, politiche di sviluppo economico locale. Coordina e gestisce numerosi progetti di ricerca per committenti pubblici e privati.
Quale pace dobbiamo auspicare per l’Ucraina e per l’intero Occidente, qualora finalmente si riuscisse a mettere attorno ad un tavolo Putin e Zelensky? Quale assetto economico e geopolitico dobbiamo aspettarci per evitare il ritorno a scenari di Guerra Fredda e per evitare di cadere in una recessione globale innescata dall’aumento dei prezzi e dal rallentamento dell’economia globale?
All’indomani della prima guerra mondiale, nel 1919, John Maynard Keynes scriveva e pubblicava Le conseguenze economiche della pace. Il grande economista aveva partecipato alla Conferenza per la pace di Versailles come delegato del Cancelliere dello Scacchiere britannico e si era dimesso da quell’incarico poiché riteneva opportune condizioni molto più generose di quelle che effettivamente furono raggiunte a Versailles. Il libro, che ebbe una grande eco in tutto il mondo, criticava l’aspetto punitivo di quella pace paragonandola ad una “pace cartaginese”, foriera di nuovi conflitti, che puntualmente si sono verificati.
Sulla scia del libro di Keynes dovremmo forse chiederci che tipo di trattamento riservare alla Russia nelle future trattative di pace (che, al momento, sembrano lontane dal verificarsi) per evitare una conflittualità permanente tra grandi potenze e per definire un assetto economico globale che consenta all’Europa e al nostro Paese di riprendere la strada della crescita, appena intrapresa dopo lo shock pandemico.
Pur con grandi incertezze quello che si sta muovendo in questi mesi delinea tre direttrici di cambiamento epocali:
- Un ripensamento della globalizzazione: la guerra, assieme alla perdurante pandemia, ha bruscamente interrotto il sogno di un mondo in pace, basato sul commercio e sul consumo come volano di un’omogeneizzazione anche politica e culturale. Quello che stiamo vedendo è invece il ritorno ad un multipolarismo sul piano politico e l’interruzione delle catene del valore globale sul piano economico. Sul primo aspetto (multipolarismo politico), dobbiamo prendere atto che forse la divisione del mondo tra buoni e cattivi non ci porta molto lontano e che i nostri sistemi democratici, basati su valori condivisi di libertà e autodeterminazione dei popoli, sono disprezzati da un parte del mondo. L’insegnamento che dovremmo trarre è imparare a difendere questi valori, che costituiscono l’essenza della nostra identità occidentale, almeno all’interno delle nostre società, evitando derive da cancel culture e provando a rendere le nostre democrazie sistemi di convivenza politica e sociale dalle fondamenta più solide, più efficaci, più consapevoli della propria storia. Sul secondo aspetto (rottura delle catene del valore globali) le conseguenze sono davanti ai nostri occhi: pensiamo al porto di Shangai dal quale parte una grande quota dei semiconduttori o dei microchip che fanno funzionare i nostri computer e che adesso è bloccato a causa del lockdown imposto dal governo cinese. Oppure pensiamo alla lievitazione dei costi della logistica e dei trasporti dovuta allo shock energetico. Secondo Assarmatori il prezzo del trasporto di un container standard da 40 piedi tra Shanghai e Genova ha subito un’impennata del 545% rispetto ad un anno fa. Ecco allora che oggi un produttore di piastrelle italiano paga circa 12mila euro per spedire le merci in Estremo Oriente, mentre un anno fa ne avrebbe spesi 3mila. Poiché sarà difficile tornare alla situazione del 2019, nel lungo periodo le filiere produttive dovranno inevitabilmente tornare ad accorciarsi e i singoli Paesi riprendere almeno in parte a produrre su scala locale o regionale.
Ciò può aprire la strada a quella che è una grande opportunità per il nostro Paese, la rinascita della grande tradizione manifatturiera italiana. La guerra ha infatti messo in evidenza le conseguenze nefaste di un’eccessiva dipendenza dall’estero in alcuni settori chiave, come l’energia, ma anche l’agroalimentare e lo stesso turismo. Questa può essere l’occasione per potenziare le nostre produzioni nazionali, per rafforzare il nostro capitale industriale, per ritornare insomma a produrre beni strategici. E magari, chissà, questa sarà anche l’occasione, per rendere più semplice il fare impresa in Italia, per alleggerire gli adempimenti, per accelerare la costruzione delle infrastrutture.
- Un’accelerazione della transizione energetica, ma senza spinte ideologiche eccessive. Dal momento che abbiamo capito che le nostre società hanno un bisogno incredibilmente elevato di energia, gli obiettivi del Green Deal vanno perseguiti ma con un senso di realtà, senza penalizzare eccessivamente i nostri interessi, senza spingere su obiettivi che hanno costi anche sociali che non possiamo permetterci, soprattutto nella consapevolezza che tali obiettivi devono essere condivisi da tutti i Paesi, anche e soprattutto da quelli che non ci piacciono sul piano etico-morale ma con cui dovremo inevitabilmente trattare perché sono quelli che ad oggi inquinano maggiormente (Cina, India, ma anche la stessa Russia). Tutto questo accelererà senz’altro la corsa alle fonti rinnovabili, ma nel breve termine potremmo ancora aver bisogno del carbone e delle fonti tradizionali. La guerra in questo senso può rappresentare un catalizzatore di innovazione ma anche un monito a tenere i piedi per terra ed ad operare con pragmatismo.
- Un nuovo ruolo dell’Europa come regione globale autonoma, anche rispetto al partner USA. La guerra sta purtroppo bloccando quel barlume di ripresa economica di cui tanto il nostro continente aveva bisogno dopo la pandemia. Nel primo trimestre dell’anno la ripresa europea – ha certificato pochi giorni fa l’Istat – si è fermata: il Pil francese è fermo (0%), l’Italia è a -0,2%, la Spagna cresce debolmente di un +0,3%. Cresce anche l’inflazione, arrivando ad aprile al 7,5% (conseguenza del +38% dell’energia, del +6,4% del cibo, del +3,8% degli altri beni industriali. Non a caso gli economisti cominciano a parlare di spettro stagflazione, che rappresenterebbe il maggiore pericolo per le economie reali. Dall’altra parte l’economia degli Stati Uniti d’America, fisicamente lontana dalla guerra e dunque meno interessata alle conseguenze economiche del conflitto, pur con un rallentamento nel primo trimestre, sta registrando una crescita nell’ordine di oltre il 6,5% e sembra non particolarmente interessata ad una pace a breve termine.
Anche in questo caso dovremmo abbandonare gli approcci ideologici e rifuggire da qualche ipocrisia che serpeggia tra i nostri leader europei. Davvero pensiamo che nel lungo periodo potremo fare a meno, come gli Stati Uniti, del gas russo? Davvero siamo disposti ad una riduzione di consumo energetico drastica e permanente? E poi: davvero pensiamo che prendere il gas dalla Nigeria, dall’Egitto e dall’Angola ci metterà al sicuro e sopirà la nostra coscienza di difensori della democrazia e della libertà?
Questi sono almeno alcuni degli scenari che dovremmo tenere a mente nel costruire la pace. Se vuoi davvero la pace, comincia a costruirla sin da prima che scoppi una guerra e, se questa è ormai esplosa, impedisci che l’incendio divampi. Un sapere davvero strategico deve mostrarsi capace di unire aspetti economici, politici, sociali e culturali. È su un tale sapere che potremo misurare se e quanto sarà effettivamente cresciuta il tasso di unità politica dell’Europa.