Alessandro Della Casa (1983) è assegnista presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze dell'Educazione dell'Università degli Studi di Torino, nonché docente a contratto di Storia del pensiero politico presso l’Università degli Studi della Tuscia. Ha conseguito l’abilitazione a professore di II fascia in Storia delle dottrine e delle istituzioni politiche (2022-2033). È autore di numerosi articoli e delle seguenti monografie: Contro la tirannia della maggioranza. La democrazia secondo John Stuart Mill(2009); L’equilibrio liberale. Storia, pluralismo e libertà in Isaiah Berlin (2014); Isaiah Berlin. La vita e il pensiero (2018); La dinamo e il fascio. Volt, l’ideologo del futurismo reazionario (Sette Città, 2022). Nel 2022 ha ricevuto il Premio Isaiah Berlin - Monografie e il Premio Dino Garrone.

Recensione a
M. Oakeshott, Lezioni di storia del pensiero politico
a cura di S. Pupo
Jouvence, Milano 2022, pp. 540, € 30.00.

A testimonianza dell’interesse che va facendosi largo anche in Italia nei confronti dell’opera del britannico Michael Oakeshott, è ora disponibile Lezioni di storia del pensiero politico (Jouvence, Milano 2022, pp. 540), curato e tradotto da Spartaco Pupo, da tempo impegnato nello studio del filosofo. Il volume raccoglie i testi delle partecipatissime lezioni di Political Science che Oakeshott tenne presso la London School of Economics sul finire degli anni Sessanta, pubblicati postumi in lingua originale solo 2006, sulla base dei dattiloscritti circolati privatamente e di quelli conservati dall’autore, che vi aveva apporto alcune correzioni a mano, segno probabile del desiderio che ottenessero una più ampia diffusione.

Fondamentale per comprendere l’ottica adottata e alcuni caratteri essenziali del pensiero politico oakeshottiano è la lezione introduttiva, nella quale era affermata la volontà di fornire uno “studio storico”. Si trattava di scoprire “cosa è stato effettivamente creduto, pensato e detto sulla politica e con il linguaggio della politica, di volta in volta e di luogo in luogo, da alcuni popoli europei durante gli ultimi tremila anni”, in relazione con le “circostanze concrete della loro apparizione”. La storia, secondo una prospettiva avanzata da Oakeshott sin nel giovanile Experience and Its Modes, era quindi intesa quale modo del pensiero nel quale “situazioni azioni e credenze” sono considerate in base al loro “contesto circostanziale”, a sua volta caratterizzato – ma non meccanicisticamente determinato – da “altre situazioni, azioni e credenze”, la cui conoscenza risulta fondamentale allo storico per afferrare il significato dell’evento o del comportamento sul quale sta indagando. Come nota il curatore, la ragione per la quale, con l’eccezione di Platone, Aristotele, Agostino e Tommaso d’Aquino, nel corso delle conferenze era trascurato l’approfondimento di singoli pensatori politici e, in special modo, di quelli moderni (compresi Hobbes, Hume, Burke e Hegel ai quali Oakeshott aveva prestato maggiore attenzione in altre opere), può certamente derivare da tale convinzione, unita a quella secondo cui i moderni si erano dedicati a riformulare e adattare le teorie di epoca antica e medievale.

Difatti egli chiariva che il suo studio escludeva la possibilità di una “storia continuativa del pensiero politico europeo” sullo stile dei “libri di avventura”; poiché egli non rilevava l’esistenza di un’entità in quanto “pensiero politico” nella quale, attraverso un progressivo accrescimento di saggezza, si fosse avanzati de claritate in claritatem nell’affrontare le questioni politiche. Piuttosto, ciò che la ricerca avrebbe potuto mostrare sarebbero state le differenti modalità con cui gli individui, a vario titolo, avevano riflettuto e si erano impegnati nella politica.

Questa da Oakeshott andava intesa come attività umana “tipica”, ma “acquisita” e non “primordiale” né connaturata all’uomo, dal momento che era sorta e si era mantenuta solo nella compresenza di tre specifiche condizioni, che si erano date innanzitutto in Europa attraverso la volontaria o imposta unificazione di differenti tribù. Innanzitutto la presenza di una “pluralità di esseri umani” che costituiscono un’associazione e condividono “costumi” e “regole di condotta comuni”, ma al tempo stesso presentano “diversità di sensibilità, sentimenti, credenze, atteggiamenti”: la politica è “l’attività con cui una società si prende cura delle sue diversità. Una società priva di diversità, infatti, è destinata ad essere una società senza politica”. Secondo elemento necessario era individuato nella presenza di una “autorità di governo” riconosciuta nella custodia della legge e nell’organizzazione degli “affari comuni” (ossia pubblici), attraverso strumenti legittimi. Ultimo requisito, e il più importante: “l’autorità, la legge e gli strumenti di governo” devono essere tenuti per modificabili; ovvero si deve presupporre la possibilità di “azioni alternative” tra le quali scegliere.

Qui, secondo il filosofo, sta la cifra della politica, non soltanto in quanto governo, ma pure in quanto riflessione, persuasione, sollecitazione in merito agli atti da compiere tanto nei confronti degli altri membri dell’associazione quanto nei riguardi di chi ha l’autorità per agire. Da ciò conseguiva il peso attribuito alla dimensione linguistica, al “vocabolario politico-pratico”, composto di termini settoriali e di termini che, pur provenienti dal linguaggio ordinario, hanno acquisito uno specifico significato tanto all’interno di quella sfera di pensiero e di attività quanto entro la specifica “significativa esperienza politica”.

Se la “capacità” di utilizzare il vocabolario politico-pratico è “la prima delle arti politiche”, pure diventa imprescindibile nell’analisi politica la conoscenza delle parole e delle funzioni da esse concretamente svolte nel loro peculiare contesto ed entro la cornice di una “organizzazione intellettuale”, di una “cultura politica”. Quattro erano quelle a cui Oakeshott dedicava le sue lectures: le città-stato greche, la repubblica e l’impero di Roma, i regni feudali e gli stati moderni europei. Nei greci dell’antichità egli individuava i consapevoli inventori della politica, incapaci però di assicurare la stabilità delle proprie istituzioni (e perciò il ricorso alla teoria della ciclicità delle forme politiche), diversamente dai meno speculativi romani, maestri nell’arte della conservazione dello Stato oltre che fondatori del concetto di diritto. I contributi principali del pensiero medievale, invece, erano consistiti nella distinzione tra dominio e potere e nell’aver posto l’ufficio della rappresentanza, prima ancora – rileva Pupo nella sua prefazione – che il principio a essa correlato fosse introdotto dai moderni. E d’altra parte il rapporto tra medioevo ed età moderna era visto più all’insegna della continuità che non della frattura: il moderno governante era, e continuava a essere, sotto mentite spoglie il principe-vescovo o il principe-devoto, da un punto di vista rispettivamente cattolico e protestante.

Tenendo a mente anche le pagine di On Human Conduct, ultima opera di Oakeshott, l’elemento che maggiormente risalta nelle lezioni dedicate al compito del governo nella modernità è il contrasto tra i poli opposti della nomocrazia e della telocrazia. Con il primo termine Oakeshott indicava la convinzione che il governo debba occuparsi di garantire “un sistema di diritti e doveri legali”, che consenta ai governanti di perseguire i propri fini senza derogare all’unità dell’associazione politica che esso ha in custodia. La “linea di pensiero” telocratica, invece, concepisce diritti e doveri in vista di uno “scopo sociale generale” già “premeditato” imposto ai sudditi, andando dunque a ridurre. Ancora nella tensione tra queste due disposizioni, concludeva il filosofo, permaneva l’esperienza politica europea, che egli prevedeva destinata “prima o poi” a essere seguita da un’altra. Questa, più che ruotare attorno al trionfo definitivo di una delle due tendenze, avrebbe offerto “qualcosa di nuovo”.

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