Avvocato e dottore in Scienze storiche. Ha al suo attivo pubblicazioni sul federalismo (Le origini del federalismo: il Covenant, 1996; Il sacro contratto. Studio sulle origini del federalismo nordamericano, 1999). Ha inoltre pubblicato Sovranità. Teologia e sacro alle origini di una categoria politica (2015); Il regime alimentare dei monaci nell'alto medio evo (2017), Paura e Rivoluzione francese nell’opera di Guglielmo Ferrero (2021); Un nuovo romanticismo per il nuovo secolo (2024) . Inoltre ha curato la riedizione del volume di Guglielmo Ferrero Palingenesi di Roma antica (2019). E' autore di articoli e relatore in convegni di studio.
Recensione a
R. Lucarelli (a cura di), Margaret Thatcher. Leadership e libertà
Historica – Giubilei Regnani, Roma 2019, pp. 126, € 14.00.
Adorata dai liberisti e dagli anticomunisti, dai patrioti e dagli euroscettici; odiata dagli statalisti e dai socialisti, dagli internazionalisti e dagli europeisti. E ancora: considerata una icona del ceto medio imprenditoriale e una bestia nera del sindacalismo, Margaret Thatcher non cessa oggi come già ai suoi tempi di dividere analisti, storici, economisti e anche la gente comune, in primis i britannici. Una eredità controversa la sua, ma persino gli avversari più accaniti riconoscono la grandezza storica di Lady Thatcher e la profonda, duratura trasformazione sociale (nelle luci e nelle ombre) associata alle sue politiche. Sul versante non diremo apologetico ma certamente simpatetico si colloca il libro che oggi brevemente commentiamo. Il volume raccoglie gli atti di un convegno organizzato nel 2014 dall’associazione “Rete Liberale” a cui parteciparono relatori di qualità (l’economista C. Magazzino; gli analisti G. Zucco, L. Castellani e R. Lucarelli, e infine il più autorevole e noto thatcheriano d’Italia: l’economista ed ex ministro Antonio Martino).
La simpatia di fondo per le politiche thatcheriane che anima gli Autori nulla toglie alla serietà scientifica dei contributi. Lo scopo perseguito dagli Autori non si esaurisce in una ricostruzione storica ma si rivolge a noi perché i caposaldi ideali del thatcherismo vengono proposti come una possibile ricetta per guarire il grande malato di oggi: l’Italia. Il grande malato di allora, la Gran Bretagna, versava in una situazione economica pietosa. Come ricorda Cosimo Magazzino nel suo intervento (L’eredità del Thatcherismo) incentrato sulle tematiche economiche e che è anche il più robusto e articolato dell’intero volume, il Regno Unito del 1978 si attanagliava nelle spirali di statalismo, fiscalismo, disoccupazione, stagflazione, e soprattutto in una abulìa psicologica di quello che era stato un grande popolo e che ora sembrava condannato al declino. Tutti gli indicatori macroeconomici volgevano al negativo, ma «il problema centrale del Paese era costituito dal livello decisamente basso della produttività del lavoro» (p. 28). Come uscire dall’impasse?
La classe politica britannica (tutta: laborista e tory) continuava a riproporre le solite ricette keynesiane del “tassa e spendi”: emissione continua di cartamoneta, tassazione elevata, deficit, controllo di salari e prezzi. Antonio Martino in altra parte del volume individua proprio nella allora dominante influenza delle dottrine di Keynes la ragione del catastrofico stato dell’economia britannica. Giunta al potere, Thatcher individuò immediatamente il nemico da abbattere: uno Stato troppo presente nell’economia e nella società, uno Stato che con la politica dei sussidi disincentivava i cittadini, li incoraggiava anzi a riposare tra le calde braccia dell’assistenzialismo burocratico. «Lo Stato impoverisce la società non solo togliendole la sua ricchezza ma anche l’iniziativa, l’energia, la volontà di migliorare e innovare», ripeteva Thatcher nei suoi discorsi pubblici. E a questo principio-guida sempre si attenne con inflessibilità quando si trattava di colpire interessi precostituiti e applicare la sua ricetta. “Sua”, ma in realtà presa in prestito dalla scuola austriaca e dai monetaristi, ossia dalla “Nuova macroeconomia classica” che già da decenni spingeva per il superamento di Keynes e un ritorno al libero mercato. E così Thatcher optava per le soluzioni di free economy grazie alle dottrine di Milton Friedman; da von Hayek derivavano le idee orientate alla tutela dei diritti di proprietà; da Schumpeter la teoria della “distruzione creatrice” (cioè l’espulsione dal mercato delle imprese non competitive). In particolare la “distruzione creatrice” segnò un punto di rottura dai costi sociali elevatissimi nel primo triennio thatcheriano ma già dal 1982 rese possibile la lunga stagione di crescita economica, insieme con il recupero della competitività e della produttività.
Insomma: un punto sottolineato dai due Autori economisti (Magazzino e Martino) è l’abilità di Thatcher di far proprie le buone idee dei neo-classici e di tradurle magistralmente in pratica. La signora non inventò nulla ma, insiste Antonio Martino, furono «la sua leadership, il suo coraggio, la sua determinazione e la sua integrità intellettuale a permettere a quelle idee di ispirare le politiche economiche effettive». Da par suo Magazzino non si nasconde che tali politiche furono divisive e dagli elevati costi sociali e tuttavia ancora oggi le riforme strutturali del decennio thatcheriano «definiscono l’identità del Paese» (p. 63), fondata sulla libertà inglese e non giacobina: il diritto a essere liberi e quindi diseguali ciascuno in relazione ai propri talenti e capacità.
Interessante e molto polemico il contributo di Giacomo Zucco, dove si fa chiarezza tra le abissali differenze che passano tra la austerity tatcheriana e quella del governo Monti (ricordiamo che i saggi del volume risalgono al 2014): il rigore thatcheriano non aveva nulla in comune con la politica di austerity di matrice tedesca portata avanti da Mario Monti il quale oltretutto come economista «è una delle incarnazioni più emblematiche dello statalismo e della statolatria: l’esatto contrario di Lady Thatcher» (p. 69).
Il contributo di Riccardo Lucarelli sulla politica estera della Iron Lady ricostruisce sinteticamente il ruolo della Gran Bretagna, che con Thatcher tornò tra le protagoniste del panorama internazionale: quarta o quinta potenza economica, prima potenza militare dell’Europa occidentale, dimensiona atlantica e globale (Global Britain) delle sue relazioni, un Commonwealth rivitalizzato e un Premier carismatico e di polso. Aspetti ben noti
Preferiamo quindi trattare un po’ più da vicino un aspetto meno noto del thatcherismo, solitamente lasciato in ombra e che attiene alle incisive politiche di Thatcher nei confronti della burocrazia statale. Il tema è esaminato nel contributo di Lorenzo Castellani (pp. 73-82) e merita di essere portato all’attenzione dei lettori perché – appunto – poco noto e inoltre perché può additare a noi italiani, afflitti dal secolare male dell’inefficienza burocratica statale, un possibile itinerario di rinnovamento. Ora, l’antistatalismo – articolo di fede del neoliberismo thatcheriano – non ha mai significato per Thatcher annichilimento dello Stato bensì recupero dell’efficienza e dell’efficacia dell’azione statale nella sfera che gli pertiene. Il progetto thatcheriano puntava alla libera concorrenza economica ma anche a uno strong State, ossia uno Stato minimo efficiente e efficace. Ciò si tradusse in un assalto energico e senza compromessi alla vecchia macchina burocratico-statale di matrice keynesiano-assistenzialistica. Già nel 1979 Thatcher si scontrò con questa macchina che versava in uno stato critico e non ulteriormente sopportabile: costi elevati, personale in esubero ma intoccabile, inefficienze diffuse, rigidità retributive, smaccati privilegi pensionistici, arroccamenti delle consorterie sindacalizzate e veto delle trade unions su ogni proposta di riforma. Il dominio dei civil servants significava la difesa di rendite di posizione di una burocrazia per le cui mani transitavano i flussi finanziari delle politiche keynesiane. Anche per la rottura dello sclerotizzato comparto del pubblico impiego Thatcher non inventò nulla di nuovo ma si appropriò di un arsenale di idee bell’e pronte ma inutilizzate: le dottrine del New Public Mangement, dottrine neo-liberiste incentrate sulla proposta «di applicare i princìpi dell’impresa privata al settore pubblico, portando il mercato nello Stato» (p. 75). Si istituì la Efficency Unit guidata da Derek Ryner, fedelissimo della signora Thatcher e che a lei direttamente riportava. Orientamenti di decisa meritocrazia si tradussero nella valorizzazione di quei dirigenti pubblici propensi a ragionare in termini di efficienza di mercato e di rigida aderenza ai vincoli di bilancio. Questi dirigenti “illuminati” divennero gli alleati naturali della riforma thatcheriana del pubblico impiego. Ma andavano scalzate le resistenze delle consorterie.
Vinta dopo mesi di scioperi la guerra al sindacato dell’impiego pubblico (guerra durissima almeno quanto quella, ben più famosa, condotta contro il sindacato dei minatori), il governo conservatore introdusse un sistema premiale di valutazione delle prestazioni professionali dei singoli dirigenti e – elemento fondamentale – una flessibilità retributiva legata al conseguimento degli obiettivi. Il risultato? «In dieci anni i privilegiati civil servants vennero trasformati in manager pubblici con retribuzioni di risultato, competizione interna e corsi di formazione continua» (p. 77). Qui, come altrove, Thatcher procedette con rigidità e inflessibilità senza curarsi delle tensioni sociali e del temporaneo incremento di disoccupazione. Ma alla lunga la società trasse evidenti benefici al punto che i governi successivi mantennero le riforme thatcheriane della pubblica amministrazione. Lo Stato (apparato burocratico) era ora snello, si occupava di ambiti più ridotti rispetto all’epoca precedente, ma nella sua propria sfera operava con efficacia e efficienza: la qualità soppiantava la quantità. Il presupposto che rese possibile la realizzazione di una così radicale riforma del comparto pubblico risiede, non da ultimo, nella ferma consapevolezza in Lady Thatcher di «una netta demarcazione tra quello che lo Stato deve fare e ciò che lo Stato non deve fare» (p. 80).
Una lezione da riprendere.