Avvocato e dottore in Scienze storiche. Ha al suo attivo pubblicazioni sul federalismo ("Le origini del federalismo: il Covenant”, 1996; "Il sacro contratto. Studio sulle origini del federalismo nordamericano", 1999). Ha inoltre pubblicato "Sovranità. Teologia e sacro alle origini di una categoria politica" (2015); "Il regime alimentare dei monaci nell'alto medio evo” (2017), “Paura e Rivoluzione francese nell’opera di Guglielmo Ferrero” (2021). Inoltre ha curato la riedizione del volume di Guglielmo Ferrero "Palingenesi di Roma antica” (2019). E' autore di articoli e relatore in convegni di studio.
Recensione a
N. Matteucci, N. Bobbio, Positivismo giuridico e costituzionalismo
Scholé-Morcelliana, Brescia 2021, pp. 178, € 16,00.
Da due anni viviamo il dramma della pandemia. E da due anni i sistemi giuridici degli Stati europei fibrillano sotto i colpi della perdurante emergenza. La risposta dei governi si è articolata in una centralizzazione di poteri e competenze in capo all’esecutivo senza precedenti nella storia recente, con un profluvio di decretazioni d’urgenza dai contenuti fortemente restrittivi di alcune libertà costituzionali dei cittadini. Da qui accese polemiche tra i fautori della sicurezza sanitaria e i fautori della difesa delle libertà. Ma chi stabilisce chi ha ragione nelle scelte di contemperamento di opposte esigenze primarie? La risposta più diffusa al livello del sentire comune è stata: il detentore legale, positivo, del potere, ossia il governo con il parlamento ridotto al ruolo di organo confermativo delle scelte dell’esecutivo. Ma è proprio così?
L’emergenza pandemica ha avuto se non altro il merito di riproporre in termini drammatici il plurisecolare dilemma della prevalenza giuridica della norma di diritto positivo rispetto a leggi e princìpi di rango superiore (costituzionali, giurisprudenziali, etici, di diritto naturale etc). Questa contestualizzazione rende attualissima e profittevole la rilettura di un classico del pensiero giuridico-costituzionale italiano: il densissimo articolo Positivismo giuridico e costituzionalismo apparso a firma di Nicola Matteucci (1926-2006) sulla prestigiosa «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile» nel 1963 e oggi meritoriamente riproposto all’attenzione del pubblico dall’editrice Scholé-Morcelliana, con introduzione di Tommaso Greco. Al saggio di Matteucci segue (pp. 159-169) la breve risposta di Norberto Bobbio alle acuminate critiche dell’allora giovane studioso bolognese.
Matteucci, grande storico del costituzionalismo e raffinato interprete della cultura giuridica contemporanea, fu anche un intellettuale politicamente impegnato: liberale tocquevilliano, egli pone al centro delle sue riflessioni la libertà (anzi: le libertà storiche, empiriche) e attribuisce al diritto due contenuti valoriali. Uno è la giustizia, non che coincide con la legalità vigente ma rinvia alla legge e alla ragione naturali. Un diritto ingiusto sarebbe una contraddizione in termini. L’altro è il limite: limite al potere, limite all’atto di imperio e al volontarismo del legislatore a tutela delle libertà. In questa concezione il costituzionalismo, sin dall’epoca medievale, segna con le sue complesse procedure e tecniche di articolazione di leggi e poteri, il trait d’union tra il diritto e le libertà: un legame – scrive Matteucci – ontologico, consustanziale. Non si dà diritto senza libertà e viceversa.
La cultura giuspubblicistica dell’Italia del 1963 risultava ancora refrattaria al costituzionalismo e ai presupposti giusnaturalistici di questo. È vero (come Matteucci scriveva nel 1964)[1] che dopo il 1945 si era assistito a «un improvviso ritorno agli antichi princìpi del giusnaturalismo», ma la tradizione statualistica del positivismo giuridico impregnava grevemente la forma mentis di giuristi e politici. Il dogma del positivismo giuridico, che Matteucci affronta di petto, è riducibile epigrammaticamente: «il diritto è un semplice comando posto dal sovrano» (p. 31). La grande tradizione del positivismo giuridico ottocentesco aveva segnato il passaggio dalla legge concepita come dichiarativa di diritti pre-esistenti (radicati negli usi e consuetudini, nella storia, nella ratio naturalis o nel diritto sacro) a una legge concepita ora in termini prettamente volontaristici, quale atto di imperio del sovrano, ove questo sovrano assumeva i contorni dello Stato.
Come si inserisce Norberto Bobbio nella classica contrapposizione tra costituzionalismo di matrice giusnaturalistica e positivismo giuridico? Gli scritti dell’intellettuale torinese trovano una minuziosissima disamina in Matteucci (e Bobbio glielo riconosce: «mi creda: anch’io sono vittima della disseminazione dei miei scritti nelle più diverse riviste e stento a raccapezzarmici … la Sua meticolosità bibliografica è davvero esemplare», p. 159) e il lettore interessato trarrà da queste pagine una lezione di critica argomentativa di rara chiarezza logico-concettuale ma anche un godimento intellettuale. Qui possiamo notare come Bobbio, pur professando il suo distacco dal positivismo giuridico classico (il positivismo di matrice statualistica), resti pur sempre ingabbiato, secondo Matteucci, nella teoria dello statualismo giuridico. Bobbio in realtà propone una tripartizione del positivismo e distingue il metodo positivista, l’ideologia positivista e la teoria positivista, salvando il primo e respingendo le ultime due. Matteucci è troppo storicista, troppo legato alla corpulenta fattualità, complessità e contraddittorietà delle vicende umane, comprese le vicende del positivismo giuridico, per accettare le classificazioni astratte e idealtipiche elaborate con logica maestrìa da Bobbio. E comunque non si esime dal criticare quello che lui stesso indica come il neopositivismo di Norberto Bobbio. Questo neopositivismo cerca di superare lo statualismo facendo leva su almeno tre argomentazioni: 1) la scientificità neutra e a-valutativa della giurisprudenza; 2) la teoria della efficacia rafforzata della sanzione; 3) la teoria della norma giuridica fondamentale. Non è possibile in questa sede un esame compiuto delle tre argomentazioni. Limitiamoci a qualche cenno in relazione alla prima e alla terza, invitando il lettore a un confronto diretto col testo di Matteucci.
Il giurista è lo scienziato del linguaggio giuridico, e l’analisi neutra e oggettiva del linguaggio del legislatore costituisce la dimensione davvero scientifica della giurisprudenza. Un giurista così inteso «deve badare soltanto a condurre la sua ricerca con rigore e a delimitare il campo in cui i suoi concetti hanno un significato» (p. 60). Sua funzione precipua consiste nell’analisi del linguaggio normativo secondo procedimenti di logica e metodologia formali incentrati sul rigore definitorio e sul significato puntuale e univoco dei termini. La tecnica ermeneutica secondo Bobbio procede entro un sistema coerente di enunciati e non si arrischia mai al di fuori di questo perimetro, con la conseguenza che il giurista resta appiattito sulla norma positiva ed espelle dal proprio campo di ricerca ogni ispirazione etico-politica (giusnaturalismo) e ogni indagine dei fatti (sociologia del diritto) in quanto “antiscientifiche”. Egli si riduce «a macchina capace di compiere perfetti sillogismi» (p. 137) e deduzioni partendo dal dato normativo. Ma così operando, il diritto si trova circoscritto alla sola legislazione, cioè agli atti di imperio del soggetto sovrano par excellence: lo Stato. Nessun diritto valoriale fuori dallo Stato, e nessuna giurisprudenza scientifica fuori dalle leggi positive. Insomma, secondo Matteucci Bobbio, ispirandosi alla filosofia analitica del linguaggio, ha cercato di aggirare l’ostacolo della teoria statualistica senza però superarlo davvero.
Ma Bobbio ha battuto anche la strada della norma giuridica fondamentale. Egli cioè non nega di principio che possa darsi una norma giuridica di tal fatta (fondante l’ordinamento) anche al di fuori dello Stato. Per Hans Kelsen (uno dei maestri di Bobbio) la norma giuridica fondamentale è il presupposto dell’intero ordinamento giuridico ma se ne pone al di fuori. E anche per Bobbio tale norma resta come un postulato oltre il quale non si può andare. La norma fondamentale si aggira negli scritti di Bobbio come un problema filosofico più che giuridico: una incognita. Ma poi Bobbio, a differenza di Kelsen, traduce questa norma in termini prescrittivi: la norma fondamentale acquista giuridicità solo se in grado di obbligare tutti i cittadini a obbedire a tutti i comandi di chi possiede l’effettività del comando. Ma torniamo così all’antico brocardo regis voluntas suprema lex est e al diritto basato sul volontarismo e, in definitiva, sulla forza del potere sovrano-statuale. E a nulla varrebbe argomentare che nei regimi democratici il diritto poggerebbe non sulla forza ma sul consenso. Infatti: a) la volontà generale rousseviana è illusoria e il realismo politico ci insegna che chi comanda non è “il popolo” ma le oligarchie capaci di controllare i meccanismi di funzionamento dello Stato; b) in ogni caso proprio l’esperienza dell’odierna pandemia ci rammenta che le legislazioni di emergenza, anche negli ordinamenti democratici, prescindono dal consenso (che quindi resta un fatto contingente e accidentale riguardo la giuridicità o meno di un dato ordinamento).
Al legislatore sovrano legibus solutus e alla norma giuridica fondamentale impoverita a mera forza il costituzionalista Matteucci contrappone la norma fondamentale dei giusnaturalisti: «Un insieme di princìpi etico-giuridici sottratto alla libera disponibilità di chi possiede la forza … ma fondati nel consensum gentium» (p. 86), un consenso non coercibile dalla volontà del sovrano perché sgorgante spontaneamente, irriflesso e intuitivo, dalla vita storica. E si spinge ancora oltre quando individua nel diritto naturale «il solo antidoto al dogma della onnipotenza del legislatore, la sola efficace difesa contro la prepotenza dei gruppi» di potere (p. 153). Il costituzionalismo di Matteucci è figlio del giusnaturalismo e del medio evo inglese, dunque. E d’altronde il principio lex supra regem è schiettamente medievale nel suo autentico spirito. Matteucci, imbevuto di anglosassone judicial review e ammiratore della Corte Suprema statunitense, esalta la concreta attività giudiziaria capace di porre il diritto al di sopra della norma positiva. Egli scriveva nel 1963. Resta da chiedersi se oggi, dopo svariati lustri di abusi commessi della corporazione giudiziaria, sarebbe ancora così ottimista: probabilmente sì sul piano teorico, molto meno su quello fattuale.
Torniamo infine a Norberto Bobbio, con una conclusione che non conclude. Se il diritto dei giudici (iurisdictio) limita il diritto positivo del sovrano (gubernaculum), scrive Bobbio, chi può modificare il diritto dei giudici? «Se non lo può modificare nessuno tranne altri giudici, vuol dire che il potere dei giudici è al di sopra del diritto» (p. 168): regis voluntas suprema lex, dove il Re non è più lo Stato dei positivisti ma il Giudice.
Note:
[1] N. Matteucci, Breve storia del costituzionalismo, Morcelliana, Brescia 2010, p. 91.