Laureato in Scienze Politiche al «Cesare Alfieri» di Firenze, si interessa di storia del periodo fascista e dell’Italia repubblicana. Sul fascismo apuano ha pubblicato Al gancio del Negroni. «Il Popolo Apuano» di Stanis Ruinas. Fascismo rivoluzionario e Regime nella provincia del marmo (Solfanelli 2016) e Fascismi di provincia. Pontremoli e l’Alta Lunigiana 1919-1925 (Youcanprint 2019). Ha pubblicato saggi e articoli su riviste di studi storici («Rassegna Storica Toscana», «Nuova Antologia», «Diacronie») e sulla rivista on line del Centro Studi Geopolitica.info.

Recensione a: P. Nenni, Sei anni di guerra civile in Italia. Un libro bruciato dai nazisti, Arcadia edizioni, Roma 2023, pp. 232, € 14,00.

Nel 1930 Pietro Nenni, in esilio in Francia dal 1926, pubblicava a Parigi Six ans de guerre civile en Italie. Tradotto in più lingue, finito nel rogo nazista di libri del maggio 1933, pubblicato in Italia nel 1945 con alcuni tagli e ricomposizioni, è stato recentemente riproposto in edizione integrale a cura della Fondazione Pietro Nenni.

Come ricorda Antonio Tedesco, nel saggio introduttivo alla nuova edizione, il 1930 trovava il fascismo rafforzato dopo la Conciliazione con la Chiesa e il plebiscito del 1929, mentre gli antifascisti erano divisi e dispersi. Il libro, più pamphlet politico che saggio storiografico, era un atto d’accusa contro i ceti borghesi che avevano armato il fascismo, contro gli apparati dello Stato complici dei fasci, contro il ceto politico liberale, perso nei giochi parlamentari e incapace di comprendere e gestire la crisi del paese. Il libro intendeva incoraggiare la lotta contro il fascismo e offrire il conforto della fede in un ritorno alla libertà, che Nenni prefigurava con chiaroveggenza nel crollo del regime in una guerra a cui lo avrebbe condotto il suo bellicismo.

Tuttavia, non mancano alcune riflessioni più propriamente storiografiche. Basti citare il ruolo, sottolineato da Nenni, dei ceti medi, che, infervorati di nazionalismo, diedero al fascismo la forza decisiva:

Se il fascismo fosse stato soltanto un movimento di reazione politica e sociale, esso sarebbe da un pezzo liquidato. Mai avrebbe trovato nei ceti medi i concorsi necessari per mantenersi in sella, se non si fosse presentato come un movimento nazionalista deciso a vendicare i torti veri ed immaginari sofferti dal paese durante e dopo la guerra. Le sole adesioni spontanee al fascismo sono state quelle di patrioti esasperati (p. 201, Kindle ed. come in seguito se non diversamente indicato, ndr.).

Renzo De Felice rilevò che questo «elemento particolare», l’ideologia del fascismo, arricchiva l’analisi di Nenni, pur sempre nell’ambito dell’impostazione classista della “reazione borghese”. Il ruolo della piccola borghesia non era una novità, già sottolineato da intellettuali liberali, accolto e sistemato più tardivamente nelle letture marxiste.

Six ans de guerre civile en Italie è soprattutto un libro di ricordi e di testimonianza, «frutto di un robusto giornalismo militante», ha scritto Enzo Santarelli. Nenni era un giornalista la cui prosa icastica, sottolineata da Fabio Martini nell’introduzione a questa edizione, trovava la sua migliore espressione nei ritratti che intarsiano il libro, alcuni dedicati al ricordo commosso di vittime della violenza fascista, da Amendola a Matteotti, a Di Vagno e altri meno noti e dimenticati.

Uomo di sentimento, intellettualmente onesto, Nenni non nascose l’amicizia giovanile con Mussolini, neppure in quel 1930, quando il suo ricordo poteva alimentare gli attacchi degli avversari, come i comunisti che lo bollavano come campione del “socialfascismo”. Nenni rievoca sin dalle prime righe l’ultimo incontro con Mussolini a Cannes nel marzo del ’22, descrive la sua personalità, i suoi caratteri plebei, aggiungendo il ricordo del padre, uno dei primi internazionalisti, uomo generoso e leale. Nenni coglie l’aspetto distintivo del futuro duce: «Tutti i tentativi fatti da lui per dare una base dottrinaria alla sua azione si esaurivano nel suo istintivo pragmatismo. Aveva per sistema di non averne. L’azione era il suo credo» (pp. 47-48). L’attivismo, esito delle influenze volontariste degli anni di inizio secolo in cui Mussolini si era formato, rimase la sua cifra politica fino alle sue ultime scelte.

Un’opera di memorie o un saggio di protagonisti risente del tempo in cui viene scritto. La severa critica del massimalismo socialista del primo dopoguerra espressa da Nenni in Storia di quattro anni. La crisi socialista dal 1919 al 1922 (1927) è più in sordina in Six ans de guerre civile en Italie, forse perché Nenni non intendeva compromettere la riunificazione nel PSI di massimalisti e riformisti e lamentava piuttosto le divisioni interne al partito. Quanto ai tagli dell’edizione del ’45, non lacerano il tessuto del lavoro del ’30. Tuttavia, si notano alcuni tagli che riguardano le incertezze di Mussolini tra le soluzioni politiche e quelle di forza. Nell’edizione del 1945 non si ritrova la visita nel 1920, durante l’occupazione delle fabbriche, di Mussolini al capo della FIOM Buozzi, al quale dice: «Se le fabbriche sono agli industriali o agli operai, non m’importa. Noi fascisti interverremo solo in caso di rivolta a fondo bolscevico» (p. 89; ed. francese p. 90). Né si ritrova l’idea di Mussolini, ribadita a Cannes, di una coalizione tra socialisti, popolari e fascisti per porre termine alla guerra civile (p. 27; ed. francese p. 10). Nella primavera del ‘22, Mussolini temeva l’esaurimento del fascismo, una volta sconfitto il rivoluzionarismo socialista, e s’interrogava sulle alternative. L’incertezza del momento (ben nota alla storiografia) dimostrava come il percorso fascista non fosse determinato, nel ’19, nel ’20 e neppure nel ’22. Nenni ne sembra consapevole, quando ricorda che Mussolini «in quel momento non ha che un vago presentimento del trionfo che gli avvenimenti gli preparano. Forse, se potesse, ritornerebbe indietro» (p. 27).

Nel 1945 non era forse opportuno, nel momento della caduta di un regime inchiodato dalla storia al suo percorso dittatoriale, ricordare che nel ’20-22 lo sbocco mussoliniano nel regime non era segnato. Anche altre modifiche attirano attenzione: nel ’30 l’esistenza di una situazione rivoluzionaria nel settembre 1920, posta in termini interrogativi, era attribuita alla percezione del paese (ed. francese, p. 88), nel ’45 Nenni sostiene che «era non più nelle parole ma nelle cose» (così anche nell’attuale edizione, p. 86).

L’espressione “guerra civile” era in uso tra i contemporanei agli eventi. Tuttavia, essa appariva nel significato descrittivo e moralista di una guerra fratricida o, nella letteratura socialista e comunista, come una manifestazione della lotta di classe. Anche Nenni attribuiva al fascismo l’iniziativa della guerra civile come forma estrema di lotta di classe tra «due partiti, espressione di forze sociali inconciliabili, che si fronteggiavano, non più sul terreno politico o sindacale, ma su quello della guerra civile» (p. 26). Anch’egli incorreva in un’attribuzione unilaterale della violenza politica difficilmente compatibile con la natura di una guerra civile.

Nel secondo dopoguerra, l’espressione “guerra civile” è stata a lungo evitata nel discorso pubblico poiché contrastava con il carattere “universale” che ogni nuovo ordine rivendica alla propria legittimazione, anche quello repubblicano democratico. In campo storiografico, il concetto è stato sdoganato in Italia da Claudio Pavone in riferimento al periodo 1943-45. Il recupero di questo concetto ha aperto al suo utilizzo anche in riferimento al primo dopoguerra, non senza ambiguità e contraddizioni.

In campo storiografico il concetto si prestava a superare la dicotomia tra biennio rosso, dominato dalla “rivoluzione” socialista, e biennio nero, dominato dalla reazione fascista. La categoria di guerra civile unificava i due periodi nell’unico tratto storico di una guerra unilaterale scatenata dal fascismo, ma anticipata e affiancata da azioni repressive antiproletarie dello Stato già durante la guerra e proseguite nel dopoguerra. Questa rilettura intendeva superare lo schema del fascismo come reazione al socialismo rivoluzionario, ridimensionava in chiave difensiva la portata violenta del movimento socialista e smentiva l’autorappresentazione del fascismo come salvatore della patria dal bolscevismo (per la verità, già da tempo confutata in sede storiografica). Tuttavia, poiché l’unilateralità contraddice la nozione di guerra civile, che richiede almeno un altro attore in conflitto, essa rischiava di richiamare in causa la violenza del movimento socialista e riaccreditare l’alibi della reazione fascista. La medesima preoccupazione di superare lo schema rivoluzione/reazione e ridimensionare la violenza socialista ha così suggerito definizioni alternative, ad esempio il fascismo come “controrivoluzione preventiva” (mutuata dal libro di Luigi Fabbri del 1922).

Il recupero del criterio di “guerra civile” resta zoppo, se non affronta la domanda relativa alla predisposizione alla guerra civile da parte della sinistra rivoluzionaria. Questo non rivaluta l’alibi fascista della violenza squadrista come risposta a quella socialista, poiché la violenza era per i fascisti elemento identitario proprio e la loro concezione bellicista della politica non risparmiava altri “nemici”, come il mondo cattolico e l’ordine liberale.

L’uso della “guerra civile” come categoria interpretativa richiede una sua accorta definizione. La guerra civile è comunemente intesa come un conflitto armato che coinvolge ampie parti di una stessa comunità statale. Tuttavia, una definizione del genere non distingue il fenomeno da altri, come un colpo di stato, che coinvolge élites dello Stato in lotta per il potere, o una rivoluzione, che mobilita una parte della società civile per l’instaurazione di un nuovo assetto politico e sociale, o un’insurrezione, legata a motivazioni contingenti e non necessariamente finalizzata a rivolgimenti politici e sociali, o una guerra di secessione. Tutti fenomeni che condividono con la guerra civile l’alto tasso di violenza, di partecipazione sociale e la spaccatura interna a una stessa comunità statale. Essi possono accompagnarsi a una guerra civile, ma restano distinti.

Gabriele Ranzato ha individuato come requisiti essenziali di una guerra civile la perdita del monopolio della violenza da parte dello Stato e l’esistenza di due schieramenti disposti a contendersi il monopolio del potere con mezzi militari. Secondo Ranzato questi requisiti non si riscontrano nel primo dopoguerra italiano, poiché lo Stato non aveva perduto il monopolio della forza e la lotta militare fu avviata da una parte sola, quella fascista.

Roberto Vivarelli, per contro, ha ricostruito un quadro di guerra civile nel primo dopoguerra italiano, dove la violenza non era prerogativa esclusiva dei fascisti, ma era praticata anche dai socialisti con una pressione sociale antagonista verso i “nemici” sociali e politici, non solo con la propaganda rivoluzionaria, ma anche con la predisposizione allo scontro diretto e violento, con l’uso inflazionato dello sciopero politico, con l’espulsione di non allineati e minoranze dalla vita civile nelle “baronie rosse” (boicottaggi, bandi, multe, non escluse le violenze fisiche), un sistema già definito “totalitario” da Angelo Tasca. La violenza socialista non era solo difensiva e non fu solo un epifenomeno di lotte economiche (come sostenuto anche da Luigi Salvatorelli), essa aggrediva non solo il nemico sociale (i “borghesi”), ma anche avversari politici, ex combattenti, ufficiali, forze dell’ordine, clero. Inoltre, Vivarelli aggiunge la perdita di controllo dello Stato liberale, le cui direttive governative non venivano applicate in periferia.

La categoria di “guerra civile” richiama una dimensione etico-politica, poiché il suo carattere distintivo consiste nella divisione violenta all’interno di una stessa comunità statale tra parti che determinano l’appartenenza alla comunità con requisiti identitari opposti e inconciliabili, in base ai quali l’una non riconosce all’altra il diritto di esistere in quanto ritenuta estranea e nemica. L’esito è una lotta armata che non mira solo a uno scopo determinato (il monopolio politico, il mutamento di regime, l’indipendenza), bensì all’eliminazione dell’altro dalla comunità, nel pieno dispiegamento della logica “schmittiana” dell’amico/nemico, potenzialmente fondativa di un nuovo ordine politico.

Lo studio di Vivarelli evidenzia nel primo dopoguerra italiano la contrapposizione di due idee di comunità politica: la comunità di classe del movimento socialista e la comunità di nazione del fascismo (e del nazionalismo), ossia la comunità di proletari uniti nella solidarietà di classe internazionale che escludeva i “borghesi” e la comunità di «credenti» uniti nella fede della «religione della patria», già divenuta «religione della ragion di stato», un nazionalismo illiberale che escludeva gli “antinazionali”. Questa contrapposizione finiva per fare dei socialisti i nemici dello stato nazionale, dei fascisti i suoi difensori. Una contrapposizione che sembra richiamare quella tra “classe” e “patria” che secondo Federico Chabod, maestro riconosciuto di Vivarelli, segnò la «tragedia» del socialismo italiano. Abbiamo visto che Nenni non si era nascosto il fattore del patriottismo “esasperato” nel successo fascista.

La guerra civile fu resa possibile dalle condizioni storiche del primo dopoguerra: la mobilitazione delle masse che la guerra aveva realizzato e che tornavano alla vita civile con rivendicazioni palingenetiche, non solo le masse proletarie con l’idea dell’uguaglianza di classe, ma anche le masse piccolo-borghesi con i loro ideali nazionalisti; la “cultura” bellicista della guerra totale passata dalle trincee alle piazze; la debole legittimazione del liberalismo italiano e dei suoi istituti democratici, contestati da entrambe le parti in lotta, la comunità della classe e la comunità della nazione, entrambe ostili alla comunità liberale dei cittadini; la situazione internazionale, che presentava la novità della rivoluzione russa bolscevica, con la quale la comunità degli eguali sembrava uscire dall’utopia ed entrare nella storia.

Condizioni storiche che offrirono le truppe e i moventi alla guerra civile, ma essa affondava le sue radici nello sconvolgimento morale, di valori, culture e mentalità, nel trauma “antropologico” e nei lasciti palingenetici e bellicisti della Grande guerra. La guerra civile è il risultato di una crisi della coscienza collettiva che si riverbera sulla crisi di legittimazione dello Stato liberale, non può essere costretta e limitata nella lotta di classe o in una variante di violenza politica. La sua adozione come criterio storiografico richiede l’accettazione della sua natura etico-politica, in un significato più pregnante sul piano interpretativo, libero da impulsi di contro-revisionismo preventivo.

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