Georgia Schiavon, giornalista, è dottore di ricerca in Filosofia. Ha pubblicato la raccolta di poesie Scala erotica, il volume Felicità antica e infelicità moderna: l’epicureismo e Leopardi, lo studio Jorge Luis Borges. I paradossi di Zenone: dei precipizi ne "Il giardino dei sentieri che si biforcano", alcuni saggi sull’eterodossia nel Friuli del Rinascimento e diversi articoli su argomenti letterari e storici. Ha tenuto conferenze su Epicuro, Giulio Camillo Delminio, Giacomo Leopardi, Giuseppe Berto, Jorge Luis Borges e interviste sul disastro del Vajont, sul caso dei marò e sulla prima guerra mondiale.

La bellezza, entità terrena e tuttavia irraggiungibile, ideale cui consacrare la vita, fino alla morte. La vita di Yukio Mishima è stata una ricerca della bellezza, nelle sue diverse declinazioni, suggellata dalla morte tramite  seppuku, il suicidio rituale che affonda nella tradizione samuraica del Giappone. Un epilogo che illumina le scene di quello che Danilo Breschi, nel suo saggio sullo scrittore giapponese, edito da Luni, ha narrato come un Enigma in cinque atti. Un enigma, il dramma della vita di Mishima, destinato a rimanere irrisolto, ma che tuttavia l’analisi delle diverse maschere da lui indossate permette di avvicinare. Ciascuna di esse cela e rivela, emblema dell’unica profondità da cui lo stesso scrittore giapponese, come afferma nel suo retrospettivo Sole e acciaio, è affascinato: la «profondità della superficie». La sintesi è un estetismo peculiare, anacronistico: il tentativo di coniugare l’Aut-Aut kierkegaardiano tra estetica ed etica per il tramite di un concetto di bellezza mutuato dall’antichità greca, nel quale la loro corrispondenza è garantita dalla metafisica.

La maschera, in Mishima, è modalità intrinseca del rapporto con la realtà. E la realtà, per Mishima, è da subito filtrata dalla parola. Come racconta in Sole e acciaio e nelle Lezioni spirituali per giovani samurai, egli ha sperimentato prima la scrittura che la vita, instaurando una relazione con la vita mediata dalla parola. Egli matura presto, però, la consapevolezza dell’estraneità tra l’arte e la vita, dell’impotenza della scrittura – della cultura – ad agire sulla realtà: nella fattispecie, sulla realtà del Giappone del dopoguerra («il marasma morale postbellico», la definisce in un’intervista del 1968), che diventa, più estesamente, immagine della svolta relativista, materialista ed edonista del mondo contemporaneo. Un mondo che ha deprivato la bellezza della sua portata etica e metafisica, riducendola a mero oggetto terreno, materiale, tanto scontato quanto ormai inespressivo. Nel resoconto di un suo viaggio negli Stati Uniti Mishima registra tale appiattimento dell’idea di bellezza: «In America non esiste niente che si contrapponga alla bellezza. […] Aprendo le finestre dell’albergo non si vede nulla di troppo brutto o sgradevole. […] Ormai nel territorio della bellezza non esiste più niente che possa meravigliare la borghesia».

«Far rinascere l’Assoluto», restituire un fondamento assoluto alla bellezza, è l’obiettivo della letteratura e della vita di Mishima. Il pacifismo contemporaneo, correlato del benessere materiale, pone come valore più alto la conservazione della vita individuale: ma l’inesistenza di un valore per cui morire determina l’assenza di un ideale per cui vivere. Il materialismo inibisce amore e morte al punto da dissolvere la potenza del loro legame. Ad una morte rimossa, celata nel chiuso degli ospedali, corrisponde un amore paradossalmente – nonostante la libertà sessuale dell’epoca – privo di carica erotica: senza trascendenza, senza tensione all’assoluto, infatti, ribadisce Mishima, non può darsi erotismo. Come nel suo racconto Patriottismo, solo il coraggio della morte, solo la subordinazione della vita a un valore più alto di essa, riesce ad innalzare l’amore fino alle estremità delle sue vette.

Mishima eleva il corpo, in quanto soggetto di amore e di morte, a tramite per l’assoluto. Al culto meramente materialistico del corpo della società contemporanea, egli contrappone la concezione classica di bellezza: «I greci credevano all’esteriorità», scrive, entusiasta di questa «idea grandiosa», durante una visita ad Atene; e tuttavia per essi la bellezza fisica ha sempre una corrispondenza interiore, che la investe di un valore morale. Egli cercherà di incarnare questa visione in un progetto esistenziale: la «via della penna e della spada», l’«unione della letteratura e dell’arte marziale». L’esercizio del corpo gli dà ciò che nessuna riflessione e nessuna scrittura possono trasmettere: una forza che non può essere ottenuta «né con i libri, né con l’analisi intellettuale». Le arti marziali, come il kendo, ma anche la corsa, il pugilato, il body building, servono a plasmare un corpo da esibire – e Mishima poserà per diverse raccolte fotografiche – ma sono innanzitutto, secondo un ideale platonico, un esercizio interiore.

L’allenamento fisico è per Mishima, nel suo significato ultimo, una preparazione alla morte. Il coraggio, che consiste nella capacità del confronto con la morte, è infatti una virtù fisica, non intellettuale: «Per quanto un filosofo da tavolino possa elucubrare sulla morte, se gli è estraneo il coraggio fisico, che è la premessa per acquisire la capacità di comprendere la morte, non riuscirà ad afferrare neppure un frammento della sua vera natura». Un corpo atletico è necessario non solo per affrontare la morte fisicamente, ma anche esteticamente, ovvero eticamente, eroicamente: «Per una morte romantica ed eroica erano indispensabili muscoli possenti e scultorei».

L’acquisizione di una forma corporea – di una bellezza – classica è la condizione per una morte tragica, ovvero estetica, e in quanto tale etica e metafisica, nella quale cioè il sacrificio della bellezza si identifica con il sacrificio per la bellezza. In questa sintesi di amore e morte si realizza l’erotismo supremo. Ciò che rende un corpo erotico non è solo la capacità, fisica ed interiore, di sopportare il dolore fino alla morte, ma la sua immolazione per un ideale. Come rivelato nell’autobiografico Confessioni di una maschera, fu proprio la contemplazione di una riproduzione di un dipinto del martirio di san Sebastiano di Guido Reni a scatenare le pulsioni omoerotiche del giovanissimo Mishima. San Sebastiano, scrive Emanuele Ciccarella in un suo saggio sull’intellettuale giapponese, è «la consacrazione dell’unione di Eros e Thanatos», amore e morte: il cattolicesimo, la religione per la quale egli darà la vita, è per Mishima l’unica ideologia erotica dell’Occidente, poiché subordina l’esistenza umana alla trascendenza, all’assoluto.

Mishima rimarca come, per contro, nel mondo odierno – in cui l’eroismo è trasfigurato in profitto, il valore misurato in denaro – «è considerato antiquato mettere in gioco la vita per difendere un ideale». In romanzi come L’età verde e Una stanza chiusa a chiave egli descrive questo vuoto morale, che determina nei protagonisti reazioni di straniamento, apatia, cinismo. Lo spiazzamento rispetto al proprio tempo si traduce in una scissione interiore, un conflitto con se stessi. In un testo scritto un anno prima del suicidio, I miei ultimi venticinque anni, Mishima confessa l’insopportabilità del suo disagio per avere approfittato delle comodità del regime democratico sancito dalla costituzione del 1946. La maschera del dandismo è il modo per nascondere questa lacerazione e opporsi a una modernità pacifista, democratica e capitalista. Ma quando il divario tra l’interiorità e l’esteriorità diventa una frattura insanabile, il guerriero preserva il suo onore con il seppuku, forma estrema di sottrazione al compromesso con una realtà che non è possibile modificare. Come recita un aforisma di Friedrich Nietzsche, che fu maestro di cultura greca per Mishima, «in tempi di pace l’uomo guerriero si scaglia contro se stesso».

Nei suoi ritratti fotografici e nei suoi ruoli cinematografici Mishima insiste, quasi in un rituale preparatorio, nell’interpretare l’atto finale, l’ultima scena, della sua vita. Attore nella vita e nella morte, Mishima. E nella sua morte la scena si fa realtà: l’arte si fa vita. Il suicidio è infatti, come spiega il cinico scrittore protagonista di Colori proibiti, l’unico atto in cui si verifica «la contemporaneità di espressione e azione». La bellezza dell’azione viene infine a coincidere con la bellezza della morte: «La bellezza maschile esiste […] soltanto nella tragicità, e questo dipende dal fatto che unicamente nell’istante finale, in cui si rischia la vita, si giunge all’essenza dell’azione».

La morte per la bellezza è il coronamento metafisico dell’estetismo radicale di Mishima. «Il raggiungimento dell’Assoluto […] è la morte. Non c’è altra strada», sentenzia nell’ultima delle sue interviste. Un martire della bellezza, Mishima, come lo definisce il titolo di un libro dedicatogli nel cinquantesimo anniversario della sua morte. Un martire dell’assoluto, come un moderno san Sebastiano, che egli stesso impersonò, trafitto dalle frecce, in una delle pose dei suoi album fotografici. Se l’estraneità, l’inattingibilità, della bellezza terrena è – come per l’iconoclasta Mizoguchi ne Il padiglione d’oro – un tormento intollerabile, Mishima vuole farsi testimone di una bellezza immortalata dalla morte.

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