Alfonso Lanzieri (1985) è dottore di ricerca in filosofia dal 2017. Attualmente insegna filosofia presso la Facoltà Teologica di Napoli e l’ISSR “Duns Scoto” di Nola-Acerra. Si interessa principalmente di filosofia della conoscenza e filosofia della mente. Ha pubblicato saggi, articoli e monografie, tra cui Pensiero e realtà. Un'introduzione al "realismo critico" di Bernard Lonergan(Mimesis, 2017); Il corpo nell'anima. Henri Bergson e la filosofia della mente (Mimesis, 2022).
È giunto il momento di chiudere la mia breve riflessione a puntate su “democrazia e verità”. Naturalmente, non ho la minima pretesa di aver esaurito l’argomento, né di averne toccato tutti gli aspetti. Il mio è stato un tentativo cursorio utile, spero, a porre quantomeno il problema e a segnalare alcune piste di riflessione. Ora mi limito a richiamare un ultimo aspetto che mi sembra interessante e, insieme, riepilogativo.
Nelle importanti e, per certi versi, drammatiche pagine de La crisi delle scienze europee (1936), Edmund Husserl, a proposito delle origini della civiltà occidentale, parlava del telos europeo, della destinazione cui la nostra civiltà deve aderire in quanto iscritta nella sua propria origine: la razionalizzazione del mondo. La missione dell’Occidente, insomma, che viene alla luce con la nascita della filosofia, consiste nel dare una risposta razionale a tutte le domande dell’uomo. Se questa fiducia nelle possibilità della ragione viene meno, ecco che la nostra mastodontica impresa conoscitiva, per quanto possiamo incrementare la nostra potenza sulla natura per mezzo della tecno-scienza, alla fin fine risulta inutile: «Nella miseria della nostra vita – afferma Husserl nella Crisi – si sente dire che questa scienza non ha niente da dirci. Essa esclude di principio proprio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, nei nostri tempi tormentati, si sente in balia del destino; i problemi del senso e del non-senso dell’esistenza umana nel suo complesso».
La “missione” europea, invece, secondo Husserl, è emersa quando in Grecia la verità è diventata un problema, quando cioè è nata la coscienza della «differenza tra la rappresentazione del mondo e il mondo reale», quando ciò che si riteneva vero in quanto appreso dal racconto mitico è stato problematizzato grazie alla distinzione tra la mia certezza e la verità, e tra la mia certezza e le certezze degli altri. In tal senso, il significato della parola “Europa” è unito in modo indissolubile allo spirito della libera critica e della libera normatività, spirito «impegnato in un compito infinito, che permea tutta l’umanità e crea nuovi e infiniti ideali». Come ha scritto Vincenzo Costa, allora, «l’identità europea, proprio in virtù della sua strutturale apertura alla verità, in quanto è interrogazione che investe il senso della totalità, travalica le peculiarità storiche e culturali che pure la caratterizzano di fatto. Proprio in virtù della sua apertura alla verità essa ha un’identità aperta perché – a differenza delle culture mitiche – a definirla non è la difesa di una verità particolare, bensì la disponibilità a lasciarsi interrogare, a modificare – sulla base di ragioni – i propri costumi e le proprie credenza» (V. Costa, Husserl, Carocci, Roma 20164, p. 177).
Se l’idea di verità è l’acqua del fonte battesimale dell’Europa, bisogna anche segnalare la distanza di quella concezione rispetto alla verità delle ideologie che abbiamo conosciuto nel XX secolo. Queste ultime, infatti, hanno pietrificato la realtà nell’impostura di una sola posizione onni-includente, brandendo la parola “verità” trasformata però in una caricatura mitomane del modello di verità inteso agli albori della filosofia. In tale prospettiva, allora, possiamo evidenziare la problematicità di quelle concezioni che, nell’età postmoderna, hanno avvicinato troppo frettolosamente la “verità” alla “violenza”: se è vero che la prima può essere mezzo per discriminare, tacitare, eliminare, disumanizzare, è anche vero che il politeismo delle veritates non è innocente. In primo luogo, senza la comune coscienza di una distanza tra le differenti opzioni e una veritas verso cui tutti ci riconosciamo in cammino, può generarsi il delirio di onnipotenza delle parti, che iniziano a reclamare per sé tutta la verità, imponendosi anche con la forza.
Inoltre, l’equivalenza delle differenze porta con sé, prima o poi, il sentimento della loro generale irrilevanza. Questi due fattori tendono a rafforzarsi vicendevolmente. È possibile così assistere al fenomeno della “prepotenza delle differenze” – a mio giudizio constatabile oggi – che può avere conseguenze tanto dannose quanto quelle che si hanno nei tempi del dominio della verità unica. In altri termini, se esiste una violenza della verità, esiste una violenza del relativismo.
Il richiamo husserliano alla missione europea ha evidentemente a che fare anche col piano politico. È stato detto che il rischio tecnocratico, oggi da più parti paventato, era già iscritto nel destino dell’Occidente, nel momento in cui l’impresa di razionalizzazione del mondo è stata scelta all’origine come valore-guida (su questo Nietzsche e Weber vanno letti insieme). Tuttavia, tale tesi, a mio giudizio, non va assolutizzata. Il Logos, infatti, come suggerisce l’etimologia, non è solo il pensiero che determina o calcola, ma anche quello che collega e armonizza, che raccoglie, che dunque si interroga sull’“intero”, che non si accontenta della precisa misurazione dello specialista (pur fondamentale) ma la attraversa in vista della domanda sulla totalità, e dunque sul senso. Se l’«incapacità addestrata» dello specialista, della quale ha parlato Robert Merton, è diretta conseguenza di un nichilismo inconsapevole che assolutizza la parte, dichiarando “niente” tutto il resto (quanti “esperti” durante la pandemia abbiamo sentito ragionare esattamente così?), il recupero di una verità come domanda sull’intero – ribadisco: il nostro Logos ha le risorse per tale operazione, non dobbiamo inventarci nulla – sarebbe un antidoto necessario (anche se forse non sufficiente) contro ogni tecnocrazia.
Prima ho stigmatizzato quanti, nei decenni della postmodernità, hanno criticato la “verità” indicandone il potenziale violento. In realtà, il rapporto tra verità e violenza si dà fin dalle origini della tradizione filosofica, anche se in un senso diverso da quanto ci hanno detto molti postmodernisti. Nel celebre mito della caverna, ad esempio, Platone racconta di uno dei prigionieri legati in fondo all’oscura spelonca, che improvvisamente è sciolto e quasi costretto (ἀναγχάζω) ad alzarsi e a guardare in alto verso la luce («Esamina ora, ripresi, come potrebbero sciogliersi dalle catene e guarire dall’incoscienza. Ammetti che capitasse loro naturalmente un caso come questo: che uno fosse sciolto, costretto improvvisamente ad alzarsi, a girare attorno il capo, a camminare e levare lo sguardo alla luce», Repubblica, 515 c). L’essere legati in fondo alla caverna, separati dalla luce rischiarante del vero, ritiene Platone, non è la condizione di alcuni esseri umani, ma è la stato “naturale” in cui nasciamo. In quanto naturale, tale condizione è anche abituale, dunque in fondo comoda, una comfort zone, si potrebbe dire. Essere liberati e liberare per la verità non è dunque una cosa “graziosa”: somiglia più a un trattamento fisioterapico. Platone non ha di certo intenzione di avallare l’uso della violenza per imporre la verità: è quest’ultima, semmai, che presentandosi può far “male” perché sorprende, scomoda, scompagina, resiste, inquieta, perché è altro da me. Per questo, quando il prigioniero liberato torna indietro dai compagni rimasti nella caverna e inizia a parlare di quanto ha visto, rischia addirittura di essere messo a morte, dice Platone riferendosi alla condanna di Socrate. La questione della verità non è un pranzo di gala. Del resto, l’adagio di Eschilo dice pathei mathos: si conosce attraverso la sofferenza.
È interessante, a tal proposito, fare un salto nella nostra epoca. Criticando una delle tendenze della cosiddetta cultura woke (diffusa dapprima nei campus americani e poi nel resto della società), che consiste nell’espungere con pedante solerzia ogni elemento del discorso che potrebbe “offendere” gli individui appartenenti a un determinato gruppo, nel 2015 lo scrittore Salman Rushdie ha detto: «L’università è il luogo dove i giovani dovrebbero essere sfidati ogni giorno, dove tutto ciò che sanno dovrebbe essere messo in discussione, in modo che possano pensare e imparare e crescere. E l’idea che debbano essere protetti dalle idee che potrebbero non piacere loro è l’opposto di ciò che un’università dovrebbe essere».
In effetti, attorno a noi, si moltiplicano i casi di indignazione e offesa, più o meno fondati, legati all’uso del linguaggio o alla semplice espressione pubblica di un’idea percepita come offensiva o poco “inclusiva”. A tal proposito, la giornalista Guia Soncini ha parlato di “era della suscettibilità”, per definire il tempo in cui siamo, nel quale l’attenzione al politicamente corretto può arrivare a livelli parossistici e assumere tratti intolleranti, che possono arrivare fino alla richiesta di “cancellazione” di colui che ha infranto i codici della nuova morale, chiedendone il licenziamento o l’ostracismo sociale. La paura di poter incontrare parole o persone indesiderate ha fatto pensare alla creazione di safe space in alcune università degli Usa, luoghi ideati per auto proteggersi dal contatto con potenziali portatori di idee o comportamenti ritenuti offensivi, e moltiplica bulimicamente i trigger warning, ovvero i messaggi che avvisano su contenuti potenzialmente traumatizzanti di libri, film, cartoni animati e serie Tv. Il filosofo statunitense Peter Boghossian, colpito dagli eccessi di tali tendenze culturali, ha deciso di lasciare l’insegnamento presso la Portland State University, in seguito a una serie di pesanti controversie con studenti e superiori del proprio ateneo. «L’università – ha scritto Boghossian nella lettera di saluto – ha trasformato un bastione della libertà di ricerca in una fabbrica di giustizieri sociali che hanno come soli input la razza, il genere, l’essere vittima. E come unici output il risentimento e la divisione».
Del grande dibattito in corso su cultura woke e cancel culture, quel che qui interessa è una delle idee portanti di questo “nuovo puritanesimo”: dover difendere a tutti i costi noi e gli altri dagli urti ermeneutici. Quest’ultima espressione è del filosofo Hans-Georg Gadamer, e descrive quella indispensabile esperienza culturale che consiste nell’incontro con un universo di pensiero diverso dal nostro. Senza la disponibilità a tale urto, insegna Gadamer, non è possibile alcuna reale interpretazione del mondo – che si dà sempre nell’impatto con una diversità irriducibile a me, prima tra tutte la diversità di un altro essere umano. Lo scontro tra “cornici” diverse potrà in alcuni casi essere anche perturbante, ma se nessuno è davvero libero di sollevare problemi, non c’è sviluppo del sapere, né individuale né collettivo. Le nostre pratiche conoscitive, infatti, partono sempre da ipotesi, e se un certo numero di queste sono apriori dichiarate inammissibili perché in contrasto con un interdetto morale, non è possibile conoscere davvero nulla. Quello che si cerca a tutti i costi di evitare, vale a dire lo shock intellettuale, è proprio uno dei fattori che fanno progredire la nostra conoscenza. I problemi per la democrazia seguiranno a ruota, poiché libertà della ricerca – di qualunque tipo di ricerca – e qualità democratica vanno insieme.
Alla luce di queste considerazioni, credo che Byung-Chul Han abbia correttamente indicato nella “algofobia”, cioè nella “paura del dolore”, una delle caratteristiche fondamentali del nostro tempo. «L’algofobia – scrive Han – ha come conseguenza un’anestesia permanente. Si evita qualsiasi circostanza dolorosa. Persino le pene d’amore sono diventate sospette. L’algofobia si estende nell’ambito sociale. Ai conflitti e alle controversie che potrebbero condurre a confronti dolorosi viene riservato uno spazio sempre minore. L’algofobia interessa anche la politica. Aumentano la spinta al conformismo e la pressione al consenso» (La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite, Einaudi, Torino 2021). Il nuovo valore-guida per tutti è il benessere fisico e psicologico: il mondo dev’essere un enorme safe space, nel quale ciascuno può sentirsi comfortable. Il problema è che in tale società palliativa, si tende a rimuovere quello straordinario “organo dell’alterità” che è appunto il dolore. Una comunità senza dolore, scrive Han, è una società in cui l’Altro scompare, poiché ci si rende indisponibili all’inquietudine tipica dell’incontro con l’alterità. Se le analisi del filosofo coreano sono corrette, con Han e oltre Han possiamo forse affermare che la prima forma di alterità ad essere eliminata dalla società palliativa è proprio la “verità”, con tutto il suo carico di indisponibilità e incontrollabilità. Quanto ciò sia pericoloso, dopo una certa sbornia postmoderna, iniziano a intuirlo in molti: una società fatta di tanti recinti di sicurezza, nei quali si sta similes cum similibus, non è una comunità che vive nella pace, ma somiglia di più a una tregua tra clan estranei. Insomma, mi pare che rimozione del dolore e rimozione della verità siano fenomeni assolutamente legati: la lezione di Eschilo, pathei mathos, resta allora meravigliosamente attuale, e potrebbe essere uno dei fili da tirare per tornare a ricucire il nostro rapporto con la verità. È un problema che interessa la polis.