Giorgia Maddalon è laureata in Lingue per l’interpretariato e la traduzione (inglese - spagnolo) all'Università degli Studi Internazionali di Roma (UNINT) con tesi finale su “Hobbes interprete di Tucidide: analisi linguistica della traduzione inglese della Guerra del Peloponneso e la sua eredità nelle Relazioni Internazionali”. Attualmente è iscritta al corso di laurea magistrale in Relazioni Internazionali presso la LUISS Guido Carlo di Roma
Recensione a
J. Mearsheimer, Verità e bugie nella politica internazionale
Luiss University Press, Roma 2018, pp. 192, €14,00.
False informazioni tra governi, allarmismo, miti nazionalisti, insabbiamenti strategici e ignobili: sono, queste, solo alcune delle tipologie di bugie utilizzate dai capi di Stato in politica estera a cui John Mearsheimer sottopone la sua attenta analisi in Verità e bugie nella politica internazionale (LUISS University Press, Roma 2018, pp. 192, € 14).
Nel panorama della tradizione politica occidentale una politica che fondi i suoi presupposti e la sua agenda sui puri principi della verità non è forse mai esistita. Bisognerebbe tornare indietro alla visione teorica di Platone, alla sua concezione di polis ideale dove i filosofi erano guidati dalla verità del logos e allontanati da qualsiasi impulso viscerale alla menzogna. Seppur considerato un atto riprovevole e condannato da tutte le religioni (la falsa testimonianza è tra i Dieci Comandamenti), la menzogna è sempre stata, soprattutto in passato, strumento di potere e protezione, ma anche arma contro il nemico. Parte integrante della natura umana, fenomeno trasversale rispetto ad ogni tempo e cultura, si è sempre rivelata una componente centrale nei rapporti sociali e politici tra individui che, al di là di qualsiasi moralismo, andrebbe osservata con maggiore consapevolezza per comprenderne i fili che la muovono. Le bugie possono essere dannose, ma a volte anche la verità lo è. Ma cosa definisce l’una e l’altra? Può una menzogna, se detta a fin di bene, essere considerata giusta? Se assolutisti come Immanuel Kant e Sant’Agostino ritengono che mentire sia sempre sbagliato, per gli utilitaristi la menzogna può anche giocare a vantaggio di uno scopo socialmente utile.
Muovendo oltre la sfera personale e avvicinandoci al complesso mondo della politica internazionale, non sarà difficile notare come quello della bugia sia in realtà un problema antico quanto la politica perché ha a che fare con la potenza, con il regno della diplomazia, con quella parte della politica più avvezza alla segretezza. Non è detto però che della menzogna faccia necessariamente parte la volutas nocendi, l’intenzione di nuocere o danneggiare. I capi di Stato si sentono spesso investiti del dovere morale di mentire per garantire la protezione e la sopravvivenza del proprio paese, facendo della bugia a fin di bene una parte integrante dei rapporti internazionali.
L’analisi di Mearsheimer in questo è puntale e precisa. Un capo di Stato potrebbe mentire per insabbiare una politica apparentemente discutibile, ma dal potenziale strategico, al fine di godere di ampio margine di manovra senza sollevare pubbliche obiezioni. I tentativi del Presidente Kennedy di condurre la crisi dei missili di Cuba a una conclusione pacifica sono un esempio calzante d’insabbiamento strategico volto a non compromettere le relazioni diplomatiche con altre nazioni. Intuendo che la decisione dell’amministrazione americana di rimuovere i missili Jupiter dalla Turchia, in cambio del ritiro di quelli sovietici da Cuba, non avrebbe incontrato il favore del suo pubblico, finendo anche per danneggiare i rapporti di Washington con gli alleati Nato, il Presidente americano raccomandò ai sovietici di tacere sull’accordo preso. Ma non sono rari neppure i casi in cui si ricorre all’allarmismo per spronare il popolo riluttante e scettico a considerare seriamente il pericolo di un’insorgente minaccia senza dover necessariamente ricorrere a una propaganda ingannevole. L’essenza dell’allarmismo si riassume nella celebre frase di Kemal Ataturk: «Per il popolo, nonostante il popolo» (p. 69).
Mearsheimer ci mostra come l’allarmismo abbia giocato un ruolo forte nella politica estera statunitense degli ultimi settant’anni. Per superare la generale riluttanza ad attaccare l’Iraq, il 27 settembre 2002 il Segretario della difesa Donald Rumsfeld dichiarò la presenza di prove inconfutabili relative allo stretto rapporto collaborativo tra Saddam Hussein e Osama Bin Laden, nonostante nessun simile accertamento fosse mai stato effettivamente confermato né dalla CIA, né dalla DIA e quantomeno dalla Commissione d’Indagine sull’11 settembre dell’anno precedente. Non solo, per indurre il popolo americano a considerare Saddam coinvolto nell’attentato terroristico delle Torri Gemelle, il Presidente Bush affermò nella sua lettera al Congresso del 2003 come tra i diritti legali degli Stati Uniti rientrasse quello di «prendere le misure necessarie contro i terroristi internazionali e le loro organizzazioni, comprese quelle nazioni, quelle associazioni o individui che hanno progettato, autorizzato, perpetrato, facilitato gli attacchi terroristici verificatisi l’11 settembre 2001» (p. 78).
Risulta quindi problematica la tesi di chi ritiene che nelle democrazie contemporanee sia quasi necessario legittimare il ricorso all’impostura per assicurare coesione e stabilità politica: avallare cioè la tesi di rivalutare in termini positivi il ricorso a errori utili come strumenti di conservazione della democrazia. Ma questo non è di certo un dilemma che nasce oggi, ma affonda le sue radici nel passato. Già nel Principe di Machiavelli si parla di amoralità della politica: «e nelle azioni di tutti li uomini, e massime de’ principi […] si guarda al fine […] e mezzi saranno sempre iudicati onorevoli e da ciascuno lodati» (Machiavelli, Il Principe, XVIII). Per Machiavelli l’azione politica non può tener conto delle regole morali. Il fine, ovvero la conquista e la conservazione del potere politico, giustificherebbe anche l’uso della crudeltà e della dissimulazione. La sfera politica è quella delle azioni strumentali che, in quanto tali, devono essere giudicate non in se stesse, ma in base alla loro maggiore idoneità al raggiungimento dello scopo.
Ma esiste davvero una morale diversa e speciale per l’uomo politico? Come può il fine essere giusto se per raggiungerlo servono mezzi ingiusti? La politica è una complessa rete di agenti e dinamiche. Inoltre, per quanto sia legittimo fare dell’amore per la verità una virtù diplomatica, la verità della politica non può essere sottoposta a quella reductio ad unum di cui la filosofia si serviva per ricondurre fenomeni diversi a un unico principio esplicativo (Robespierre era detto “l’incorruttibile”, eppure non fece della Francia una democrazia libera).
Martin Jay in Le virtù della menzogna. Politica e arte dell’inganno riconosce che la politica non sarà mai una zona completamente libera dalla menzogna, piena incarnazione di autenticità e onestà, quanto piuttosto duplice e contemporanea espressione di moralismo-realismo, rettitudine-impudenza. Ciò nonostante, la menzogna non può e non deve essere un modus operandi generalizzabile. In un quadro come quello attuale ci si domanda allora se il rapporto tra verità e politica possa dirsi definitivamente collassato. Ecco che la riflessione sulla “nobile menzogna” di Platone come legittimo espediente pedagogico e morale, strumento per trincerarsi dietro la ragion di Stato, pharmakon da prescrivere al popolo per garantire l’ordine politico è oggi più centrale che mai.
Quella di Mearsheimer è una lente d’ingrandimento con cui guardare alla menzogna come fenomeno dalle molteplici sfumature, come manipolazione della realtà ma anche espressione della creatività dell’uomo. Di fronte ad un dibattito sociale e politico dominato dall’uso e abuso della parola, in cui la nostra presa sulla realtà è continuamente distorta dalle false notizie rese attendibili dall’era digitale, vi è l’urgente necessità di affermare il diritto alla verità e recuperare un’etica della parola. Riscoprirne lo statuto e la dimensione morale in riferimento alla sfera delle relazioni internazionali, ma soprattutto a quella personale. Verità e bugie nella politica internazionale apre la strada a una grande sfida politica. E se nel libro la menzogna sembra avere un peso maggiore nella sfera internazionale, probabilmente, come diceva Kant nell’opera Per la pace perpetua, avremo la pace solo quando non si daranno più le condizioni perché la guerra ci sia. Ovvero quando la menzogna e la segretezza si sostituiranno a uno spazio pubblico e ad un mercato delle idee leale e trasparente.