Simone Fagioli (Pistoia 1967) è ricercatore libero professionista di formazione antropologica. Collabora con enti pubblici e privati per ricerche sui temi della nascita e sviluppo dell’industria (metallurgica, mineraria, cartaria, tessile, ceramica), analisi dei processi produttivi preindustriali e industriali, storia d’impresa privata, sociologia e antropologia del cibo, uso pubblico della memoria, nonché gestione di archivi d’impresa e privati. Su questi temi ha pubblicato numerosi articoli e monografie. Tra i suoi lavori più recenti: Ora! L'infinita corsa dell'intelligenza artificiale. Un diario ibrido(2024); Le parole e le cose. Antonio Cariglia nei consigli comunali di Pistoia e Firenze (1956-1980), intr. di D. Breschi (2024); Carlo Ginori. Alchimista-scienziato della porcellana (2025).

Recensione a: D. Breschi, L’ultima estate, con undici acqueforti di Michele Cosci, Effigi, Arcidosso 2025, pp. 144, € 13,00.

Dobbiamo avere il coraggio di ammetterlo: la poesia, quale genere letterario, è molto infido, sotto tutti i punti di vista. Intendo, ovviamente, nel 2025.

E intendo soprattutto lo scrivere la poesia, oggi, non naturalmente in senso storico. Nessuno, ragionevolmente, si mette contro Dante, Tasso, Foscolo, Manzoni e avanti così. Pur se magari, più facilmente qualcuno è contro ad esempio Ezra Pound, con un Novecento ancora incombente che forvia il giudizio, malgrado Pound sia un gigante nella storia della letteratura. Ma tant’è, evitiamo polemiche.

Dunque oggi scrivere poesia è infido.

I motivi sono molti, nella misura in cui non tutti sono Foscolo (si è capito che è il mio autore preferito?, del quale, peraltro, nelle mie ricerche ho tenuto in mano il calco del cranio e visto i peli della barba, transitati a Firenze nel 1871) e la “banalità del male”, anzi, del mal scritto, è sempre in agguato.

Tra la fine degli anni Ottanta ed i primi Novanta del Novecento mi sono cimentato in poesia, pubblicando soprattutto su riviste se non clandestine almeno molto minori, nell’era pre-internet non c’era molto da fare e le copisterie si arricchivano a dismisura. E mi sono cimentato pure, va detto, pur non a difesa, in sperimentazioni linguistiche, nelle quali la nascente informatica per tutti ha avuto il suo ruolo.

Oggi è facile chiedere a qualunque modello linguistico di scrivere una poesia, con risultati “anche” interessanti: ho invitato DeepSeek a scrivere un haiku sul panettone e questo è il risultato:

Forno che sussurra,
lievito e canditi lievita —
Natale nel soffio.

(DeepSeek, 26.3.2025, 19.25)

Ma appunto negli anni Novanta mi ero ingegnato di stilare, in Basic, un programma che generava in automatico poesie, con il database delle parole che era quello di un noto dizionario su CD-ROM che avevo opportunamente craccato.

Tutto questo panegirico è funzionale ad una cosa. Dire che il libro di poesie L’ultima estate di Danilo Breschi (con undici acqueforti di Michele Cosci) mi piace molto. Non uso il passato, come si fa di solito – “questo libro mi è piaciuto molto” – perché non è un sentimento transitivo, il libro mi piace, anche domani dico, non mi è piaciuto solo ieri.

E mi è piaciuto perché Danilo ci prende tutti in castagna. Non che non sapessi che scriveva poesia, lo so benissimo, ma questo libro è davvero una bella sorpresa, nella misura in cui l’autore – che è davvero un intellettuale rilevante, docente di Storia del pensiero e delle istituzioni politiche all’Unint di Roma, direttore della rivista «Il Pensiero Storico», nonché saggista di grande spessore – con L’ultima estate non ha certo paura di mostrarci un altro lato del suo carattere.

E dico carattere per un motivo preciso. Le poesie di Danilo – non poche, non le ho contate, non sta bene, non è un “libretto”, è un libro vero, curatissimo sotto tutti i punti di vista – sono davvero una parte di sé, non sono un esercizio di stile, non sono parole che gli sono avanzate nella saggistica o magari nelle lezioni universitarie, sono proprio fatte apposta, vengono da dentro, dunque dal carattere, dalla sedimentazione del tempo, lo si capisce bene leggendole con calma, parola per parola.

Oggi chi fa poesia rischia di mescolare le parole nel sacchetto dei numeri della tombola e tirarle fuori come vengono, come faceva il mio software preistorico, per questo dico che la poesia è infida, nella misura in cui si pesca da dentro e ciao.

Quelle di Danilo non sono innanzi tutto parole sentimentali, come forse e dico forse ad una prima lettura potrebbero apparire, sono in primis parole sui sentimenti, che è altra cosa.

Mi sono chiesto poi, leggendo, a cosa rimanda il titolo… ma è una trappola. Pur ci siano due poesie con il titolo di L’ultima estate, Atto I e Atto II, non c’è una nostalgia dico, ci sono “fatti” e lo intendo in senso antropologico, ovvero, parafrasando un po’ Émile Durkheim, su quella costrizione per eccellenza che è la vita. E allora sì, il tema di tutto il libro, che è un racconto in poesia, è proprio la vita. Ed è così che Danilo ci prende in castagna, mettendoci di fronte alla vita, quando magari pensavamo di trovare qualche divagazione sugli aspetti del quotidiano.

Qui è tutto il nocciolo, ed appunto, ancora, per la poesia contemporanea l’essere infida.

Chiudi il diaframma e la scena diviene buia, lo apri troppo, sei sovraesposto e non vedi nulla.

Chi scrive oggi poesia rischia o di chiudere troppo gli occhi o di aprirli troppo: nei due casi il risultato è pessimo, sempre mieloso, sempre infido, sempre noioso.

Danilo scavalca tutti e scrive della vita. E così facendo ci permette una cosa molto utile: ci fa identificare con la sua scrittura, nella quale entriamo a man bassa. Ci dà le parole.

Vi svelo comunque un piccolo segreto: io leggo poca se non pochissima letteratura contemporanea, ovvero di autori viventi, giusto qualche giallo prima di dormire, senza vergogna eh. Ma soprattutto non leggo poesia contemporanea. Vi posso citare a memoria almeno le vite di dieci medici del Settecento, ma se mi chiedete il nome di un poeta italiano vivo e vegeto mi potete bocciare senza appello.

Ma appunto, L’ultima estate non l’ho letto per la stima che ho di Danilo – stima si può dire, vero? Non è parola offensiva? – ma perché ho capito subito che è roba tosta, che ti si insinua addosso, che ti fa riflettere su cosa sia la vita.

Quasi quasi ho il sospetto che se mettiamo insieme tutte le parole del libro viene fuori una mappa sociologica del mondo.

E poi il libro merita pure per la parte iconografica, undici acqueforti di Michele Cosci, mano felicissima di Pietrasanta, che ugualmente ci parlano di vita, stampate con la massima cura. Tutto pare un libro d’arte, per l’eccellente Effigi di Mario Papalini di Arcidosso, sull’Amiata.

Ora, per concludere, siccome questa non è una recensione ma una divagazione posso dire se c’è una poesia che prediligo.

Prendete il libro, anzi compratelo, andate a pagina 80 ed iniziate a leggere da lì.

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