Giorgia Maddalon è laureata in Lingue per l’interpretariato e la traduzione (inglese - spagnolo) all'Università degli Studi Internazionali di Roma (UNINT) con tesi finale su “Hobbes interprete di Tucidide: analisi linguistica della traduzione inglese della Guerra del Peloponneso e la sua eredità nelle Relazioni Internazionali”. Attualmente è iscritta al corso di laurea magistrale in Relazioni Internazionali presso la LUISS Guido Carlo di Roma
Recensione a
D. Lyon, La cultura della sorveglianza. Perché la società del controllo ci ha reso tutti controllori
Luiss University Press, Roma 2020, pp. 232, €20,00.
Le attività di sorveglianza costituiscono oggi l’argomento chiave nell’agenda dell’opinione pubblica e una delle colonne portanti del controllo sociale volte a indirizzare gli individui verso aspettative e stili di vita condivisi. Quali sono le conseguenze politiche, economiche e socioculturali della crescente sorveglianza sulle società contemporanea? Questo è l’interrogativo centrale cui David Lyon, professore di Sociologia alla Queen’s University, cerca di dare risposta nel suo volume La cultura della sorveglianza, libro premonitore come mai prima e lettura obbligatoria in un’era d’iperconnessione.
Per comprendere la contemporanea cultura della sorveglianza dobbiamo mettere da parte il classico romanzo distopico di George Orwell 1984. La metafora dell’occhiuta e ossessiva vigilanza del Grande Fratello, in un mondo opprimente e governato da dittature feroci attraverso il tradizionale controllo dall’alto verso il basso, è sbagliata per raccontare l’esperienza della nostra epoca. Il linguaggio creato da Orwell per descrivere la messa in discussione di uno stato d’innocenza a cui opporre resistenza configge con una società del XXI secolo che non «indossa gli stivali della brutale repressione, ma i vestiti eleganti dell’efficienza hi-tech» (p. 91) e che, nella sua comparsa sui social network, è profondamente legata alla partecipazione di chi è sorvegliato.
Quello che in passato era percepito come aspetto istituzionale e marginale della vita, esclusivo appannaggio di agenzie d’intelligence, di governi e investigatori privati, muta oggi in una vera “cultura della sorveglianza” in cui, travolti dalla pervasività degli smartphone e dei social, osservare diventa uno stile di vita e un aspetto cruciale di come pensiamo il mondo e agiamo al suo interno. Riflettere, a questo punto, sui modi differenti con cui la sorveglianza è diventata un aspetto centrale per l’esperienza sociale, sia nelle sue potenzialità positive come componente giocosa, sia come serio problema di sicurezza a cui i cittadini oppongono resistenza per il bene comune, è forse la tensione più forte da prendere in considerazione. Non a caso, esplorare la cultura della sorveglianza di oggi, ci ricorda infatti Lyon, «spalanca un paesaggio culturale molto più complesso […] e allo stesso tempo ci conduce oltre semplici binari concettuali come potere-partecipazione, in/visibilità, privato-pubblico o persino il fuorviante noi-loro tipico di tanta retorica sulla sorveglianza» (p. 55). Man mano che le relazioni sociali mediate dal digitale aumentano, come spiegare, allora, l’evidente volontà di essere visibili a tutti e le condizioni in base alle quali tecnologie in passato inaccettabili non vengono ora più evitate ma liberamente adottate?
In un mondo di sorvegliati e sorveglianti, il cuore del problema risiede anche nel ruolo della performance. Dietro i nostri movimenti bancari, gli abbonamenti ai servizi di trasporto, le carte fedeltà dei supermercati, le telefonate al cellulare e i passaporti c’è una dipendenza culturale dall’osservazione e dalla visibilità. Su Facebook, Twitter e Instagram, quelli che dovrebbero essere gli avatar digitali di noi stessi, mettiamo continuamente in scena una performance in cui tutto ciò che mostriamo ed esprimiamo rispecchia ciò che reputiamo desiderabile dalla maggior parte dei nostri followers ai quali offriamo, consapevolmente o no, un buco della serratura privilegiato dal quale osservare la nostra quotidianità.
Il tempo speso sui social si fonde insieme al tempo trascorso nel mondo fisico e oggi il dibattito si complica ulteriormente lungo uno spettro che va da spensierate rassicurazioni che piacerebbero a Mark Zuckerberg, a timori e paure che, in un mondo che celebra la pubblicità, vedono in alcuni occhi che osservano segni invadenti o sgraditi di controllo. Ecco che allora la neofilia (l’amore per il nuovo) e l’attrazione verso la novità giocosa rivestono, qui, un ruolo cruciale nel mascherare e normalizzare l’universo tecnologico, oggi pervaso da un senso di meraviglia e di eccitazione. Se la tecnologia biometrica FRT (facial recognition technology) adoperata dalla polizia e dalle agenzie di sicurezza rischia di risultare controversa nei suoi contesti polizieschi e securitari originari, quando usata da Google o da Iphoto Faces non presenta più elementi minacciosi o negativi, venendo piuttosto associata a leggerezza e perfino fantasia nei suoi attributi più partecipativi e giocosi per la vita sociale.
Culturalmente assistiamo al passaggio dall’occhio sgradito all’osservazione accolta a braccia aperte, dall’online all’onlife, e da un mondo orwelliano a uno in cui essere visti diventa non solo gradito e gratificante, ma significa essere riconosciuti in uno spazio dove la condivisione pubblica di emozioni e dettagli intimi entrano a far parte dell’imperativo della comunicazione. Pubblico e privato si fondono in nuove configurazioni e il valore d’intrattenimento voyeuristico della sorveglianza, unito alla crescente familiarità nei confronti della radio e televisione, è quello che, non a caso, ha contribuito nel tempo all’uso successivo di media molto più interattivi permettendo «al Presidente Roosevelt di chiacchierare accanto al camino con il popolo americano, o al re di Inghilterra Giorgio V di trasmettere un messaggio natalizio alla popolazione del 1932, spianando la strada con grande anticipo a quelli che un giorno sarebbero stati definiti i social media», sottolinea Lyon (p. 130).
È proprio dietro questa lunga riflessione che emerge l’evidenza più innegabile: la società del controllo non è dunque una lontana e inquietante possibilità futura, bensì una situazione del presente – volontaria e partecipativa – in cui gli utenti stessi sono macchine desideranti collegate ai loro dispositivi. Questi, intesi ormai non più come strumenti, ma presenze e oggetti razionali, ci rendono contemporaneamente sia soggetti al potere, sia soggetti di potere partecipi e produttori di quelle strategie e pratiche di controllo tanto discusse. «Ormai pensiamo in modo più fenomenologico a come le persone abitano con le macchine computerizzate anziché meramente interagire con loro. Ci chiediamo quello che significano per noi, non solo quello che fanno» (p. 106), ci ricorda l’Autore.
Si potrebbe dire che esiste un filo rosso che dal Panopticon di Jeremy Bentham (il prototipo onniveggente della prigione perfetta in cui un’unica autorità centrale è chiamata a monitorare ogni sfumatura della vita di persone-oggetto del controllo da parte del potere) conduce, in forma opposta, a una “sorveglianza liquida” e orizzontale: un sistema, quindi, di tipo relazionale sempre più articolato e paragonabile a un Grande Fratello che, riempito di occhi elettronici, raccoglie informazioni e le trasforma in algoritmi. Senza dubbio la visibilità e la trasparenza, in un mondo post-panottico, possono rivelarsi importanti come categorie sociologiche: senza essere visti, non possiamo essere riconosciuti o identificati. Ma vivere interamente in pubblico, si chiede Lyon, può considerarsi una forma di esilio solitario? Siamo veramente chiamati a diventare “spie” per il nostro stesso bene?
Scardinando alcuni concetti chiave che abbiamo introiettato nel nostro vivere quotidiano, l’obiettivo di questo volume è domandarsi quale sia, dietro la crescente simbiosi tra i due mondi del capitalismo della sorveglianza e della cultura della sorveglianza, la migliore modalità per aspirare alla prosperità comune. Nel dispiegamento di un imponente arsenale informatico in cui le reti sociali fisiche si sono allentate, la via d’uscita, allora, non può che passare dal porsi continui e nuovi interrogativi che richiedono, però, serietà etica e non riparazioni tecniche.
Ogni tecnologia è un modo di realizzare attività umane, ma i benefici della sorveglianza e dell’osservare come stile di vita saranno davvero costruttivi solo se connessi all’immensa tela della cura dell’altro e governati da ciò che reputiamo benefico per l’aspetto umano. La dottrina dell’inevitabilità tecnologica, conclude Lyon, è quindi falsa perché la tecnologia, in quanto impresa umana, è determinata dalla società e non è una forza inesorabile. Coltivare nuovi immaginari della modernità digitale e sviluppare una sorta di auto-disciplina che ci muova nella direzione di usare il web criticamente, è oggi compito urgente e imprescindibile. Il futuro potrà essere digitale, ma dovrà per prima cosa essere umano.