Avvocato

Avvocato e dottore in Scienze storiche. Ha al suo attivo pubblicazioni sul federalismo (Le origini del federalismo: il Covenant, 1996; Il sacro contratto. Studio sulle origini del federalismo nordamericano, 1999). Ha inoltre pubblicato Sovranità. Teologia e sacro alle origini di una categoria politica (2015); Il regime alimentare dei monaci nell'alto medio evo (2017), Paura e Rivoluzione francese nell’opera di Guglielmo Ferrero (2021); Un nuovo romanticismo per il nuovo secolo (2024) . Inoltre ha curato la riedizione del volume di Guglielmo Ferrero Palingenesi di Roma antica (2019). E' autore di articoli e relatore in convegni di studio.

Recensione a
E. Scarso, La forma del nemico dall’ostilità al terrorismo. Una introduzione filosofica e politica
Edizioni Saecula, Zermeghedo (VI) 2022, pp. 174, € 13,00.

Il saggio di Elena Scarso, conciso e chiaro, offre una intelligente introduzione allo studio della cruciale dicotomia amicus/inimicus, con un addentellato interessante riguardo la forma ultima – il terrorista – assunta dal nemico. Espositivo, per il tema che qui ci occupa, delle grandi costruzioni concettuali di giganti del pensiero come Schmitt, Arendt e Heidegger, e informativo delle più recenti analisi del fenomeno terroristico, il libro della giovane Autrice non pretende di aggiungere qualcosa di nuovo alla complessa materia ma (e qui sta l’originalità del testo) offre connessioni intelligenti tra le diverse angolazioni (le “forme”, appunto) del fenomeno in una prospettiva di ricostruzione di storia delle idee che spazia dalla teoria della guerra elaborata da von Clausewitz sino alle odierne teorie sociologiche in tema di terrorismo.

Dopo alcune premesse etimologiche (greche) sul lemma “nemico” l’Autrice punta dritta sulla differenziazione fondamentale tra echtròs (il nemico personale, privato) e polèmios (il nemico pubblico che si affronta sul campo di battaglia) e sulle loro parziali sovrapposizioni nella lingua latina (hostis e inimicus) e nei Vangeli. Nell’originale greco Gesù esorta ad amare l’echtròs e non menziona il polèmios (ed è nota l’insistenza del cattolico Carl Schmitt su questa differenziazione). A Schmitt l’Autrice dedica un capitolo incentrato sul basilare concetto del “politico” inteso quale parametro del grado di intensità di associazione o dissociazione tra gli uomini: non si dà il vincolo associativo tra amici se non esiste come presupposto la differenziazione dall’altro, dallo straniero, dal nemico. Ma ai fini della caratterizzazione della forma storica assumibile dalla figura del nemico occupa maggior rilievo la celebre “teoria del partigiano” elaborata da Schmitt e riproposta in sintesi nel cap. IV: un’utile introduzione per chi sia digiuno delle elaborate costruzioni concettuali del grande giurista tedesco.

Una corposa sezione del volume è dedicata al “nemico ebreo” (cap. V), cioè alle riflessioni di Hannah Arendt e Martin Heidegger sulla questione ebraica affrontata da opposti punti di vista ma risolta, secondo l’Autrice, con un esito sorprendentemente simile: per entrambi l’Ebreo ha assunto il ruolo di “nemico oggettivo”, l’avversario per definizione, a prescindere dagli impulsi volitivi, da colpe e da responsabilità. E se Arendt – ebrea – vive su di sé il dramma di essere inglobata, insieme con il suo popolo, nella categoria del nemico oggettivo, il tedesco Heidegger, educato nel cattolicesimo, innalza la figura dell’Ebreo a nemico metafisico e cioè “oggettivo”, prescindente dalle antipatie o simpatie personali che si possono nutrire per i singoli ebrei. Heidegger cercherà sempre di difendersi dalle accuse di antisemitismo valorizzando le sue personali simpatie per alcuni suoi colleghi di università ebraici e che egli concretamente aiutò negli anni del regime. Tuttavia, come emerge dai Quaderni Neri, egli temette come un male esiziale la giudaizzazione della cultura tedesca, dove per giudaizzazione si intende quel processo di erosione della comunità tradizionale legata alla terra e alla storia attraverso l’introduzione nell’“anima” germanica dei degradanti elementi del calcolo, dell’utilitarismo, della mercificazione delle conoscenze e della produzione seriale capitalistica.

 Il problema dell’antisemitismo in Heidegger è talmente ampio da meritare una monografia a parte (e non ne mancano: si pensi al saggio di D. Di Cesare Heidegger e gli Ebrei, che l’Autrice cita condividendone l’impostazione di fondo). Qui preme sottolineare quanto per l’Heidegger dei Quaderni Neri l’Ebreo sia un soggetto ideale e astratto, non una persona ma un simbolo della modernità illuminista fredda e calcolatrice. In quanto sradicato, estraneo e nemico della Erde e proprio per questo privo di senso storico, egli dirige e accelera la tecnicizzazione planetaria e prepara un futuro di desertificazione che è ben peggiore della distruzione perché un mondo distrutto potrebbe ancora ricostruirsi ma un mondo desertificato e isterilito è destinato al nulla cosmico. L’Autrice usa termini forti: per Heidegger quello ebraico «è un ostacolo da rimuovere definitivamente per permettere al popolo tedesco di salvare la storia dell’Essere» (p. 112). Nell’aria rarefatta della “metafisica” heideggeriana resta l’idea di un Ebreo che è nemico per sua stessa identità ontologica: un nemico oggettivo, «un nemico innocente anche e soprattutto dal punto di vista del suo persecutore» (p. 116).

Con il terrorista entra in gioco una forma diversa di nemico: non il nemico oggettivo e incolpevole ma il nemico asimmetrico, in qual certa analogia con il partigiano di Carl Schmitt. Concettualizzare il terrorismo è impresa ardua in cui si sono cimentati numerosi scienziati sociali, ma senza approdare a definizioni condivise. Il lemma “terrorista” con la sua origine storica giacobina ha assunto una connotazione peggiorativa e «pone l’interessato nel ruolo di criminale privo di regole e civiltà» (p. 124). Quando uno Stato etichetta come terroristi gruppi più o meno organizzati, si ritiene poi libero di combatterli avvalendosi di ogni strumento, al di fuori dei limiti posti dalla legalità internazionale e dal diritto di guerra (legittima). L’Autrice segue da vicino le tesi del sociologo statunitense A. Jalata, il quale propone una stretta connessione tra terrorismo e violenza illegittima e così operando esclude una delimitazione del fenomeno ai soli gruppi sub-nazionali o internazionali. Per terrorismo deve secondo lui intendersi ogni forma di violenza illegittima, di provenienza statale o no. Il colonialismo viene allora considerato una forma particolarmente letale di terrorismo applicato su vasta scala dagli Stati. La storia è ricca di esempi di guerre criminali condotte da Stati contro altri Stati o contro popoli inermi. Perché dunque affibbiare l’etichetta del terrore ai soli gruppi e gruppuscoli che con azioni violente combattono i governi? In realtà la definizione che Jalata propone del terrorismo, e che l’Autrice riporta puntualmente (cfr. p. 129) è troppo complessa, articolata e lunga (oltre sessanta parole!) per risultare efficace, e comunque non risulta condivisa dalla maggioranza degli studiosi del fenomeno.

Più incisiva ci pare la proposta interpretativa di un altro sociologo, l’indiano J. Tripathy, il quale, muovendo da una riflessione sui nessi tra terrorismo e Islam, approda a una più ampia riflessione sulla figura e la forma del nemico. «Il terrorista – secondo Tripathy – è un prodotto della mentalità occidentale, che gli attribuisce tutte le caratteristiche per cui è conosciuto» (p. 134). E se ciò è vero, ecco che il terrorista è colui che mette in discussione in modo violento la civiltà della globalizzazione e la modernità capitalistica occidentale. Con lui il dialogo è precluso perché egli, nella sua radicale alterità, vive in un mondo a noi ostile, irrazionale e antimoderno (con l’implicita conseguenza che solo il nostro mondo sarebbe razionale e moderno). E se l’universalismo liberal-occidentale «non riconosce la legittimità di nessun altro principio organizzativo» (p. 138), esso sbrigativamente ingloba nel macrocontenitore “terrorismo” tutti i suoi nemici privandoli di legittimità e di umanità. Il crinale percorso da Tripathy è pericolosissimo perché ci vuol poco a scivolare su posizioni in qualche modo giustificatrici dell’odierno terrorismo. Tuttavia resta una constatazione ineludibile: molte azioni oggi definibili terroristiche appartengono sì ai gruppi definiti “terroristi” ma ancor più alla storia delle violenze di Stato. E si ritorna sempre al medesimo punto: è terrorismo ciò che le autorità costituite e le ideologie dominanti decidono di etichettare come tale. La cartina di tornasole è data da quei gruppi terroristici che hanno abbattuto i governi per poi trasformarsi essi stessi in governi. Se il terrorista-ribelle vince lo scontro, egli diventa legittimo attore statuale.

L’Autrice riprende la critica: noi occidentali abbiamo osservato il nemico terrorista da una angolazione parziale; ma il terrorismo nasce «da condizioni sociali svantaggiate, un fatto che chi detiene il potere spesso ignora» (p. 167). Da qui l’esigenza di rivedere i metodi della lotta al terrorismo internazionale, con un occhio di riguardo al buon senso e alla duttilità dimostrati dai governi italiani durante gli anni di piombo: fermezza, repressione, ma al contempo tentativi di dialogo e perdono. Resta dubbio però che una simile politica, a suo tempo adottata nei confronti dei brigatisti rossi (figli, nonostante tutto, della storia e della cultura occidentali), si dimostri praticabile con il terrorismo di matrice fondamentalista islamica.

La conclusione del saggio è piuttosto pessimistica. Il terrorista si rivela un nemico sfuggente e ubiquitario, esso supera gli antichi steccati tra nemico privato e nemico pubblico, pone in crisi la dicotomia “noi-loro” e conduce il potere costituito a reazioni di “approssimazione per eccesso”: «invece di limitarsi a punire i veri responsabili, colpisce un certo gruppo etnico, culturale o religioso nella sua interezza» (p. 171). Un autolesionismo sociale che rende la convivenza civile estremamente precaria.

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