Tommaso
L’obiettivo di una delle opere più significative del Tommaso ancora giovane è ben indicato nel Prologo: «Dicendum est quid nomine essentie et entis significetur, et quomodo in diversis invenitur, et quomodo se habeat ad intentiones logicas, scilicet genus, speciem et differentiam; spiegare cosa significhino ‘ente’ e ‘essenza’, in che modo si trovino nelle diverse cose e in che rapporto stiano con le intenzioni logiche, e cioè con il genere, la specie e la differenza»[1]. Il metodo seguito dal filosofo va da ciò che è meglio noto a quanto è più difficile da comprendere; bisogna dunque partire dalle sostanze composte, e cioè dagli enti materici che percepiamo e che noi stessi siamo, per giungere alle essenze, percorrendo un itinerario che è sempre inseparabilmente logico e ontologico.
Partendo infatti dal V libro della Metafisica di Aristotele, Tommaso distingue due modi nei quali l’ens esiste: l’ente come elemento di una proposizione e l’ente come ciò al quale si possono applicare i ‘dieci generi’, vale a dire le categorie. Il primo significato è più universale perché comprende l’ens rationis, vale a dire tutto ciò di cui è possibile predicare qualcosa anche se non esiste empiricamente. L’ente nel pieno del suo significato e pienezza è comunque sempre ciò che insieme a una semplice definizione, a una quidditas – un modo di essere –, alla pensabilità logica, coniuga ciò che Tommaso definisce l’atto d’essere. L’ente è dunque un concetto più esteso del concetto di essenza poiché unisce all’esistenza formale e concettuale quella sostanziale, empirica, di fatto: «Posso infatti sapere cos’è l’uomo o la fenice, e tuttavia ignorare se esistano o meno nella realtà. È chiaro dunque che l’essere è diverso dall’essenza o quiddità [ergo patet quod esse est aliud ab essentia vel quiditate]»[2].
Come dunque ogni ente è l’unione di materia e forma, così lo è di essenza ed esistenza. Ogni ente tranne Dio, la cui peculiarità consiste proprio nel fatto che in lui esistenza ed essenza non si limitano a risultare inseparabili ma sono del tutto unite, sono la stessa cosa: «Deus cuius essentia est ipsummet suum esse; Dio, la cui essenza è il suo stesso essere»[3].
I filosofi e i concetti con i quali in questo opuscolo Tommaso si confronta in modo diretto o indiretto, esplicito o implicito, e dai quali anzi parte proprio la discussione, sono – oltre ai consueti Aristotele e Porfirio – l’ebreo andaluso Avicebron e il persiano Avicenna.
Avicebron (1020-1058) capovolge la relazione aristotelica tra materia e forma. Dove per lo Stagirita l’elemento universale è la forma (la specie, l’idea platonica) che poi la materia raggruma, incarna e implementa in un ente determinato, per Avicebron l’elemento universale è la materia, al quale poi la forma attribuisce una natura determinata e specifica, trasformando l’idea in un ente. Così il legno è la materia comune alla sedia, alla scrivania e al tavolo; è poi la forma a distinguerli in sedia, scrivania e tavolo. Per Avicebron non si tratta però di una materia nel senso semplicemente e necessariamente corporeo ma di un più generico sostrato indeterminato che poi diventa qualcosa – un ens reale o un ens rationis – solo per la forma che lo plasma e determina.
La materia è dunque l’identità e la forma è la differenza, mentre per Aristotele vale l’inverso, la forma costituendo l’elemento comune dal quale si differenziano i singoli enti materici. Come si vede, Aristotele è più vicino a Platone di quanto lo sia invece Avicebron, il cui ilemorfismo – l’unione di ὕλη/materia e μορφή/forma – è da Tommaso respinto a favore del principio di individuazione per il quale l’essenza di ogni ente sta nella materia signata che lo costituisce, dandogli esistenza e identità rispetto a ogni altro ente composto dalla stessa materia ed esprimente la stessa forma. Tale materia quantitativamente determinata, e non la materia generica in quanto tale, costituisce il contributo di Avicenna (980-1037) all’analisi tomistica: «Non la materia intesa in modo qualunque funge da principio di individuazione, ma solo la materia segnata [materia signata], e chiamo materia segnata quella che viene considerata sotto determinate dimensioni. […] L’essenza dell’uomo e quella di Socrate differiscono tra loro per il fatto che in una la materia è segnata e nell’altra no [secundum signatum et non signatum]»[4].
Il curatore della più recente edizione del testo di Tommaso, Pasquale Porro, spiega e articola l’esempio in modo assai chiaro: «Socrate si distingue da ‘uomo’ (come specie), perché in Socrate la materia si trova concretamente in determinate dimensioni quantitative; ‘uomo’ si distingue come specie dal genere ‘animale’ in virtù della sua differenza specifica che è presa dalla forma, e cioè dalla razionalità»[5].
L’essenza in virtù della quale un ente è ente non è quindi la forma né la materia ma il composto di entrambi, «sebbene di tale essere sia causa, a suo modo, la sola forma; quamvis huismodi esse suo modo sola forma sit causa»[6]. ‘Suo modo’ che è il modo platonico di Avicenna. Quella di Tommaso è dunque un’ontologia olistica e plurale, per la quale «il genere significa in modo indeterminato tutto ciò che è nella specie, e non significa la sola materia. Analogamente anche la differenza significa il tutto, e non soltanto la forma, e così anche la definizione e la specie»[7].
Scoto e Suárez
In questa torsione platonica dell’aristotelismo, che Tommaso sembra fare propria mutuandola da Avicenna, stanno alcune delle principali motivazioni della critica rivolta a Tommaso da Duns Scoto prima e da Francisco Suárez poi. Per questi scolastici, infatti, l’essere si predica in modo univoco di tutti gli enti possibili e pensabili, compreso Dio, e non è qualcosa che si aggiunge a posteriori alla loro essenza. Questo è più o meno il significato della haecceitas della quale parla Scoto, l’essere questa cosa qui e non un’altra. Uno dei fondamenti logici della univocità dell’essere è la tesi secondo la quale «numquam pluralitas est ponenda sine necessitate; non si deve mai affermare una pluralità dove non sia rigorosamente necessaria»[8]. Un esempio di applicazione di tale principio, che non si riferisce a Dio e che anche per questo è esplicativo dell’ontologia di Scoto, è l’unicità dell’universo, poiché «quia ad unum summum est unus ordo, sufficit mihi loqui de solo universo, non fingere aliud; poiché rispetto a un essere sommo vi è un solo ordine, io mi contento di parlare d’un solo universo senza immaginarne un altro»[9]
Per Scoto e per Suárez ente è dunque un fiore, ente è un gatto, ente è la pietra, ente è Dio. Ed ente sono il numero 620, un triangolo equilatero, la giustizia. Ente è tutto ciò che ha un modo d’essere, empirico o razionale che sia, e anche ciò che potrebbe esistere senza contraddizione. L’esistenza attuale e percepibile (quella che concezioni e persone che rimangono alla superficie delle cose ritengono l’unica forma di esistenza) è una delle forme dell’essere. Ente è, certo, qualcosa che occupa un luogo nello spaziotempo ma ente è anche una forma linguistica e concettuale che abita nel corpomente; ente è in generale qualcosa che potenzialmente è in grado di apparire, essere e diventare.
Rispetto a Tommaso, Suárez condivide dunque con Scoto la tendenza all’univocità dell’ente. Dove Tommaso utilizza il dispositivo della ‘analogia’ per coniugare ma anche per nettamente distinguere i modi d’essere delle diverse entità – per l’appunto un fiore, un gatto, una pietra, Dio, il numero 620, un triangolo equilatero, la giustizia – Scoto e Suárez insistono sulla natura per così dire ‘neutra’ dell’ente, all’interno del quale possono essere comprese le entità più diverse, i modi d’essere più vari. L’unica condizione è che tali modalità non siano contraddittorie, che di esse non possa essere predicato allo stesso tempo che sono e che non sono; detto in modo ancora più sintetico «questo principio a priori si riduce a quello per cui ‘Ogni ente è uno’, giacché il motivo per il quale una cosa non può essere e insieme non essere, è che essa, in maniera determinata, può essere solo una»[10], nel senso che Dio e gli enti mondani, il creatore e le creature – per riferirsi alla massima distinzione possibile – partecipano dello stesso essere; la differenza non sta nella loro realtà ma nel modo nel quale essa viene concepita dalle menti umane.
Heidegger
Tra i tanti filosofi che hanno appreso l’ontologia anche da queste discussioni (che sembrano e in parte sono sottili ma che rimangono essenziali) vi è Martin Heidegger, la cui tesi per la libera docenza (1915) è appunto dedicata a Duns Scoto, al quale Heidegger non soltanto riconosce «rispetto agli Scolastici precedenti, una vicinanza (haecceitas) più accurata e più grande alla vita reale, alla varietà e possibilità di tensione della vita stessa» ma ne coglie la ricchezza metafisica in modo assai preciso nel fatto che per Scoto categorie e significati discendono tutti dall’ontologia, dalla «sfera che comprende gli oggetti in generale, ovvero dal momento che permane nella sfera dell’oggettuale»; l’essere è dunque «la categoria delle categorie. L’ens rimane conservato (salvatur) in ogni oggetto, in qualunque modo questo possa essere differenziato nella pienezza del suo contenuto»[11].
Se Heidegger ha potuto richiamare la differenza ontologica tra l’essere e gli enti è anche perché si è posto molto al di là della gnoseologia moderna e al di là della stessa fenomenologia, attingendo al terreno della Scolastica, oltre che ovviamente dei Greci. Una piccola ulteriore prova è il commento che Tommaso de Vio, poi cardinale Gaetano, scrisse al De ente et essentia e nel quale parla anche della differenza ontologica, come è ben indicato dalla sintesi che Porro appronta di alcune parti di tale commento: «Se dunque l’essere puro o illimitato è uno solo, in tutti gli altri enti l’essere è limitato, cioè ricevuto in qualcosa (o determinato da qualcosa) che non è l’essere stesso»[12].
La discussione sull’ente e sull’essenza è soltanto una delle tante che rendono la Scolastica molto più aperta, plurale e feconda di altre tradizioni e correnti, anche successive, anche a noi più vicine. La costante attenzione a essa rivolta da Heidegger ne costituisce un’ulteriore dimostrazione.
[1] Tommaso d’Aquino, L’ente e l’essenza (De ente et essentia, 1252-1256; edizione Leonina del 1976, vol. 43 dell’Opera Omnia); introduzione, traduzione, note e apparati di P. Porro, Bompiani, Milano 2023, pp. 66-67.
[2] Ivi, cap. 4, pp. 112-113.
[3] Ivi, cap. 5, pp. 118-119.
[4] Ivi, cap. 2, pp. 85-87.
[5] Ivi, p. 18.
[6] Ivi, cap. 2, p. 85.
[7] Ivi, cap. 2, p. 91.
[8] G. Duns Scoto, Il primo principio degli esseri (Tractatus de Primo Principio, 1307-1308), introduzione, traduzione e commento di P. Scapin, Liviana Editrice, Padova 1973, cap. II, prop. 37, pp. 112-113.
[9] Ivi, cap. III, prop. 73, pp. 154-155.
[10] F. Suárez, Disputazioni metafisiche I-III (1597 e sgg.); introduzione, traduzione, note e apparati di C. Esposito, nuova edizione riveduta e ampliata, Bompiani, Milano 2017, III.3.1, p. 605.
[11] M. Heidegger, La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto, (Die Kategorien- und Bedeutungslehre des Duns Scotus, 1915), trad. di A. D’Angelo, Mimesis, Milano-Udine 2015, pp. 33-34.
[12] Tommaso D’Aquino, L’ente e l’essenza, cit., p. 196.