Avvocato e dottore in Scienze storiche. Ha al suo attivo pubblicazioni sul federalismo (Le origini del federalismo: il Covenant, 1996; Il sacro contratto. Studio sulle origini del federalismo nordamericano, 1999). Ha inoltre pubblicato Sovranità. Teologia e sacro alle origini di una categoria politica (2015); Il regime alimentare dei monaci nell'alto medio evo (2017), Paura e Rivoluzione francese nell’opera di Guglielmo Ferrero (2021); Un nuovo romanticismo per il nuovo secolo (2024) . Inoltre ha curato la riedizione del volume di Guglielmo Ferrero Palingenesi di Roma antica (2019). E' autore di articoli e relatore in convegni di studio.
Recensione a: N. Lipari, Elogio della giustizia, il Mulino, Bologna 2021, pp. 114, € 10,00.
Diritto e Giustizia: due valori inconciliabili (summum ius summa iniuria) o l’uno sgorgante dall’altro (ius est ars boni et aequi)? Su questo tema si interroga Nicolò Lipari, uno dei massimi civilisti italiani e autore di saggi giuridici che hanno fatto scuola, nel suo Elogio della giustizia, opera breve ma pregna di concetti e che conferma la sua non comune capacità di sintesi. Da risoluto antipositivista l’Autore offre alla domanda iniziale una risposta favorevole alla coniugazione di Nomos e Dike, per poi giungere a conclusioni che lasciano aperti alcuni fondamentali problemi. Vediamo brevemente come Lipari, muovendo da una critica decisa a Kelsen e al kelsenismo, si focalizzi sul principio di ragionevolezza, grazie a cui il diritto si fa “giusto” e la giustizia informa di sé il diritto.
La raffinata costruzione intellettuale kelseniana del diritto come pura e astratta forma e, quale corollario, la pretesa autoreferenzialità del sistema giuridico vanno entrambe incontro a severe critiche di taglio storico-empirico e ad altre di taglio concettuale. Anzitutto il presupposto della statualità del diritto è storicamente falso se elevato a condicio sine qua non della giuridicità. Il diritto vive prima, sopra e accanto all’ordinamento giuridico chiamato “Stato” e non necessariamente entro di esso. La giuridicità della norma affonda le radici sociologiche nei corpi sociali intermedi e comunque pre-statuali, come già ben compresero i giuristi medievali. Se il pluralismo giuridico si impose da sé, come dato di fatto del nostro Medioevo e non venne mai completamente scalzato neppure nell’epoca d’oro delle codificazioni e del positivismo, va aggiunto che esso oggi, in piena età di globalizzazione, di lodi arbitrali transnazionali, di corti di giustizia e di convenzioni internazionali dei diritti umani fondamentali, si rivela più vigoroso che mai. Ma se la storia del diritto e la contemporaneità giuridica – se lette senza i paraocchi positivistici – infliggono duri colpi al formalismo giuridico kelseniano sul piano della prassi, smentite ancor più perentorie e letali investono l’ideologia kelseniana sul terreno che le è più proprio, quello concettuale. Qui assistiamo da un lato alla riemersione della concezione del diritto quale intersubiettività, con rinvio a un insieme di valori condivisi che conferiscono “sapore” al ius: non mero comando calato dall’alto ma relazione, dialogo, socialità. Dall’altro lato il vulnus al sistema teorico di Kelsen si chiama ermeneutica giuridica. Infatti anche a voler ammettere che il diritto sia riducibile a norme positive emanate dal legislatore statale secondo la corretta procedura, resta pur sempre vero che il testo legislativo preso in sé e per sé non assume forza vincolante senza l’intervento dell’interprete.
Il testo linguistico va letto, compreso, orientato in un senso piuttosto che in un altro. Esso è inconcepibile senza un interprete, talché si ritiene che il dispositivo (testo lessicale) si collochi come mera tappa intermedia in quell’itinerario che conduce alla norma (il precetto finale, come letto, assorbito e riempito di contenuti valoriali e sociali orientati a seconda della prevalenza di dati punti di riferimento dell’interprete). L’interprete – sia esso il giudice, lo studioso, il legislatore medesimo – inevitabilmente subirà il condizionamento dei contesti e dei valori extratestuali. Il testo vivrà di vita effettiva non in quanto scheletro lessicale ma perché insufflato di valori.
L’insistenza di Lipari sulla palese insufficienza e unilateralità del positivismo – secondo cui è vigente solo la norma prodotta dalla norma superiore e secondo la procedura prestabilita – non impedisce all’Autore di cogliere i limiti anche delle altre due grandi correnti della civiltà giuridica: il realismo e il giusnaturalismo. Per il primo, si considera vigente solo la norma la cui osservanza sia effettiva nel presente e prevedibilmente nel futuro; per il giusnaturalismo è invece davvero vigente solo la norma conforme alla legge di natura a-storica o rivelata, sostanziandosi le norme non conformi in meri abusi del potere o in violenza. Schematizzando, le tre concezioni (positivismo, realismo, giusnaturalismo) conservano elementi di verità indispensabili perché si dia un ius: forma, effettualità, valore. Ma una distinzione rigida e aprioristica fra i tre elementi è sviante e conduce ai mai troppo deprecati unilateralismi ideologici e, soprattutto, all’innaturale divorzio tra diritto e giustizia. L’idea suggerita da Lipari e che sorregge questo suo Elogio della giustizia procede nel senso di una sintesi dei tre momenti e nella coniugazione ragionevole tra la norma (Nomos) e il valore (Dike).
E qui, nel quarto capitolo del saggio (Ragionevolezza e giustizia) Lipari affronta la questione cruciale della coniugazione dei due momenti. Merita soffermarvici sopra, perché aiuta a comprendere cosa si intenda per diritto “vivo” in un quadro valoriale pre-esistente al sistema normativo. Il discorso si incentra sul principio di ragionevolezza. Esso – Lipari lo riconosce – non risulta facilmente definibile. Non è razionalità astratta, logica formale operante per sillogismi date certe premesse e a prescindere dalla realtà storico-sociale di riferimento. Più che sforzarsi di elaborare una definizione teoricamente rigorosa del principio è più agevole (e anche utile ai fini della sua stessa comprensione concettuale) illustrare come esso agisca: «una sorta di bussola interpretativa» che «saldi le attese di giustizia con la capacità di comprensione e gli indici di valore dei consociati» (p. 61). Insomma: un principio di raccordo tra il sistema delle norme formali, i valori fondativi dell’ordinamento e la concretezza della società in un dato momento storico. La ragionevolezza – nei sui intenti ideali – salda Nomos (dato normativo formale) e Dike (la giustizia in senso lato, il sostrato valoriale dell’ordinamento) e, a differenza della razionalità pura e astratta, essa procede dialogicamente e dialetticamente. Ammette la coesistenza plurale di valori eventualmente tra loro anche contrapposti, opera con metodo argomentativo e persuasivo (non a caso Lipari evoca un suggestivo paragone con le prove dialettiche dell’aristotelismo) e – elemento di massima importanza – tiene conto delle aspettative del corpo sociale o di segmenti di questo. Si muove non in linea retta (come un ragionamento sorretto dalle ferree leggi della logica formale) ma lungo itinerari tortuosi e complicati, come tortuosa e difficile è la realtà sociale, conservando però sempre come propria bussola la ragionevole tensione verso il valore-giustizia.
Sotto questo aspetto il giudice – e in primis la Corte Costituzionale – è chiamato a verificare se la norma formalmente in vigore contenga una intrinseca «ragionevolezza», ossia la «capacità di rispondere agli orizzonti di attesa della collettività» (p. 67) in un preciso contesto storico, sociale e culturale. La norma si rivela ragionevole se rispondente non a un valore astratto, puro e eterno (come pretenderebbe il giusnaturalismo tradizionale), ma a qualcosa di più sottile e al tempo stesso più “corposo”: a un sentimento valoriale diffuso e ragionevolmente condiviso della collettività.
Non va sottaciuto che in quelle che Lipari definisce «zone di confine» si creino spesso nette contrapposizioni valoriali: i valori del passato non mollano la presa sul corpo sociale e i valori nuovi premono per tradursi in sentimento diffuso. In questi casi è inevitabile che sorgano conflitti giurisprudenziali e plurimi modi di intendere la ragionevolezza, tra cui non è certo facile districarsi “ragionevolmente”. Resta però un punto fermo: la norma (e l’interpretazione che se ne offre) deve restare conforme ai valori costituzionali, i quali proprio perché duttili e cangianti con la società e la storia, imprimono vitalità al diritto. Gli «indici di valore praticati» (una locuzione cara a Paolo Grossi e che Lipari riprende) informano di sé le norme; una norma non ragionevolmente riconducibile a questi duttili valori andrà espunta perché ridottasi ormai a fossile di epoche passate.
Il punto debole – se così possiamo permetterci di scrivere – della bella e nel suo insieme persuasiva impostazione di Lipari sta nel rovescio della medaglia di questa ragionevolezza: il relativismo valoriale. Se persino i valori costituzionali cambiano di continuo (si pensi al valore della famiglia, art. 29 Cost.) si nega per principio la possibilità di valori oggettivi metastorici. Per molti giuristi questo relativismo va difeso e potenziato perché si armonizzerebbe molto bene col pluralismo della società aperta. Ma, così come il relativismo positivista (“è giusto ciò che è legge formale finché la legge resta in vigore”), anche il relativismo sociologico se innalzato a valore (la duttilità) rischia di travolgere l’idea stessa di Dike.
Una Dike per ogni stagione storica significa nel lungo periodo nessuna Dike. L’argomento è cruciale e va ben oltre la riflessione strettamente giuridica. Ci basti in questa sede, per tornare a Lipari, notare come secondo l’illustre Autore la giustizia non sia fissa e muova anzi dalla storicità del contesto sociale. E tuttavia essa resta «un traguardo» (p. 85), raggiungibile sì «attraverso le difficili vie della storia» ma che, proprio perché traguardo finale, si pone su un piano difforme (quindi superiore?) rispetto alla storia.