Alfonso Lanzieri (1985) è dottore di ricerca in filosofia dal 2017. Attualmente insegna filosofia presso la Facoltà Teologica di Napoli e l’ISSR “Duns Scoto” di Nola-Acerra. Si interessa principalmente di filosofia della conoscenza e filosofia della mente. Ha pubblicato saggi, articoli e monografie, tra cui Pensiero e realtà. Un'introduzione al "realismo critico" di Bernard Lonergan (Mimesis, 2017); Il corpo nell'anima. Henri Bergson e la filosofia della mente (Mimesis, 2022).

Forse i tempi sono maturi per dichiarare definitivamente il tramonto della breve parentesi del cosiddetto “pensiero debole”, proposta filosofica sviluppatasi negli anni ’80 dello scorso secolo e che ha avuto una certa eco nel dibattito culturale nazionale ed internazionale. So che è un’affermazione alquanto tranchant e arrischiata, tuttavia credo che i fatti storici cui stiamo assistendo da qualche tempo a questa parte portino concordemente verso tale conclusione.

Il “pensiero debole” ha avuto in Gianni Vattimo il suo interprete più noto mediaticamente (ma accanto a lui va ricordato anche Pier Aldo Rovatti, meno conosciuto dal grande pubblico). Questi pensatori, a partire, in particolare, da una certa ricezione della riflessione di Nietzsche e Heidegger (ma anche di altre voci di diversa estrazione), quarant’anni fa circa annunciarono la dissoluzione della metafisica, vale a dire dell’idea che ci sia una struttura stabile dell’essere, un fondamento ultimo che la ragione coglie e su cui fonda la propria conoscenza oggettiva del mondo. Dobbiamo prendere atto, dicevano, che la critica dell’ideologia (vediamo il mondo secondo schemi condizionati dalla nostra storia, dai nostri interessi, ecc.) e la conseguente “scoperta” della varietà delle culture, hanno eroso in modo decisivo l’idea di una conoscenza definitivamente fondata, valida come una teoria del mondo costruita sub specie aeternitatis. Ai motivi di tale presa di posizione bisogna aggiungere anche cause di natura politica: per ammissione dello stesso Vattimo, i teorici del pensiero debole erano anche mossi da una sorta di “reflusso” per la mancata rivoluzione che il ’68 aveva promesso ma non realizzato: la società borghese non era stata ribaltata (neanche il terrorismo degli anni ‘70 ci riuscì, e per fortuna).

Non bisogna confondere l’ontologia ermeneutica del “pensiero debole” con una sorta di sciatto relativismo: il punto – spiegavano i suoi autori  ̶  è provare a superare un’idea troppo rigida e ristretta di oggettività, che vorrebbe essere “rispecchiamento” di un mondo dato a una coscienza in sorvolo su di esso, e un atteggiamento filosofico sempre intento a “fondare”. In tal senso, Vattimo non respinge anzi rivendica il nichilismo:

Non mi sembra che gli esiti nichilistici dell’ermeneutica siano semplicemente un malinteso da dissipare. Sono anzi convinto che proprio in quanto orientata a questi esiti l’ermeneutica sia la filosofia della nostra epoca […]. Non mi propongo nessun ritorno alla realtà, ai fondamenti, alla solidità di una ontologia con i piedi per terra, contro il rischio dell’irrazionalismo dilagante […]. Penso piuttosto a un movimento di presa di congedo, di distacco, di dissoluzione e indebolimento della realtà, che vedo delinearsi in molteplici aspetti della cultura contemporanea» (G. Vattimo, Della realtà. Fini della filosofia, 2012).

In verità, nuove (o vecchie) “metafisiche”, alquanto agguerrite, si presentano sulla scena o hanno ripreso vigore e si guardano minacciose. Gli dèi sembrano tornati a scontrarsi in una nuova titanomachia. Putin, Hamas o la Cina, non si fanno interpreti solo di puntuali interessi geopolitici o economici ma di una teoria complessiva del mondo, dell’uomo e della storia, sebbene non sempre sia espressa né tantomeno pensata in modo sistematico.

Sei anni fa, ad esempio, il leader del Partico Comunista Cinese, Xi Jinping, lanciò il Pensiero sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era nel discorso di apertura del XIX Congresso nazionale del partito. Liu Yunshan, ex membro del Comitato permanente del Politburo, in quell’occasione affermò che il Pensiero (la maiuscola rende meglio l’idea) di Xi Jinping avrebbe rappresentato il punto di riferimento per il gruppo dirigente del Paese: «Il Pensiero della “nuova era” di Xi ha un grande significato politico, teorico e pratico e tutti i membri del partito dovrebbero studiarlo a fondo». La proposta di Xi rappresenta un aggiornamento del già noto «socialismo con caratteristiche cinesi», per usare l’espressione coniata da Deng Xiaoping all’inizio degli anni ’80. La visione del leader cinese si trova racchiusa in un libro in tre volumi dal titolo Governare la Cina, in Italia pubblicato da Giunti. Scorrerne le pagine è molto interessante. Si parla di «perseverare nel socialismo con caratteristiche cinesi e svilupparlo», di «perseverare nel pensiero immortale di Mao Zedong e attuarlo» (immortale, atemporale, come le essenze metafisiche), del fatto che «il sogno cinese recherà benessere non solo al popolo cinese ma anche a tutti gli altri popoli del mondo», «coltivare e diffondere i valori del socialismo sin dall’infanzia», «costruire un esercito popolare ubbidiente al Partito, invincibile e dallo stile esemplare». Il libro ha la copertina bianca, ma ricorda il libretto rosso di Mao. Numerose università cinesi hanno fondato degli istituti di ricerca dediti all’incorporazione del pensiero di Xi Jinping in tutti gli aspetti della vita quotidiana cinese.

Certo, non si può trascurare l’aspetto propagandistico di tali operazioni e tuttavia la carica ideale (pure ideologica, va da sé) di questi discorsi, la diffusa fede nella loro verità, la mobilitazione delle menti e dei corpi di cui sono capaci, è una realtà inemendabile. Davanti al “sogno cinese” ci chiediamo quanti oggi negli USA saprebbero propugnare con la medesima fede di qualche decennio fa l’idea del “sogno americano”.

Discorso analogo può essere fatto per quanto riguarda la Russia di Putin. Anche ciò che arriva da quelle parti somiglia a una vera e propria “metafisica”. Colui che è stato definito l’ideologo del Cremlino, il filosofo Alexandr Dugin, presenta da anni la Federazione Russa come l’entità politica e culturale in lotta contro l’Occidente inquinato fino al midollo dal liberalismo. Questo, lungi dall’essere promotore di libertà e progresso, rappresenterebbe un veleno antropologico per il quale l’antidoto migliore sarebbe un pensiero sostanzialmente anti-moderno, anti-occidentale e anti-globalista. In tale prospettiva, allora, il conflitto in Ucraina, iniziato con l’invasione dell’esercito russo nel febbraio 2022, per Dugin si configura come una sorta di “Guerra dei Mondi”, dove a scontrarsi sarebbero due civiltà, anzi, ad essere più precisi, un’anti-civiltà, quella euro-atlantica liberale, e la civiltà che a questa si oppone, con la Russia a fare da capofila. L’Occidente, tra l’altro, sempre secondo Dugin, sarebbe alle prese con il Grande Reset, un ampio e segreto progetto delle élite liberal-progressiste che mirerebbe a schiavizzare le obnubilate masse occidentali e a cambiarne i connotati antropologici. «Putin – ha spiegato infatti Dugin in un’intervista del marzo 2022 al quotidiano italiano “La Verità”  ̶  è entrato nella battaglia, ma non con l’Ucraina, bensì con il globalismo, con l’oligarchia mondiale, con il Great Override, con il liberalismo e la fine della storia». Non si vogliono qui identificare tali prospettive con l’intera cultura russa contemporanea, ma sottolineare la loro massima influenza politica e la forza di suggestione e penetrazione nel mercato delle idee.

Ne La quarta teoria politica, il pensatore russo delinea i tratti generali della sua proposta. Si chiama “quarta teoria” perché viene dopo le tre grandi teorie della politica moderna, vale a dire il liberalismo, il fascismo e il comunismo. Queste tre teorie politiche si differenziano, spiega Dugin, in base al soggetto posto al centro dalle rispettive prospettive: l’individuo nel liberalismo, la nazione nel fascismo, la classe nel comunismo. Il nuovo soggetto che dovrebbe subentrare ai precedenti, in verità, non viene ben identificato dall’autore. Tuttavia il filosofo tiene a evidenziare l’importanza capitale di quella che lui definisce l’unità sociale primaria, l’ethnos, un elemento perenne che rimarrebbe intatto attraverso le modificazioni storico-sociali (su questo si può vedere anche la mastodontica opera Etnosociologia, nella quale l’intellettuale russo tenta una ricostruzione genealogica della società, dall’unità sociale di base, l’ethnos, per giungere alle società più complesse: narod, cioè il “popolo”, fino alla società globale, passando per la società nazionale).

Nella visione di Dugin, nelle cui pagine talvolta si respira aria di esoterismo à la René Guénon, il cristianesimo ortodosso gioca un ruolo molto importante, in quanto depositario della sana tradizione non corrotta dalla modernità liberal-borghese occidentale.

Il richiamo religioso, pur se ideologicamente strumentalizzato, è centrale per formazioni terroristiche come Hamas o altri gruppi della galassia del fondamentalismo islamico, in non pochi casi legati in modo diretto a formazioni politiche e potentati economici. E qui un altro elemento dell’agenda filosofica degli scorsi anni entra fortemente in crisi: nonostante un consistente volume di analisi sia andato in direzione opposta, la religione e la “teologia politica” sono oggi elementi cruciali per interpretare i grandi accadimenti mondiali. Del resto, in Cina Xi Jinping ha recuperato la filosofia religiosa di Confucio, con riferimenti espliciti che si trovano in discorsi e dichiarazioni programmatiche.

Tutto ciò accade mentre in Occidente circola la nuova “metafisica”, un po’ filosofia politica un po’ filosofia della storia, che per brevità (e dunque con una certa semplificazione) indichiamo col termine-ombrello “wokeness”, parola che si può tradurre in modo abbastanza neutrale con “consapevolezza delle ingiustizie sociali”. Secondo tale prospettiva, la maggioranza della società avrebbe beneficiato di “privilegi” basati sul colore della pelle (bianco), sul genere (patriarcato), sul luogo di nascita (colonialismo, imperialismo), sull’identità di genere (cisgender) e sul dominio della natura (specismo). Sia il passato che il presente sarebbero da leggere alla luce di tali ingiustizie sistemiche e strutturali, che abbiamo il compito di rimuovere con un minuzioso e intransigente lavoro di purificazione sociale (che comincia dal linguaggio). Chi non vede la necessità di tale opera  ̶̶  spiegano i teorici woke  ̶  o è vittima di razzismo inconscio o semplicemente vuole tenersi il proprio privilegio. Dice molto il fatto che il filosofo e scrittore italiano Raffaele Alberto Ventura abbia di recente pubblicato un vero e proprio manuale, intitolato Le regole del gioco, per abitarne i neonati codici linguistici che da tale visione discendono.

In questo stato di tensione tra filosofie in competizione, alle nostre latitudini crescono correlativamente i richiami ai fondamenti della “società aperta” (illuminismo, rivoluzione scientifica, libero mercato, libertà individuali), pur con tutte la stanchezza del caso. La previsione di chi scrive è che tale rilancio continuerà a salire di tono, sotto la spinta della critica esterna e interna.

In aggiunta a tutto questo, la pandemia prima e la guerra ora, con le strazianti immagini che giungono dai campi di battaglia del mondo, riportano in auge i grandi interrogativi “esistenzialisti” sul male e sul senso della vita, che per un po’ di tempo hanno rappresentato la periferia della riflessione filosofica, molto più concentrata su analisi del linguaggio, rapporto con la scienza o teoria critica della società, quando non intenta a discutere infinitamente del proprio statuto epistemologico.

Mi sembra, insomma, che il pensiero debole, più che inaugurare una nuova fase della cultura, ne abbia fotografata solo una transitoria, in cui determinate forze storiche stavano semplicemente prendendo fiato prima di riemergere dopo un periodo di latenza. Il crollo dell’Urss e la caduta del muro di Berlino le ha rimesse in marcia e le ha avvicinate, con tutte le conseguenze del caso. Ora un gran vento torna ad alzarsi, dopo una relativa quiete, in cui ci si è spinti a pensare che il problema della “verità” potesse essere messo tra parentesi per favorire la “solidarietà”, che la “filosofia” potesse cedere il passo alla “post-filosofia”. Nulla di tutto questo appare percorribile oggi.

Non si tratta chiaramente di mettersi sul ring e darsele di santa ragione per accaparrarsi la vittoria finale, né di soffiare sul fuoco di veri o presunti “scontri di civiltà”. Più ragionevolmente, forse, è il caso di rimodulare l’agenda filosofica: “verità”, “persona”, “storia”, “libertà”, “democrazia”, sono solo alcuni dei temi che attendono di essere ripensati. Ancora una volta? Sì, ancora una volta. Le grandi questioni, infatti, diceva Nicolás Gómez Dávila, non hanno una soluzione, hanno una storia.

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