Lorenzo Paudice (1975) si è laureato in Filosofia presso l’Ateneo fiorentino nel 2002, discutendo la tesi La questione del valore in bioetica. Dal luglio 2004 al settembre 2010 ha collaborato con la SISMEL – FEF (Società Internazionale per lo Studio del Medio Evo Latino – Fondazione Ezio Franceschini) alla redazione centrale per la realizzazione di Medioevo latino. Bollettino bibliografico della cultura europea da Boezio a Erasmo (sec. VI-VII). Nell’a.a. 2015-2016 è stato Docente Incaricato di Storia della Filosofia Antica presso la Facoltà Teologica “San Gregorio Magno” del Monastero Ortodosso di San Serafino di Sarov presso la facoltà di Filosofia dell’Università degli Studi di Firenze. Attualmente è impegnato in un personale lavoro di ricerca e approfondimento storico-teorico del pensiero di L. Wittgenstein e dei maggiori esponenti novecenteschi dell’ordinary language philosophy (in particolare G. Ryle e J.L. Austin).

La morte corre sul fiume (The Night of the Hunter) è l’unica, memorabile regia di Laughton, il leggendario attore britannico (1899-1962) interprete di classici come Notre Dame, La tragedia del Bounty, Il caso Paradine e Testimone d’accusa.

Quel film, di cui il prossimo 26 luglio ricorrono i settant’anni dall’uscita nelle sale americane, è un capolavoro assoluto al quale solo il tempo ha reso piena giustizia. Tratto dall’omonimo romanzo di successo (1953) di Davis Grubb (pubblicato in Italia da Adelphi, nella traduzione di Giuseppina Oneto), adattato per lo schermo da James Agee – alla sua ultima esperienza di sceneggiatore – e a propria volta ispirato alla storia vera del serial killer Harry Powers, la pellicola fu definita dallo stesso regista «una specie di incubo raccontato da Mamma Oca» ed è in effetti un’opera inclassificabile, irriducibile ai suoi generi canonici di riferimento (thriller, noir, “Southern Gothic drama”) grazie ad uno stile personalissimo, senza uguali nel cinema hollywoodiano dell’epoca (cfr. P. Mereghetti, Il Dizionario dei film 2011, Baldini Castoldi Dalai editore, Milano 2010, pp. 2166-2167).

Durante la Grande Depressione, il predicatore psicopatico Harry Powell (Robert Mitchum) percorre l’America impalmando ricche vedove che poi uccide per ereditarne le fortune; a muoverlo non è solo l’avidità ma anche l’oscura convinzione – nutrita di misoginia e dell’ossessione puritana per il peccato – di adempiere una missione divina. Arrestato in West Virginia per il furto di un’auto, conosce in prigione Ben Harper (Robert Graves), rapinatore ed assassino in attesa di esecuzione, il quale gli rivela di avere fatto in tempo a nascondere, prima della cattura, la refurtiva del suo ultimo colpo, ammontate a 10.000 dollari: solo i suoi due bambini John (Billy Chapin) e Pearl (Sally Jane Bruce), di dieci e cinque anni, sanno dove si trova. Così, una volta scarcerato, Powell si reca al villaggio di Harper, ne corteggia e sposa la vedova Willa (Shelley Winters) e cerca di guadagnarsi la fiducia dei due piccoli, che tuttavia sembrano i soli a non lasciarsi ammaliare dai suoi modi suadenti e subdoli. Quando Willa scopre le sue reali intenzioni, l’uomo l’accoltella a morte e ne occulta il cadavere in fondo al fiume Ohio, sostenendo che ella è andata via di casa per darsi a un’esistenza dissoluta. Zio Birdie (James Gleason), un vecchio ubriacone che vive a bordo di una zattera, rinviene il corpo, ma tace nel timore di essere accusato del delitto. A forza di minacciare i bambini, Powell riesce infine a sapere dov’è nascosto il bottino: nella bambola di pezza di Pearl. I fratellini però fuggono lungo il fiume sulla zattera di Birdie – ormai inebetito dall’alcool – e, al termine di un pauroso viaggio notturno durante il quale sono inseguiti a cavallo dal patrigno, trovano rifugio e salvezza presso Rachel Cooper (Lillian Gish),  un’anziana e burbera dama di carità che raccoglie trovatelli. Arriva la resa dei conti: la donna affronta e smaschera pubblicamente Powell, che per poco non viene linciato dalla folla. Il criminale è consegnato alla giustizia – e al boia – e i due bambini, finalmente al sicuro, possono festeggiare il primo Natale nella loro nuova, amorevole famiglia allargata.

Moderna fiaba dell’orrore sulla pervasività del Male e l’iniziazione all’età adulta, La morte corre sul fiume si colloca sin da subito su un piano archetipico e onirico in virtù di una messinscena che rinuncia ad ogni pretesa di realismo. Tutta la storia è come filtrata dalla prospettiva infantile dei due piccoli protagonisti, novelli Hansel e Gretel insidiati dal Patrigno/Orco. Con una perizia tecnica sorprendente, Laughton pare voler ricapitolare mezzo secolo di cinema in una sintesi visiva e tematica inedita, che richiama l’espressionismo (la spendida fotografia in bianco e nero di Stanley Cortez), il surrealismo (il cadavere di Willa tra le alghe, il bestiario buñueliano nella palude durante la fuga notturna) [cfr. Ibidem], la lezione di Griffith e l’epoca del muto in genere (nell’ambientazione anni Trenta, nella recitazione antinaturalistica degli attori e nell’uso di espedienti quali il diaframma regolabile): emblematica in tal senso la presenza della Gish, quasi un passaggio di testimone. La stessa narrazione, pur nella sua linearità, sembra procedere piuttosto per assonanze, analogie e rimandi simbolici interni che per rigorosa consequenzialità logica, proprio come accade nei sogni. A dominare tutto il film è ovviamente la figura demoniaca di Powell (uno strepitoso Mitchum, nella migliore performance della sua carriera), autentica incarnazione del Male, sempre vestito di nero e con le parole ‘LOVE’ ed ‘HATE’ tatuate sulle nocche: probabilmente il villain più spaventoso mai apparso sullo schermo, connubio e compendio di tutti i vizi della provincia americana (brama di denaro, brutalità, fanatismo, sessuofobia e ipocrisia perbenista), nei cui confronti La morte corre sul fiume è un atto d’accusa veemente e impietoso. Egli non si limita a commettere il male, lo diffonde intorno a sé come un contagio, trasformando Willa – con la quale si rifiuta di consumare le nozze – in un’invasata religiosa e plagiando i compaesani degli Harper (che tenteranno di linciarlo non appena scoperta la verità).

Cult movie adorato e preso a modello da generazioni di cineasti, La morte corre sul fiume fu accolto da recensioni tiepide, e il suo clamoroso insuccesso commerciale stroncò sul nascere una carriera registica che avrebbe potuto donarci chissà quali altri capolavori. O forse no: certi miracoli sono irripetibili anche per i grandi maestri.

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