Giulia Gelli (1991), laureata presso l’Università di Firenze con una tesi su Gian Pietro Lucini intitolata “d’Annunzio e Lucini. Antidannunziana I e II”, attualmente docente di lettere presso il Liceo Classico Santa Maria degli Angeli di Firenze.
Questo faticoso anno scolastico è giunto al termine e si avvicina, per gli studenti della quinta, la prova finale, l’Esame di Stato, tanto agognato quanto temuto da qualsiasi alunno delle superiori. La maturità non è soltanto il coronamento di anni di studio, ma rappresenta un vero e proprio rito di iniziazione a quella che è la vita fuori dalla scuola: che si prosegua con gli studi universitari o che si intraprenda una professione, è il primo vero esame a cui siamo sottoposti.
Vero è che fin dalla sua introduzione, nel 1923, con la riforma Gentile, l’esame ha subìto varie modifiche. Non scenderemo nel merito dei vari cambiamenti apportati nel corso del Novecento e dei due decenni passati. Tratteremo, piuttosto, dell’aspetto della maturità in questi ultimi funesti anni scolastici. I ministri Azzolina e Bianchi si sono trovati a dover riscrivere in parte la prova a causa della pandemia di Covid-19 e della Didattica a Distanza che ne è derivata. L’emergenza ha portato a ritenere necessaria l’esclusione delle prove scritte: durante i mesi di DaD, infatti, è stato difficoltoso far scrivere i ragazzi in modo costruttivo e serio, anche se, obiettivamente, non impossibile.
Lo svolgimento tradizionale dell’esame (due scritti ed un orale) è stato dunque sostituito da un unico colloquio, sostenuto al cospetto di una commissione di membri interni e un Presidente esterno; si dovrà svolgere in circa un’ora e sarà suddiviso in quattro fasi. Potrà essere assegnato un massimo di quaranta punti, mentre i rimanenti sessanta deriveranno dai crediti del triennio.
La prova inizierà con l’esposizione dell’elaborato scritto, il quale verte sulle materie di indirizzo, indicate dal Ministero stesso per ogni tipologia di liceo e di istituto. La tematica dell’elaborato è stata assegnata a ciascuno studente dal consiglio di classe; il lavoro è stato preparato e consegnato dagli alunni entro il 31 maggio scorso. Segue l’analisi di un breve testo di italiano e una discussione che abbracci tutte le materie, derivante da materiale predisposto dalla stessa commissione. Si conclude con la verifica delle conoscenze di Cittadinanza e Costituzione e del PCTO. Altra novità: da quest’anno la commissione è tenuta a consultare il «Curriculum dello studente», che informa «sul percorso scolastico, le certificazioni conseguite e le attività extrascolastiche svolte nel corso degli anni». L’esame, quindi, in questa forma, vuole sicuramente mettere in luce il lavoro di approfondimento a cui i ragazzi, guidati dal corpo docente, si sono dedicati nell’ultimo mese di scuola, e la loro capacità di collegamento fra le discipline.
Fino a qui, tutto bene. Ma come recita una famosa pellicola, il problema non è la caduta, bensì l’atterraggio: la temporanea sospensione degli scritti, come già sottolineato, risulta comprensibile. Al contrario, lo è molto meno l’idea, accennata dal ministro Bianchi, di mantenere questo modello anche per gli anni a venire. Nella scuola delle competenze, dove si rifugge il termine nozione come se fosse peste, non si può relegare la scrittura, competenza appunto fondamentale non solo per il percorso scolastico, ma soprattutto per la vita pratica e quotidiana, alla sola stesura dell’elaborato.
Come si può pensare ad una maturità senza tema di italiano? O senza una prova scritta sulle materie di indirizzo? Sarebbe un esame mutilato, esattamente come lo è quest’anno e come lo è stato l’anno precedente, così come mutilata sarebbe la capacità dei nostri futuri studenti di approcciarsi al testo scritto, sebbene la tensione che sperimentano adesso sembri la medesima provata da noi in passato, aggravata dal fatto che l’esame non ha avuto forma certa se non fino a qualche mese fa. Se invece il problema è ciò che incarnano le prove scritte, cioè un vero e proprio scoglio nella carriera scolastica, pare opportuno sottolineare che il ruolo dell’insegnante e della scuola in generale è quello di stimolare e mettere alla prova lo studente, dopo aver fatto in modo che lo stesso abbia acquisito tutti gli strumenti necessari per poter superare al meglio l’esame.
Difatti è basilare che il docente faccia in modo di fornire durante l’anno scolastico (o, per chi non è precario, gli anni scolastici) ogni mezzo che la disciplina prevede per poter affrontare qualsiasi tipo di difficoltà al riguardo. Saggiare poi le competenze acquisite dall’alunno è necessario, altrimenti a cosa si riduce il ruolo del professore? Alla semplice supervisione di un gruppo di ragazzi adolescenti in una stanza con molte sedie e tavolini?
È, dunque, fondamentale rifuggire la tendenza, sempre più in voga negli ultimi anni, per cui tutto ciò che mette alla prova lo studente è errato o derubricato a mero nozionismo, giacché, a ben vedere, è parte integrante del processo di insegnamento. Nella speranza di recuperare una parvenza di normalità negli anni a venire, pur traendo il meglio (si fa per dire) da questo infausto biennio, non si può lasciare indietro ciò che c’era di buono nel passato; ma sfortunatamente, nell’ossessione di dover cambiare ed evolvere per forza, troppo spesso si dimenticano quelli che sono invece cardini imprescindibili.