Giulia Gelli (1991), laureata presso l’Università di Firenze con una tesi su Gian Pietro Lucini intitolata “d’Annunzio e Lucini. Antidannunziana I e II”, attualmente docente di lettere presso il Liceo Classico Santa Maria degli Angeli di Firenze.

Guido Gozzano è il classico poeta che nei programmi di quinta superiore viene saltato, dimenticato, ridotto a semplice nome citato in qualche trafiletto poco interessante su autori un po’ noiosi, un po’ sbiaditi. Si esce dalle superiori conoscendo a menadito autori che certamente solleticano la nostra curiosità di diciannovenni, ed il povero guidogozzano rimane soltanto «quello che fa rimare Nietzsche con camicie».

Eppure, a ben vedere, è uno dei poeti più profondi e interessanti del primo Novecento: apparentemente controllato, è in realtà caustico e pungente, malinconico e, allo stesso tempo, ironico. Dannunziano pentito e avvocato mancato, entomologo per passione, conserva il gusto e l’amore per il Bello tipici del poeta pescarese svuotandoli della magniloquenza del Vate per piegarli a toni prosastici, adatti a descrivere «le buone cose di pessimo gusto» di una vita borghese in cui non c’è più posto per la poesia. Ma l’esperienza crepuscolare gozzaniana, leopardianamente inattuale e incompresa, sembra affievolirsi sul nascere con la sua prematura morte, avvenuta nel 1916 a causa della tubercolosi, malattia che lo ha consumato per circa un decennio. È Eugenio Montale tra i primi a evidenziarne l’importanza, sostenendo che proprio lui, il ‘docile’ Gozzano, aveva attraversato l’altisonante d’Annunzio smantellandolo dall’interno, con le sue stesse parole, segnando l’inizio di una nuova via per la poesia novecentesca, di certo più longeva del fuoco futurista.

Gozzano, dunque, rappresenta una lettura fondamentale per chiunque sia appassionato di letteratura, e non solo. Premettiamo: la poesia, generalmente, non si presta certo ad una lettura spensierata; per questo è ingiustamente relegata al solo ambito scolastico, il che purtroppo significa spesso poesia spiegata e studiata nel peggiore dei modi possibili, associata al compitino, perdendo di vista il fatto che essa rappresenta l’ossatura della nostra letteratura e quindi della nostra identità.

In un secolo come il Novecento, in cui il poeta perde definitivamente il suo ruolo di guida e la poesia diventa qualcosa di trascurabile e impolverato, Gozzano scrive la sua seconda e raffinata raccolta poetica, I colloqui. Vi si narra la storia di un giovane uomo, “l’Avvocato” appunto, colpito da una malattia tanto silente quanto distruttiva, la tubercolosi, da cui viene mangiato poco a poco, e della sua rinuncia alla vita per la paura di soffrire. Già la prima raccolta gozzaniana, La via del rifugio, si proponeva di trovare riparo dai casi della vita, ma col passare degli anni l’autore sente sempre più vicina la fine. Questo lo spinge a reagire praticando la totale atarassia, seguendo un atteggiamento quasi ascetico.

Ad ogni modo, il perno attorno a cui ruotano entrambe le raccolte è il medesimo: se il Tempo ci spinge incessantemente tra le braccia della Morte, a che vale provare qualsiasi tipo di sentimento? Non sarebbe meglio, dunque, evitare tutto ciò che non può essere controllato dalla mente, razionalizzato? Sembra di sentire l’eco di Leopardi: «Or poserai per sempre / stanco mio cor». Eppure, la vita è tentatrice, così come lo sono le illusioni di poter rallentare la corsa umana verso la dipartita. Essa ci propone amori, amicizie, probabili soddisfazioni, nella cui rete l’uomo cade inconsapevole e per cui il nostro cuore batte, nonostante tutto. Da questa contraddizione nascono le più belle poesie della raccolta, come Alle soglie, in cui il cuore del poeta è definito un «monello giocondo che ride pur anco nel pianto», che non vuol proprio tacere perché «tanto felice d’esistere al mondo».

La prospettiva di una vita possibile e vissuta a pieno è al centro del più famoso componimento gozzaniano, La signorina Felicita. La ragazza, dal nome emblematico, non è particolarmente bella né colta, ma rappresenta la tentazione del sentimento. Quasi amata dall’Avvocato, ella è un’anima tanto semplice da scambiare, in un quadro, la corona d’alloro, simbolo di Gloria eterna per il poeta, con una di semplici ciliegie. Soltanto sulla conclusione Gozzano decide di non cedere alla prospettiva dell’esistenza tiepidamente lieta che Felicita incarna. Il rifiuto avviene proprio dopo la visione di una meravigliosa falena, che svolazza con il suo «ronzo lamentoso»: l’Acherontia atropos, che vanta una macchia a forma di teschio sul suo corsaletto e il nome della Parca a cui è demandato il compito di tagliare il filo del destino umano. Di fronte a questo leggiadro memento mori, l’Avvocato si riscuote dall’illusione del sentimento.

Se davvero non si può fare a meno di vivere, allora l’unica via è quella di vivere nel passato, immutabile e quindi innocuo, come il poeta sostiene in Cocotte, il ricordo di una prostituta che gli si avvicinò, bella e profumata, quando era ancora un bambino per fargli una carezza: «Il mio sogno è nutrito d’abbandono, / di rimpianto. Non amo che le rose / che non colsi. Non amo che le cose / che potevano essere e non sono / state…». Ma il vero capolavoro della raccolta è decisamente l’ultima sezione, intitolata il Il reduce, che a mio avviso restituisce un’immagine impietosa e quantomeno attuale dell’uomo.

Vi abita la figura del gelido sofista Totò Merumeni, l’Heautontimorumenos di Terenzio, ovvero il punitore di se stesso, sotto cui si cela, ovviamente, il poeta. Per aggirare dunque l’azione della Morte, la «Signora vestita di nulla e che non ha forma», la quale «protende su tutto le dita, e tutto che tocca trasforma», Gozzano sceglie l’esilio dalla vita e dalle passioni. Questo processo di graduale distacco ha come risultato il forgiare un uomo appunto reduce, che non può più provare alcun tipo di impeto. È questo il sacrificio da scontare per l’uomo dalla «spaventosa chiaroveggenza»: allontanare la morte vuol dire rinunciare alla vita, all’amore, al desiderio, ed abbracciare il sogghigno di chi sa, di chi non si presterà al gioco sadico a cui ci spinge il Tempo. Totò Merumeni, ci dice il poeta, «è il vero figlio del tempo nostro». E dopo aver letto I colloqui, non si può fare a meno di pensare: e se quel tempo non fosse mai passato, e fosse ancora nostro?

Così Totò Merumeni, dopo tristi vicende,
quasi è felice. Alterna l’indagine e la rima.
Chiuso in sé stesso, medita, s’accresce, esplora, intende
la via dello Spirito che non intese prima.

Perché la voce è poca, e l’arte prediletta
immensa, perché il Tempo – mentre ch’io parlo! – va,
Totò opra in disparte, sorride, e meglio aspetta.
E vive. Un giorno è nato. Un giorno morirà.

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