Recensione a: D. Breschi e Z. Ciuffoletti, Sfide a sinistra. Storie di vincenti e perdenti nell’Italia del Novecento, Le Lettere, Firenze 2023, pp. 310, € 19,50.
Per chi si accosta da neofita allo studio della storia politica italiana certo il libro non è di facile lettura. Proprio da questo però si comprendono subito due elementi: il primo è l’urgenza e la necessità di orientarsi in tale storia anche per riuscire a dialogare meglio con il presente che accade; il secondo è lo iato che spesso si dà tra i fatti storici (res gestae) e la narrazione che di questi fatti viene riconsegnata (historia rerum gestarum). Con Sfide a sinistra Breschi e Ciuffoletti colmano il divario che scaturisce dal primo punto e reintegrano la distanza che caratterizza invece il secondo.
Su L’utilità e il danno della storia per la vita, nel distinguere tre diversi modelli di storia, e appunto mostrando di ciascuno il criterio di utilità e di danno, Friedrich Nietzsche critica non l’impianto storicistico bensì il suo eccesso. La storia monumentale e la storia antiquaria si mostrano infatti utili quando nel guardare ai modelli del passato non si impedisce il trofismo storia/vita mentre la storia critica che vuole liberarsi del peso del passato diventa dannosa quando per andare avanti cancella ciò che vi sta dietro, che invece fornisce ancora un dato fondamentale per riuscire a orientarsi nel presente e nel futuro.
Ci sono infatti dinamiche di frattura, di divergenze, che hanno dimostrato la debolezza della sinistra in Italia. Ma ci sono soprattutto espressioni del potere politico che sono universali, quale che sia la forma politica che le esercita; tra queste c’è sicuramente il dispositivo della violenza che Breschi indaga in modo sistematico come modello teorico del socialismo rivoluzionario e dell’anarchia ma che ritorna continuamente come prassi del “biennio rosso” o del “ventennio nero” descritti da Ciuffoletti per indicare non che la violenza sia la modalità ‘tradizionale’ di incidere sulla realtà da parte della sinistra, non il suo sostrato «di tipo sociologico» che negli ultimi decenni dell’Ottocento sostituì alla spiegazione biologica e organica di Cesare Lombroso un’alternativa di origine ‘ambientale’ secondo cui sarebbe «la società, soprattutto il modo in cui essa è strutturata e gestita» ad alimentare «sentimenti di frustrazione e di rivalsa che facilmente finiscono per sfociare nella rivolta o nella rivoluzione politica» (p. 28), bensì esattamente un tratto che in modo dissimulato o diretto, aggressivo o assertivo, intride il potere dell’autorità per motivi diversi tra loro:
- perché le permette di affermarsi, come sottolinea la sfumatura per così dire ‘funzionalistica’ e ‘necessaria’ da cui esso, nella convinzione socialista rivoluzionaria, deve passare;
- perché le permette di mantenersi, come attestano gli interventi dello Stato atti a ristabilire l’ordine pubblico e a bloccare gli altri tentativi insurrezionali;
- perché le permette di essere sostituito, come l’esempio bolscevico della rivoluzione russa fra tutti dimostra.
Ma se la violenza è presente all’inizio, durante e alla fine, allora il binomio violenza-politica si scopre assai più unitario e ‘fisiologico’ che non duale. È lo stesso meccanismo della lotta che in ambito biologico garantisce la sopravvivenza del singolo e della specie ad assicurare in ambito politologico la sopravvivenza del potere e dell’autorità che lo incarna e lo orienta.
Almeno da questo punto di vista allora mi sembra che non ci sia soltanto una sinistra ‘rivoluzionaria’ e uno Stato per contraltare ‘reazionario’. A livello latente le cose stanno diversamente e la dimensione ‘rivoluzionaria’ ed ‘effervescente’ è dello Stato perché è parte del suo gioco. Una dinamica che Giovanni Gentile ha saputo ben sintetizzare quando scrive che
la rivoluzione non è soltanto quella dei giorni d’eccezione, in cui con eccezionale violenza il popolo si leva a distruggere cose e uomini rappresentativi di governi non più tollerabili; anzi è quella di tutti i giorni, pressoché inavvertita e magari inavvertibile: quella goccia che scava la pietra, e del cui effetto ci si può accorgere soltanto a capo d’un certo periodo di tempo: ciò che può indurre a star attenti per vigilare, e provvedere in tempo contro quei processi che giunti a maturazione potranno manifestare il loro carattere esiziale. Certo la storia dello Stato è la storia della sua continua rivoluzione: ossia del processo in cui lo Stato propriamente consiste (G. Gentile, Genesi e struttura della società. Saggio di filosofia pratica, in Id., L’Attualismo, intr. di E. Severino, Bompiani, Milano 2014, pp. 1349-1350).
Pertanto, come è stato osservato da Alberto Giovanni Biuso, «Stato e Rivoluzione sono entrambi espressioni della dinamica metafisica di identità e differenza, in quanto “la società nelle sue infinite forme è tutta qui: nel nesso dialettico dell’alter con l’ipse” (GS, IV, 1286), una dinamica che vale non soltanto per gli individui ma per qualunque corpo collettivo, compresi gli imperi, i quali vanno prima o poi in rovina perché anche in essi “dal seno stesso dell’unità risorge la differenza: tanto più presto, quanto più violenta è stata la compressione esercitata sugli elementi voluti unificare” (GS, X. 1346)» (A.G. Biuso, Giovanni Gentile, in «Vita pensata», n. 22, maggio 2020, p. 74).
Ed è l’emergere sempre più fitto di tale differenza che spiega i complessi episodi del Partito socialista italiano negli anni immediatamente successivi al primo conflitto mondiale e in modo analitico ricostruiti da Ciuffoletti. Anni che la manualistica di storia semplifica considerando i suoi accadimenti separatamente, il malcontento delle classi proletarie culminato nel biennio rosso da una parte e la marcia su Roma che inaugura il ventennio fascista dall’altra, impedendo così di cogliere «il nesso profondo che intercorre fra il “biennio rosso” e le origini del fascismo» (p. 78).
Se infatti quanto si è detto all’inizio di queste considerazioni a proposito della distanza che spesso sussiste tra storia e storiografia è vero e, in qualche modo, inevitabile (è sempre Gentile ad avere scritto che la storia come res gestae è sempre anche Historia rerum gestarum), tanto più questo sembra valere per la storia contemporanea la quale «è stata fortemente influenzata e spesso subordinata alla politica». Come Ciuffoletti opportunamente osserva, «specialmente su questi argomenti, e cioè le vicende del primo dopoguerra, il biennio rosso e le origini del fascismo, c’è stato un vero e proprio accanimento storiografico» (ibidem).
Uno studio condotto con adeguato rigore coglierebbe infatti il fascismo «come il frutto perverso del rivoluzionarismo e del massimalismo “bestialmente” anticombattentistico, ma anche della rottura dell’unità socialista conseguente alla scissione comunista» (p. 98). Gli anni Venti del secolo scorso sono stati anni caldi per il Partito socialista in cui l’atteggiamento verso la rivoluzione tanto vagheggiata si potrebbe definire però quasi ‘attendista’ come era stata anche la campagna giolittiana, ingredienti sufficienti – tanto la disattenzione del partito disgregantesi quanto il mancato intervento dello Stato liberale – a favorire l’avvento del fascismo che, raccogliendo il malcontento dei combattenti e degli agrari, riuscì a presentarsi come un’alternativa quasi preferibile o, almeno all’inizio, l’altra «grande illusione» dopo quella del sogno di compiere in Italia la rivoluzione che aveva segnato il nuovo volto della Russia.
A questo nuovo volto sono stati dedicati studi e riflessioni di intellettuali, filosofi, giuristi che Breschi sintetizza facendo emergere un «vario liberalismo» il quale, benché sia accomunato da un comune respiro critico nei confronti dell’Italia di Giolitti, lascia tuttavia emergere un confronto plurale. È così che, se da una parte troviamo personaggi come Gobetti, «predispo[sto] per una ricezione entusiastica d’ogni evento che potesse configurarsi, o quanto meno percepirsi, come una rottura radicale dell’assetto politico esistente […]. In una parola: come rivoluzione», per cui «risulta evidente come il colpo di mano bolscevico e il tentativo torinese e ordinovista di emularlo nella tarda estate del 1920 assunsero agli occhi di Gobetti i contorni della grande occasione storica di tradurre in termini pratici il proprio afflato idealistico e volontaristico» (p. 166), dall’altra parte troviamo pensatori come Benedetto Croce che, nonostante l’iniziale modello risorgimentale mazziniano sulle cui premesse sosteneva «una netta avversione nei confronti del riformismo e una certa inclinazione benevola per il socialismo rivoluzionario» (p. 162), approdò infine a giudicare ‘irrazionale’ l’anelito italiano alla rivoluzione. Guardò infatti con preoccupazione ai fatti russi di ottobre e, ancor prima, a quelli di Torino dell’agosto. Giudizi i quali attestano come, «negli anni immediatamente successivi, Croce rimproverò sempre molto aspramente al socialismo italiano la scelta filobolscevica, in quanto significava spingere fino alle estreme conseguenze quell’internazionalismo proletario che era lesivo dell’unità nazionale, peraltro in un momento quanto mai critico per la tenuta dello Stato italiano» (p. 164). Sotto questa criticità e divisione, come si legge nel primo dei saggi contenuti nel libro, l’Italia entrò in guerra. A questa stessa criticità e divisione verrà riconsegnata l’Italia all’indomani del conflitto:
Quella che entrò in guerra nel maggio del 1915 era un’Italia già profondamente divisa. I tre anni e mezzo di una logorante guerra di posizione e di trincea ricucirono solo in parte queste profonde lacerazioni politiche e culturali. L’autunno del 1917, tra la disfatta di Caporetto e la rivoluzione bolscevica, aggravò per molti aspetti la situazione, introducendo ulteriori motivi di disaffezione e divisione politico-ideologica, e rese ancora più complicata la gestione di quello che sarebbe stato il dopo guerra (p. 33).
E dunque, «strett[o] nella morsa fatale dell’alternativa secca tra comunismo e fascismo […], la paura del bolscevismo favorì la soluzione autoritaria, che ipotizzata come parziale e temporanea si sarebbe rivelata totale e duratura. In definitiva, tra il 1917 e il 1925 si consumò la fine delle fortune del liberalismo in Italia» (p. 195).
E se è vero che i comunisti avevano anche contribuito alla caduta del regime e dunque alla fine di quel ventennio fascista, è anche vero che la sinistra dei socialisti si presentava alla vigilia della Costituente ancora una volta debole, disgregata – Maurizio Degl’Innocenti parla di «duello per l’egemonia» – divisa da contrasti interni al partito che influirono anche sulla sua successiva partecipazione ai lavori dell’Assemblea costituente della neonata Repubblica italiana. La ricostruzione di Breschi e Ciuffoletti su questo punto giunge alla conclusione secondo cui «il partito mantenne l’unità solo perché all’orizzonte si profilava imminente l’appuntamento decisivo dell’elezione dell’Assemblea costituente e, con essa, la scelta referendaria per la forma istituzionale dello Stato italiano dell’avvenire, monarchico o repubblicano», ma «senza l’appuntamento del 2 giugno, così ravvicinato e così determinante, probabilmente la scissione si sarebbe già consumata in quel XXIV congresso» (p. 215).
Ci sarebbe da domandarsi, allora, quali sarebbero stati gli esiti dell’Italia degli anni Venti del ventesimo secolo con un pizzico di unità in più, e quali, invece, i risultati del secondo dopoguerra, senza quel pizzico di unità forzata e necessaria. Quel che appare indiscutibile è come la storia politica sia molto più complessa e intricata rispetto alla divisione tra destra e sinistra.
La generazione dalla quale mi pongo quale osservatrice mi spinge addirittura a considerare destra e sinistra categorie vuote, superate perché sembrano non possedere un loro criterio di demarcazione tale da consentire una giusta distribuzione dei partiti al loro interno. Molto più efficace, anche perché più semplice, intuitiva e soltanto formale si rivela forse la denotazione di opposizione, che poi è ciò che per esistere ha bisogno di un’autorità al potere alla quale opporsi, di una materia su cui giocare la lotta, di un atteggiamento rispetto a cui esprimere il proprio contrasto. Insomma, una categoria più universale capace di descrivere la vicenda politica nel suo gioco, vale a dire la dinamica del suo mantenersi. Che poi non è altro che il concetto di ‘rivoluzione’ prima riferito a proposito di Gentile, inteso non però alla maniera di Gobetti e criticata da Croce, bensì secondo quel genere sommo che nel Sofista di Platone è la differenza e che però ha anche bisogno dell’identità per non scivolare lungo il piano inclinato della sua dissoluzione.
Forse proprio la mancanza di un’identità stabile, e piuttosto il persistere del contrasto e della mancanza di accordo tra riformisti e massimalisti: ecco ciò che ha impedito alla sinistra di porsi come una vera alternativa al governo. Nelle dinamiche del secolo scorso sembra di ritrovare alcune dinamiche della sinistra attuale. Una storia di perdenti e vincenti nell’Italia del Novecento che è anche una storia di opposizioni esterne e di tensioni interne della sinistra degli anni Venti del XXI secolo e forse più in generale del fatto politico in quanto tale.
Il libro di Breschi e Ciuffoletti aiuta a comprendere non solo la storia politica del secolo scorso ma anche il presente-adesso ristabilendo così l’utilità della storia monumentale e antiquaria, ormai sempre più sbiadite. Sfide a sinistra è allora anche lo sforzo di apprendere il proprio tempo con il pensiero: in ciò, come ha scritto Hegel, consiste l’esercizio mai stanco della filosofia.