Anna Frosini (2006) frequenta il IV anno del Liceo Scientifico Scienze Applicate "E. Majorana" di Capannori.

L’ordine e la connessione delle idee

sono identici all’ordine e

alla connessione delle cose.

Bento de Spinoza, Ethica ordine geometrico demonstrata

 

Recensione a: M. Zambrano, Chiari del bosco, SE, Milano 2016, pp. 155, € 19,00.

Abitare può assumere una connotazione esperienziale, sensibile. Esso ci compenetra, influenzando, oltre che la mente, anche il cuore. Di questo parla Marìa Zambrano in Chiari del bosco (Claros del bosque, libro originariamente uscito nel 1977).

L’opera è una guida, un genere di testo che fa perno sull’interpretazione interiore del lettore, fornendogli a tal scopo figure intrise di fantasia. Non per condividere un sapere ma, piuttosto, per assimilare un’esperienza. Così il lettore si fa coautore, fautore del suo processo di scoperta. Di seguito, una mia riflessione sulla parte VIII di Chiari del bosco, con un occhio di riguardo all’abitare.

Nella sezione del libro in oggetto, è percepibile un ridimensionamento semantico di certe parole, al lettore tuttavia ignoto, che al contempo generalizza e cala nel particolare ciò che è trattato. Lo stile di scrittura immaginativo, sognante, nella sua sensorialità tendente quasi alla narrativa, accompagna il lettore nell’argomentazione. Il testo offre quasi dei personaggi: e le loro proprietà s’intrecciano a definire una trama ricca d’essere, pregna di un significato esistenziale.

La sezione in questione si apre con il fatto che «è difficile che il cuore trovi la sua propria realtà, che senta se stesso in purezza e unità». Ovvero, senza riflettersi in una dimensione esterna di sé e, conseguentemente, in solitudine. La quale, per Zambrano, è «essersi spogliati di qualsiasi proprietà, ovvero l’essersi estinto di questo sentire qualcosa come proprio». A questa dimensione interiore ed isolata, si antepone quella che, invece, ha contatti con l’esterno, con l’altro.

Essa viene definita mediante la parola «colonizzazione» che, a mio avviso, va intesa come isolata dalla sua accezione valoriale e storica. Così, quando Zambrano scrive «la colonizzazione che obbliga a uscirsene continuamente da se stessi, a curarsi dell’altro sapendolo “altro”, o in altro, per farlo proprio», si delinea uno scenario di contaminazione immanente. Di riflessi propri e altrui, di scambio, consapevolezza e, soprattutto, di «cura».

Ma ritorniamo al cuore, che non sostiene e non si sente neanche sostenuto. Il sostegno, infatti, viene descritto come non necessario al cuore, poiché questi sta raccolto in una sorta di rivelazione della sua interiorità. Quindi, si prospettano due casi: la cura raccolta ed estremamente intima del cuore, sorretto da niente; la cura dell’alterità, plurale e riflessa, costruita sulle strutture delle relazioni.

Il fulcro del testo in analisi è – anche – metafisico e gnoseologico: «E il suo essere, qual è?», scrive Zambrano.

L’essere proprio al cuore è l’«essere di un’interiorità», l’unico che l’uomo può percepire da dentro se stesso – in purezza ed unità. E anche il pensiero può raccogliersi, «interrompendo il suo interminabile discorso e identificandosi col cuore». Si delinea in questo modo un’unità, che è viva – «palpita», «respira» – ed è in grado di manifestare il proprio essere «senza nessuna riflessione». Ovvero, tale unità non si riflette in niente, e non percepisce il niente stesso. Tuttavia, tale unità è anche effimera, poiché si perde «a causa dell’attenzione richiesta alla condizione umana e che sempre più minaccia di divorarla» – ovvero, si potrebbe evincere, dal necessitare incombente dell’esterno. Ciononostante, l’unificazione concerne, inoltre, mente e salvezza, effetto di un essere che è «vita vivificante». Ma qual è la dimensione, il dominio in cui si svolge questo raccoglimento, questa «vita vivificante»? Zambrano è chiara nel farci intendere cos’è: il silenzio.

Il silenzio, per come qui viene inteso, “invero non esiste”. È adimensionale, non ci sono qualificazioni, quantità o riferimenti situati, nemmeno un alto o un basso. Esso custodisce la dimora dell’essere, senza svelarne il segreto. In questo silenzio, inoltre, vi è un tempo che “passa in modo impercettibile senza farsi sentire come tempo successivo né come atemporalità che immobilizza, ma come un tempo che si consuma senza lasciare residui, senza produrre passato”. In questa dimensione, la parola non ha spazio, poiché “non è possibile né necessaria, dato che la parola, essa stessa è transitiva, si dà in un tempo che transita e che accelera o che trattiene, senza violenza”. È il campo d’azione del Kairós: la contingenza propizia, il momento giusto eppure volatile, da cui origina ogni identità e fenomeno, inclusa la mente e la coscienza.

A questa dimensione intima e raccolta, si antepone quella in cui, invece, la parola transita. Si tratta di creare, dunque, un luogo proprio e di “riposare in esso senza cessare di muoversi”. Movimento, quello trattato, articolato in moti dell’essere e moti causali. Sono questi ultimi ad essere originati dallo stesso essere, e tutto in essi è qualità. Qualità che si appropria della quantità e che proviene dall’assoluto, prodotto nell’esperienza umana come irriducibile.

Ora, la realtà propria del cuore si colloca solo in pochi momenti fortuiti, come detto inizialmente. Esso altro non è che “una presenza e nulla più”, che quando cessa di essere tale accoglie l’altrui presenza – o assenza. Si evince, dunque, come le due prospettive fino ad ora esposte non siano distanti e contrastanti, bensì conciliabili e comunicanti.

Osservando la questione dell’abitare dal punto di vista di Zambrano, emerge un’ulteriore accezione. È possibile, abitando il mondo, talvolta risiedere e raccoglierci nel particolare di se stessi. E, da una prospettiva del costruire, tale dimensione intima è maggiormente prossima, tra tutte le costruzioni, al luogo di casa. È possibile, quindi, essere prossimi a se stessi sia nel generale che, in casi fortuiti, nel particolare; conciliare l’aver consuetudine dell’immanenza con il continuare ad avere comunque, in essa, un punto fisso.

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