Avvocato e dottore in Scienze storiche. Ha al suo attivo pubblicazioni sul federalismo (Le origini del federalismo: il Covenant, 1996; Il sacro contratto. Studio sulle origini del federalismo nordamericano, 1999). Ha inoltre pubblicato Sovranità. Teologia e sacro alle origini di una categoria politica (2015); Il regime alimentare dei monaci nell'alto medio evo (2017), Paura e Rivoluzione francese nell’opera di Guglielmo Ferrero (2021); Un nuovo romanticismo per il nuovo secolo (2024) . Inoltre ha curato la riedizione del volume di Guglielmo Ferrero Palingenesi di Roma antica (2019). E' autore di articoli e relatore in convegni di studio.
Recensione a
S. Simonetta, Il pensiero di John Fortescue. Costituzione, legge e teoria della proprietà nell’Inghilterra del Quattrocento
Carocci, Roma 2021, pp. 174, €19.00.
Nella classica Constitutional History of England del Maitland (1908) sir John Fortescue (1396-1478) viene definito «the greatest English writer on law of the fifteenth century». Col Fortescue, sfortunato consigliere giuridico e politico della Casa dei Lancaster durante la Guerra delle Due Rose, si sono confrontati alcuni tra i più grandi costituzionalisti e storici delle idee (per limitarsi al Novecento: il Passerin d’Entrèves, il McIlwain e il Kantorowicz.) Considerato un precursore della monarchia costituzionale o “mista”, di Fortescue si trascurano a volte le profonde radici medievali (tomiste e cristiane ma anche specificamente inglesi) del suo pensiero costituzionale. Oggi Stefano Simonetta, docente di Storia della filosofia medievale presso l’Università degli Studi di Milano, dedica al giurista inglese una densa e accurata monografia, incentrata sulla giusta valorizzazione delle fonti medievali del costituzionalismo del Fortescue.
Il saggio si apre con una breve biografia del personaggio (non un teorico puro, ma uomo coinvolto in tutti gli eventi della politica inglese del tempo: ricoprì ruoli politici e giudiziari di massimo rilievo e fu più volte costretto all’esilio al seguito dei Lancaster); analizza quindi le opere principali del Fortescue (de natura legis naturae; le celeberrime de laudibus legum Angliae; The Governance of England, «il più antico trattato sulla costituzione inglese scritto in volgare») e si concentra non soltanto sulle Basi della teoria dei governi (cap. II) e La via costituzionale inglese (cap. III) – i tratti più noti del sistema dottrinario di Fortescue – ma anche sulle tesi del giurista inglese riguardanti i rapporti tra legge positiva e diritto naturale (cap. III) e infine sulla sua teoria della proprietà (cap. IV), aspetto quest’ultimo di solito un po’ trascurato perché non legato direttamente alla costituzione politica. Un pregio del saggio risiede, a nostro avviso, nella giusta attenzione prestata alle dottrine della proprietà (e dell’economia) quali estrinsecazioni tangibili di libertà costituzionali.
Il costituzionalismo del Fortescue si caratterizza per un forte eclettismo di matrici: combinando concetti agostiniani e aristotelico-tomisti, Bibbia, lex naturae e esperienza storica inglese egli perviene a una originale teoria del dominio politicum et regale: non una dottrina compiuta del governo misto ma semmai «un ponte tra la riflessione medievale sulla costituzione mista e la sua ripresa nella prima età moderna» (p. 65). Simonetta rimarca le tensioni irrisolte in Fortescue tra concezioni medievali e intuizioni già moderne e lo si vede bene, per esempio, nei continui rimandi alla metafisica cristiana (il re del dominio politicum et regale è simile al Cristo giudice della Chiesa trionfante, dove vige un meccanismo di condivisione delle decisioni tra Cristo e la comunione dei suoi santi) o alle metafore organicistiche di segno a un tempo gerarchico e democratico (il Re è il capo del corpo politico ma il popolo ne è il cuore, e dal cuore defluisce la linfa che irrora la testa). Più comprensibile per l’uomo contemporaneo è il rapporto tormentato tra due opposte concezioni della potestà legislativa, entrambe presenti in Fortescue: gli statuti del regno (atti di imperio) sono promulgati avendo di mira il bene contingente della comunità secondo quanto stabilito dalla potestà legislativa (che quindi “crea” essa stessa tale bene), oppure questi statuti “scoprono” le leggi di natura, cioè non innovano ma si pongono in continuità col diritto consuetudinario? Un interrogativo più attuale che mai.
Non solo governo condiviso e commixtum politico-regale ma anche, come abbiamo anticipato, attenta considerazione e tutela dei property rights: la tematica giuridica sviluppata dal Fortescue si estende dalla costituzione politica ai diritti di libera proprietà perché quando in un regno i sudditi sono anche proprietari la comunità nella sua interezza trae prosperità e concordia. Il “segreto” della felicità pubblica inglese (una felicità che certamente Fortescue idealizza ma che non per questo risulta priva di una certa fondatezza storica) risiede nel particolare rapporto di reciproca fiducia che si instaura tra sudditi e governo regale-politico in materia fiscale.
Le scelte tributarie – punto nevralgico per il funzionamento e l’esistenza stessa del governo – sono oggetto di condivisione tra il monarca e il “popolo” articolato nei suoi tanti corpi comunitari, in primis il Parlamento ma anche il Privy Council costituito da membri scelti per meriti e competenze, laddove altrove (regno di Francia) le prerogative regie in materia fiscale non incontrano limiti apprezzabili e si trasformano facilmente in arbitrio e angherìe. In Inghilterra il monarca, vincolato da leggi, statuti e consuetudini sedimentatesi nel corso dei secoli e sgorgate dal corpo vivo di tutta la nazione, è costretto (ma se è un “buon Re” lo fa con sincero convincimento) a mantenere la tassazione entro limiti tollerabili e a non imporre nuovi tributi senza il previo consenso dei corpi intermedi. Nel regime politico-regale inglese, scrive Fortescue nel de laudibus legum Angliae, le leggi e consuetudini «non tollerano che il monarca spogli i sudditi dei loro beni senza adeguata soddisfazione». E questa «adeguata soddisfazione», il controvalore del gettito fiscale, consiste proprio nella salvaguardia della prosperità diffusa del Regno nonché nella disposizione d’animo dei sudditi verso il Re: il monarca rispetta i sudditi (le loro libertà e proprietà) e i sudditi rispettano il “buon re” e sono anche disposti, nei casi di emergenza nazionale e purché deliberati nel rispetto delle procedure stabilite, ad accettare nuovi tributi. Una politica fiscale così moderata non getta la Corte in ristrettezze, tutt’altro. Il Re di Francia, che taglieggia sistematicamente i sudditi con tributi iniqui, impoverisce la nazione e alla lunga anche se stesso; il Re inglese, con pochi e onesti tributi, rende prospera la nazione e, a pressione fiscale invariata, accresce il gettito e rimpolpa le casse statali. Gli storici odierni – è noto – non condividono l’ottimismo del Fortescue circa la situazione economico-finanziaria e la diffusione della proprietà nell’Inghilterra tardomedievale mentre la cupa descrizione della Francia da lui proposta pecca, all’opposto, di eccessivo pessimismo. Ma è anche vero che la storiografia conferma la sostanziale differenza della monarchia inglese rispetto agli altri regni europei dell’epoca in materia tributaria (imposizioni più moderate e un discreto livello di garantismo procedurale) e di condivisione delle politiche fiscali tra i vari organi della costituzione consuetudinaria. D’altronde l’obiettivo di Fortescue era la sottolineatura della superiorità intrinseca della common law e della costituzione inglese rispetto al jus civile continentale.
Fortescue, uomo di transizione tra due epoche e quindi uomo anche del medioevo, non può fermarsi al fondamento storico-giuridico dei property rights; egli ne ricerca la genesi metafisica, nella legge di natura e nel diritto divino rivelato. Le pagine che Simonetta dedica alla ricostruzione del pensiero di Fortescue su queste tematiche si offrono al lettore molto ben informate e articolate. Simonetta esplora le fonti teologiche e filosofiche delle dottrine di proprietà del Fortescue e colloca tali dottrine nel loro esatto momentum di storia del pensiero («una sorta di trait d’union fra il de potestate regia et papali di Jean Quidort [1302] e il Secondo trattato sul governo di J. Locke», p. 150). Ma in realtà l’affascinante ricerca dei fondamenti del diritto di proprietà non ha epoca perché appartiene a tutte le epoche e ogni nuova generazione di pensatori non se ne è mai sotratta. La tradizione agostiniana aveva collegato la nascita del “mio” e del “tuo” al primo uomo scacciato dall’Eden, cioè a una condizione di peccato e corruzione e a una legge di natura già degradata. Ma il modello divino originario vigente nell’Eden contemplava il possesso comune di tutto il creato. La proprietà post-lapsarian (come il potere dell’uomo sull’uomo) attiene dunque a una condizione di peccato, un rimedio a mali peggiori ma, di per sé, distante dall’originaria legge naturale e frutto di una convenzione umana. Ora, già la tradizione tomista aveva sensibilmente riavvicinato la proprietà privata alla giustizia naturale (cioè ai bisogni naturali di una umanità decaduta). Ponendosi nel solco dell’Aquinate Fortescue amplia e specifica la tesi secondo cui la proprietà privata in astratto esisteva già prima della Caduta ma non risultava necessaria; il peccato introdusse una degradazione antropologica che rese l’uomo post-lapsarian consapevole del “mio” e del “tuo” e che lo costrinse a istituire quei «contratti [di proprietà] tramite cui regolare qualcosa, la proprietà privata che in astratto esisteva già ma che solo in quel frangente [la Caduta] è stata concessa agli uomini» (p. 149). Oggi i profani privi di senso storico potrebbero sorridere di queste “ingenuità”, ma va ricordato (e Simonetta, da scrupoloso storico del pensiero, lo fa bene) che accostare la concezione astratta della proprietà all’originario progetto divino significava scollegarla dalla dimensione degradata del peccato e dalle mere convenzioni umane e quindi renderla “divina”, cioè inattaccabile (quanto meno in linea teorica) dai soprusi del potere tirannico e dalle persecuzioni fiscali. Significava in altri termini rafforzare un fondamentale diritto di libertà dei sudditi.
Una lezione da riproporre, coi dovuti adattamenti, all’uomo dell’oggi.