Gabriele Bini è laureato in Scienze dell'Informazione all’Università di Pisa. Ha lavorato presso aziende di consulenza informatica italiane e alle sedi ESTEC e ESAC dell’Agenzia Spaziale Europea. Pubblica scritti e riflessioni di carattere sociologico, politologico e storico sul blog “Parole (meno) sante”.

Recensione a
C. Volpato, Le radici psicologiche della diseguaglianza
Laterza, Roma-Bari 2019, pp. XIII-249, € 18,00.

Quando si parla di diseguaglianza si pensa subito a una problematica di ambito politico, sociale o economico. Ciò è corretto ma vi è un aspetto ancor più profondo che, in realtà, dovrebbe costituire la premessa su cui basare le analisi politiche, o di altro genere, sulla diseguaglianza: esso è la psicologia dell’individuo che, con vari meccanismi, giustifica e tollera le sperequazioni economiche e non solo.

L’approfondimento sistematico di questi meccanismi è l’argomento di Le radici psicologiche della diseguaglianza di Chiara Volpato. La diseguaglianza economica misurata col coefficiente di Gini, sia in Italia, sia nelle democrazie occidentali ma anche in tutto il mondo, è da decenni in costante crescita. La pandemia ha addirittura accentuato questa tendenza. Secondo un rapporto Oxfam del 2017, nel 2016 appena 8 persone possedevano la stessa ricchezza di 3,6 miliardi di esseri umani: notizie come questa ci arrivano periodicamente dai media e dovremmo indignarci per questa evidente ingiustizia (anche considerando che quasi un miliardo di queste persone soffre la fame) ma ciò non accade o si tratta solo di una sensazione labile e subito dimenticata: il motivo è puramente psicologico.

La diseguaglianza è tollerata, talvolta ritenuta persino giusta, dalla maggioranza delle popolazioni delle democrazie occidentali per ragioni psicologiche che, in realtà, sono poi le precondizioni delle giustificazioni politiche ed economiche. L’Autrice elenca e approfondisce quali siano i numerosi fattori psicologici che rendono possibile l’esistenza di enormi diseguaglianze: lo fa con uno stile divulgativo estremamente scientifico. Raramente esprime direttamente le proprie valutazioni ma, di solito, lascia che siano le ricerche psicosociali che riporta che parlino al suo posto con i loro risultati.

Molti capitoli sono formati da una catena di ricerche, spesso molto recenti, che generalmente occupano da mezza pagina a un paio di pagine: i risultati presentati sono sempre interessanti e talvolta sorprendenti o, addirittura, inquietanti. Ovviamente questa scelta divulgativa ha dei pro e dei contro. Alcuni lettori probabilmente preferirebbero essere maggiormente “guidati” dall’autrice nella comprensione del tutto; contemporaneamente c’è l’indubbio vantaggio di lasciare al lettore la libertà di interpretare i dati scientifici senza “spingerlo” in una specifica direzione. Personalmente apprezzo questo tipo di onestà intellettuale.

La mole delle informazioni contenuta in questo saggio è enorme: è difficile sintetizzarla senza perdersi in dettagli, magari anche interessanti, che potrebbero però nascondere le dinamiche più generali. Le verità sono molte ma la fondamentale è che la diseguaglianza, per essere accettata dalla popolazione, deve venire giustificata e legittimata. I meccanismi con cui ciò accade sono molteplici: le ideologie politiche ed economiche, le percezioni errate di sé e degli altri, gli stereotipi del ricco “cattivo” e del povero “buono”, il denaro stesso che distorce la percezioni, la mobilità sociale ascendente percepita, la giustificazione “meritocratica”, la colpevolizzazione delle vittime (cioè dei poveri), la mancanza di un confronto diretto (tramite frequentazione) con i ricchissimi, la guerra fra poveri, la “tassa sulla mente” dei poveri, la “generosità” dei ricchi e la gratitudine dei poveri o semplicemente il tempo e le tradizioni. Tutti fattori che insieme, spesso sovrapponendosi e influenzandosi l’un l’altro, convincono il ricco di meritare i propri privilegi e il povero di essere egli stesso la causa della propria miseria.

Un intero capitolo è dedicato a spiegare ciò che dovrebbe essere ovvio: la diseguaglianza è nefasta sia per i singoli individui svantaggiati che per la società nel suo complesso. La diseguaglianza economica non è mai sola ma si accompagna anche con diseguaglianze di salute fisica, benessere psicologico e istruzione dato che, almeno nel mondo occidentale, queste si comprano col denaro.

Inoltre le società caratterizzate da un’elevata diseguaglianza sono più violente, conflittuali, vi predomina ansia e angoscia per il futuro e vi prospera il razzismo, il sessismo e l’omofobia. Un passaggio che ho trovato molto attuale, vista la recente tornata elettorale, è il seguente:

I paesi con maggiori diseguaglianze sono anche caratterizzati da maggiore instabilità socio-politica, istituzioni meno efficienti, corruzione diffusa. Il motivo risiede nel fatto che in tali società le classi sociali favorite, che hanno il potere di influenzare le istituzioni e interesse a mantenerle deboli, si attivano per impedire eventuali tentativi di redistribuzione delle ricchezze. In tali situazioni, gli svantaggiati perdono la speranza di poter cambiare la situazione e diventano quindi poco inclini a impegnarsi nella vita civile e politica. Anche nelle democrazie più avanzate, maggiore è la diseguaglianza di reddito, minore è la partecipazione alla vita politica del cittadino medio, ma non dei più ricchi; cresce quindi il pericolo che la democrazia conosca una deriva plutocratica (Buttrick & Oishi, 2017).

La percentuale dei votanti a Roma, decisamente più alta nei quartieri ricchi rispetto a quelli periferici, sembra confermare empiricamente la precedente ricerca.

In un altro capitolo, incentrato sulla psicologia dei gruppi sociali più ricchi, si evidenzia come paradossalmente proprio questi abbiano ancora una coscienza ben definita di sé e dei propri interessi: questo permette loro di organizzarsi e collaborare attivamente per raggiungere specifici obiettivi, in genere proteggere o incrementare i propri privilegi. Ma il capitolo più inquietante è il quarto, dedicato, all’analisi dei meccanismi mentali caratteristici degli sfruttati. Ho definito questo capitolo come “inquietante” non a caso: mentre infatti è facile comprendere i modi in cui i privilegiati si auto-ingannino illudendosi di essere dalla parte del giusto, quello che succede nella mente degli sfruttati è qualcosa di quasi autolesionistico e di completamente contro-intuitivo.

In particolare mi ha colpito il meccanismo di “servitù volontaria” citato nel pensiero filosofico di Étienne de La Boétie (XVI secolo) dove non solo lo svantaggiato accetta la propria condizione ma addirittura si attiva per difenderla se questa viene minacciata. Questa visione può sembrare eccessiva ma in realtà nasconde delle profonde verità confermate da numerose ricerche.

Alla base di questo apparente paradosso vi è l’acquiescenza dell’uomo al male:

Le riflessioni di La Boétle […] appartengono al paradigma dei demoni mediocri, delineato nel 2013 da Simona Forti, che dipinge la partecipazione dell’uomo comune al male, dovuta all’aspirazione alla normalità e al desiderio di non complicarsi la vita, partecipazione che si concretizza con l’astensione, il silenzio, il lasciar fare, e che costituisce il cemento di ogni rapporto di subordinazione.

Altro aspetto inquietante è quello con cui le persone interiorizzano lo stesso stereotipo di cui sono vittime e di come questo finisca per condizionarle come se fosse corretto. Infatti:

Nel 2001, per esempio, Nalini Ambady e colleghi hanno dimostrato che persino le bambine in età prescolare ottengono risultati peggiori in semplici prove di calcolo se prima si pone l’accento sul loro genere. In una ricerca, in particolare, bambine di origine asiatica riuscivano meglio della media se si rendeva saliente la loro origine etnica, ma si trovavano invece in difficoltà se si sottolineava la loro appartenenza di genere, effetto che mostra peso e conseguenze sia degli stereotipi positivi sia di quelli negativi.

Ma tutto il capitolo è ricco di dati sconcertanti di cui forse il più insidioso (in quanto sembrerebbe dare ragioni alla giustificazione meritocratica della diseguaglianza) è che la quantità di denaro disponibile altera direttamente il QI: e questo accade anche per variazioni temporanee. Scrive la Volpato:

Gli autori hanno effettuato uno studio analogo in alcuni distretti rurali dell’India, in cui i contadini ricevono la paga in un’unica soluzione una o due volte l’anno, subito dopo il raccolto, e sperimentano quindi periodi di relativa disponibilità di denaro e periodi di vera e propria penuria. […] hanno scoperto che i contadini rispondevano molto peggio nelle fasi di penuria: nel periodo successivo al pagamento le risposte corrette […] aumentavano di circa il 25%, percentuale che corrisponde a una differenza di 9 o 10 punti nel quoziente di intelligenza; […] I ricercatori commentano i dati parlando di una “tassa sulla mente” provocata dalla povertà.

Trasversalmente ai vari capitoli non mancano poi dei tentativi di inquadrare all’interno dei processi mentali legati alle dinamiche della diseguaglianza sia il fenomeno della ostilità all’immigrazione dai paesi poveri a quelli ricchi che quello del populismo.

Il saggio si conclude con un capitolo dove ci si chiede se e come sia possibile invertire l’attuale tendenza alla crescita della diseguaglianza economica. La risposta dell’autrice è molto articolata: ovviamente occorrerebbe un mutamento nelle scelte politiche/economiche, maggiore istruzione per tutti e una riconsiderazione del principio meritocratico ma, soprattutto, una reale consapevolezza delle diseguaglianze e del loro impatto negativo sugli individui e la società. Senza questa consapevolezza è difficile che si realizzano le altre condizioni.

Personalmente trovo che questo libro sia la fondamentale premessa per analizzare e capire le diseguaglianze economiche e non solo: partire dalla natura dell’uomo, e in particolare dai suoi limiti psicologici, permette di riconoscere, anticipare ed evitare delle problematiche che altrimenti potrebbero sfuggire e falsare risultati basati su un ideale di essere umano molto migliore di quanto effettivamente non sia.

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