Recensione a: G. Savoca, Sogni fatti in Sicilia. Pirandello, Brancati, Sciascia, Olschki, Firenze 2022, pp. VII-204, € 25,00.
In Leonardo Sciascia, in Luigi Pirandello, in Vitaliano Brancati «è presente in maniera costante una fenomenologia delle tematiche oniriche» che nel primo si declina ed esprime non soltanto nell’opera creativa, narrativa, drammaturgica «ma anche nella produzione saggistica» (p. 69).
Giuseppe Savoca, con una scrittura sempre limpida e una capacità ermeneutica tra le più empatiche che si possono incontrare nella critica letteraria contemporanea, percorre un sicuro e ricco itinerario lungo le opere dei tre scrittori, dentro i loro «sogni fatti in Sicilia», nel profondo dell’ironia e della tragedia che segna sempre le cose dell’Isola, la sua storia, i suoi fatti, le idee, l’interiorità, il collettivo.
Il sogno, come tutto il resto, come la veglia, come la storia, è una «dimensione tragica (e funebre)» che si coglie in particolare «nell’opera sciasciana» (p. 81), alla cui tematica non soltanto onirica ma universale, esistenziale, politica, sono dedicati nove dei quattordici capitoli che compongono il libro. Come sempre in Sciascia, gli itinerari narrativi si coniugano alle concezioni filosofiche, le istanze politiche si fondano su una antropologia che si fa ed è universale. Affiorano dunque i nomi di Pascal, di Giuseppe Rensi e soprattutto di Spinoza, filosofo la cui concezione di un corpomente unitario emerge anche in una ipotesi relativa a Michele, il padre del protagonista di Paolo il caldo di Brancati. Prima di uccidersi, infatti, Michele «sembra rendersi conto che all’uomo, nel concreto dell’esistenza, non è dato altro strumento del pensiero all’infuori del corpo» (p. 57).
Corpomente che sta al centro di tante indagini politiche e storiche di Sciascia: sta nello strazio subito dalle vittime dell’Inquisizione come nel Moro rinchiuso in una stanza/prigione; sta nel corpo-albero dell’Antimonio come nella scomparsa del corpo di Majorana, e così via così via nelle tragedie giudiziarie e nei gialli metafisici dei quali Sciascia è stato maestro. Su tutto si stende un «essere per la morte» (p. 146) che si esprime in immagini oniriche, in figure della storia dell’arte (Dürer su tutti), in utopie politiche e in disincanti ideologici come quelli del Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia.
L’Isola non soltanto come metafora ma anche come un’infanzia dentro cui «risiede il paradiso perduto» (163) del quale ogni rigorosa e implacabile ricostruzione storica di Sciascia vorrebbe ricreare le condizioni, in modo che la vicenda umana possa diventare anche un percorso di emancipazione e di luce e non soltanto la vittoria ogni volta diversa e ogni volta uguale della sottomissione, del fanatismo, del dogma, della «credulità che accomuna il volgo ai dotti in situazioni storiche normali e più ancora in tempi difficili» (135).
Un dispositivo manzoniano, quello della complicità che unisce le folle e i dotti contro le vite dei liberi, sempre riconosciuto e rivendicato dallo scrittore di Racalmuto e di Parigi il quale, al modo dei Francofortesi, è ben consapevole della natura ideologica, strumentale e in alcune circostanze mortale di ciò che pretende di essere ‘scienza’ e invece non è altro che una maschera della religione. Sciascia «in realtà ha un’idea orrenda della scienza che, nella fase storica tra nazifascismo e seconda guerra mondiale, ha celebrato il suo successo mortuario nell’ecatombe causata in Giappone dalla bomba atomica» (p. 115).
Di questa esigenza di autentica razionalità, misura e rispetto dell’enigma del mondo, è ancora una volta momento, emblema e sineddoche Spinoza, filosofo che Savoca ha il merito di indicare con chiarezza come il più rilevante nelle scaturigini del pensiero di Sciascia e dunque nella sua narrativa: «il pensatore olandese è da sempre per lui il filosofo più suggestivo e più importante» (p. 157), il filosofo che ritorna in un sonetto di Borges e al quale Sciascia affida «la domanda radicale sulla verità e sulla paura di scoprirla, e che non è quella relativa ai delitti del romanzo, ma l’altra indicibile della verità della e nella morte» (p. 181).
Come si vede, rimanendo sempre nel territorio, nei metodi e nelle intenzioni dell’ermeneutica letteraria, un grande critico, quale Savoca è, conduce i suoi autori e il suo lettore in spazi più ampi e universali, quelli che pongono le questioni fondamentali dell’esserci nel modo così bello, lieve e drammatico del quale la letteratura è capace ma che è anche un modo che si può ben definire ed è metafisico.