Avvocato e dottore in Scienze storiche. Ha al suo attivo pubblicazioni sul federalismo ("Le origini del federalismo: il Covenant”, 1996; "Il sacro contratto. Studio sulle origini del federalismo nordamericano", 1999). Ha inoltre pubblicato "Sovranità. Teologia e sacro alle origini di una categoria politica" (2015); "Il regime alimentare dei monaci nell'alto medio evo” (2017), “Paura e Rivoluzione francese nell’opera di Guglielmo Ferrero” (2021). Inoltre ha curato la riedizione del volume di Guglielmo Ferrero "Palingenesi di Roma antica” (2019). E' autore di articoli e relatore in convegni di studio.
Recensione a: E. Amodio – E.M. Catalano, La sconfitta della ragione. Leonardo Sciascia e la giustizia penale, Sellerio editore, Palermo 2022, pp. 220, € 20,00.
Il saggio di Ennio Amodio e Elena Catalano (due noti processualisti nonché avvocati penalisti) ci riconduce a Leonardo Sciascia, ai suoi racconti e personaggi e alle sue ancora attualissime battaglie per un giusto processo. L’angolazione degli Autori è processualistica: la letteratura sciasciana, frutto anche dell’assidua frequentazione da parte dello scrittore di innumerevoli archivi giudiziari, diventa banco di prova del funzionamento della macchina processuale, dalla fase investigativa sino alla sentenza, con analisi psicologica e professionale di tutti i protagonisti coinvolti.
Il saggio investe molti profili delle problematiche sollevate da Sciascia nella sua opera letteraria: si spazia dall’imprinting cultural-letterario del grande scrittore siciliano (dai philosophes a Pirandello, passando per Manzoni) alla sua azione politica e culturale contro le ricorrenti pulsioni forcaiole dell’opinione pubblica, dalla sottilissima psicologia della Sicilia profonda e del fenomeno mafioso alla incessante polemica sui professionisti dell’antimafia, sino alle più note battaglie per il garantismo (ma a Sciascia questo termine non piaceva) in margine al “caso Tortora” e alla legislazione d’emergenza.
Un panorama amplissimo. Qui possiamo limitarci alla questione processuale e in particolare a due figure cruciali del processo: il magistrato e l’avvocato difensore, vagliati col filtro dei racconti di Sciascia. L’astratto formalismo e universalismo della legge, di derivazione illuministica, conduce a una concezione del diritto generale e limpida come un teorema matematico. In questo contesto le particolarità contingenti vengono costrette (sussunte) nello schema di previsione generale della norma e il giudice svolge la funzione di “bocca della legge” (Bouche de la Loi); egli è il ripetitore e l’applicatore del diritto (inteso quale norma positiva) al caso concreto. E, se presta voce alla legge, diventa facile accostare le decisioni giudiziarie all’infallibilità del legislatore oppure alla rivelazione del vero e del definitivo, secondo l’antica forma dell’“oracolo del Signore”. Si intersecano nella figura del giudice bouche de la loi tanto l’assioma settecentesco della razionalità della legge quanto il misticismo giudiziario dell’infallibilità: due malattie interne alla civiltà giuridica occidentale, corrosive come un male che scava dal di dentro e che Sciascia ha ben presenti. La sua battaglia per una giustizia giusta, cioè sana, nasce dalla consapevolezza delle malattie (o distorsioni ideologiche) che l’hanno sempre attanagliata.
Sciascia è sì un illuminista, ma un illuminista dimezzato. Possiede cioè gli anticorpi che lo preservano dal culto idolatrico della Raison. E se è senz’altro affascinato dai suoi philosophes, che ammirava e imitava nella pregevolezza e limpidezza del suo stile letterario (Voltaire fu sempre un suo nume tutelare), egli pure se ne discosta in un punto fondamentale: non concede crediti in bianco a una preconcetta (e in definitiva irrazionale) razionalità della legge, di una legge cioè che – in quanto razionalmente completa e autonoma – non abbisognerebbe di interpreti ma soltanto di applicatori o al limite di esegeti. Il giudice dell’illuminismo dà voce alla norma scritta senza preoccuparsi di altro, dove per “altro” si intende il proprium della realtà, del caso concreto, degli esseri umani in carne e ossa coinvolti nei meccanismi del processo e nel faticoso, contorto e parziale reperimento delle prove. Sciascia, figlio dei Lumi settecenteschi in contrapposizione all’inquisizione barocca, è però attento osservatore dal basso della macchina della giustizia e del processo; la sua onestà intellettuale lo porta a cedere al pessimismo della ragione pratica, egli sa che gli strumenti conoscitivi tanto del legislatore quanto e ancor più dei giudici sono imperfetti, subiscono deviazioni e condizionamenti. Una delle principali cause dei sempre possibili errori giudiziari risiede nella «intrinseca fragilità» degli impianti accusatori (p. 85) e nella ignoranza della «scienza del cuore umano». Il possesso di questa scienza che non si apprende sui libri (e tantomeno sui codici) comporta la capacità del giudice di non fermarsi al dato normativo fine a se stesso, di ripeterlo cioè meccanicamente, bensì di entrare in relazione empatica con la vittima, con l’imputato, con i testimoni, con tutte le persone a vario titolo coinvolte nel processo. Se conosce il cuore umano il giudice non annichilisce se stesso a strumento servile dell’onnipotenza della legge (e cioè del legislatore che quella legge fabbrica dal nulla) ma si fa uomo come gli altri, tenuto a confrontarsi con i sodi, tangibili casi giudiziari che gonfiano i fascicoli e le carte processuali. Il giudice ideale sciasciano non ha nulla di eroico: è piccolo, come il piccolo giudice dello splendido racconto Porte aperte, piccolo perché rispettoso dei fatti e delle persone. E in questa piccolezza, che si materia di solido buon senso, egli ha un atteggiamento empirico-pragmatico che lo tiene a distanza di sicurezza dalla diafana e ideologica bouche de la loi; ma al tempo stesso egli è troppo laico (cioè refrattario a intrupparsi con i chierici della toga) per gonfiarsi in superbo oracolo del Signore. Il misticismo giudiziario dei chierici togati, corporazione professionale autoreferenziale e avulsa dal resto della società, gli ripugna.
Al piccolo giudice di Porte aperte Sciascia contrappone (ne Il Contesto) la terribile figura del giudice Riches, gran sacerdote e cerimoniere del rito giudiziario, le cui sentenze assurgono, secondo una logica malata ma diffusissima in certi ambienti giudiziari dell’epoca, a rivelazione indiscutibile e infallibile di verità: Riches esemplifica la «virtù oracolare» di quei magistrati che si credono investiti di una sapienza superiore, magistrati ieratici e arcigni delle corti inquisitoriali dell’antico regime (tornano in mente i romanzi storici sciasciani Il Consiglio d’Egitto, Morte dell’inquisitore etc), ma anche magistrati del Novecento colti da deliri di onnipotenza o da fanatica e mal riposta abnegazione in favore di una astrazione chiamata “Legge”. Tutti costoro, come gli antichi oracoli, vorrebbero sottrarre le loro decisioni (quasi fossero atti sacrali) a verifiche razionali e fattuali (Riches non vede con favore il diritto di appello). Siamo qui a un culmine in cui l’irrazionalità del misticismo giudiziario interseca l’irrazionalità ideologica del giudice-bocca delle legge.
Nei racconti sciasciani di processi giudiziari gli avvocati difensori compaiono in posizione defilata e vengono trattati dallo scrittore con un misto di diffidenza e sufficienza. Amodio e Catalano sottolineano con forza che il diritto processuale penale vigente ai tempi di Sciascia disegnava un rito a struttura inquisitoriale e non accusatoria cosicché l’asimmetria tra la magistratura inquirente e la difesa processuale risaltava più di oggi. Il baricentro del processo gravitava sulla pubblica accusa e l’avvocato, escluso dalla fase istruttoria, giocava di rimessa: comprimario, non co-protagonista. In quel rito processuale il momento più “alto” riservato alla difesa era l’arringa, dove l’eloquenza forense sfruttava l’occasione di dispiegarsi compiutamente. Ma proprio su questo punto la critica sciasciana si fa severissima.
Lo stile forense, enfatico, sovrabbondante e inutilmente ricolmo di citazioni e reminiscenze classiche, al dunque si rivelava inefficace. Dispersiva nella forma, incoerente nei contenuti, spesso l’arringa non conduceva a nulla e però nell’immediato impressionava e affascinava l’uditorio profano e garantiva all’avvocato, l’atleta della parola, notorietà e prestigio. Nel racconto 1912+1 risalta la figura dell’avvocato Orazio Raimondo, personaggio storico di cui Sciascia aveva letto la raccolta stampata delle arringhe pronunziate nel corso di una lunga carriera forense. L’oratoria dell’avvocato Raimondo, «vibrante e abbondante» (p. 96), torrente d’alata retorica, unita a una studiata modulazione della voce e gestualità da melodramma, è quanto di più distante possa esistere in letteratura dalla secca, traslucida, essenziale prosa di Sciascia: stile asiano contro stile attico. Non stupisce che il nostro scrittore critichi a fondo la struttura retorica della letteratura forense, e tuttavia proprio in 1912+1 l’arringa va a segno: l’avvocato Raimondo, forte della sua sola eloquenza, riesce a ottenere l’assoluzione dell’imputata. L’arringa emotiva, melliflua, melodrammatica che avrebbe destato il sospetto se non l’ostilità di ogni mente improntata a forte razionalità fa invece breccia sulla giuria popolare e sulle persone comuni che assistono in aula (e a dire il vero, suscita una certa commozione persino tra i giudici togati).
Tutto il contrario di quanto avviene in un’altra opera, La Corda pazza. Qui l’arringa dell’avvocato Tenerelli Contessa è improntata a sobrietà, concisione, tensione etica e civile. Una arringa capace di «focalizzare il solo concetto limpidamente pertinente della vicenda» (si tratta del processo intentato ai patrioti liberali dopo i fatti di Bronte del 1860) e che però fallisce nell’intento. Due modelli di eloquenza forense: l’uno, quello maggioritario dell’avvocato Raimondo, vince nonostante gravissimi difetti «di efficacia logico-dimostrativa degli argomenti» (p. 96); l’altro dell’avvocato Tenerelli, minoritario, costruito con lucida consequenziarietà logico-argomentativa, non salva gli imputati. Si conferma qui, anche dall’angolo visuale della difesa, il sostanziale pessimismo di Sciascia riguardo l’accertamento della “verità processuale” (problema al quale gli Autori dedicano tutta la interessantissima parte quinta del saggio, Nel labirinto della prova).
Altrove emergono avvocati equivoci, intrallazzatori o collusi con la mafia (si pensi all’avvocato Rosello in A ciascuno il suo); però Sciascia sa stupirci perché egli avverte la centralità non solo tecnico-processuale ma anche di garanzia delle libertà costituzionali dell’avvocato, il professionista della difesa. E infatti del personaggio più famoso, idealizzato e colmo di valori civici di tutta la letteratura sciasciana, il celebre capitano Bellodi de Il giorno della civetta (quasi un autoritratto intellettuale di Sciascia medesimo), è detto che, terminata l’esperienza nell’Arma col bruciante fallimento dell’inchiesta sulla mafia a causa di ingerenze politiche, egli pensava di consacrarsi all’avvocatura.
È lecito gettare un po’ di luce nel pessimismo sciasciano ed è bello immaginare Bellodi lanciato in nuove battaglie a difesa dei tanti piccoli e inermi oppressi dai potenti o stritolati dalla macchina processuale. Non più da capitano dei carabinieri ma da avvocato.