Sandro Borzoni (1973) collabora da diversi anni con l'editoriale "IF Press" ed è membro del comitato scientifico della rivista interdisciplinare «Información Filosófica». Ha studiato filosofia antica con Giovanni Reale e Roberto Radice all'Università Cattolica di Milano e all'Universidad de Deusto di Bilbao con Carlos Beorlegui e Andrés Ortís Osés. Nel 2009 ha conseguito il dottorato di ricerca europeo all'Universidad de Salamanca con una tesi su Miguel de Unamuno sotto la guida del prof. Jean-Claude Rabaté. Dal 2000 insegna filosofia e storia nei licei. Attualmente è docente presso il Liceo Classico e Linguistico "Carlo Alberto" di Novara.

Recensione a: M. de Unamuno, La zia Tula, trad. it. S. Papini, Cencellada, Roma 2024, pp. 166, € 19,00.

Quest’anno ricorre il centenario della nascita di Flaviarosa Rossini. A lei dobbiamo la prima edizione italiana dei romanzi di Miguel de Unamuno, uscita nel 1964. Oggi, a sessant’anni esatti da quella prima traduzione, l’editore Cencellada di Roma, che aveva già riproposto ai nostri lettori Abel Sánchez, ripropone nella versione di Sara Papini quel racconto quasi gotico che è La Zia Tula. Una zia, una matrigna, oppure una madre?

L’ombra di questa donna si staglia su tutti gli altri personaggi della vicenda. Alla ricerca di una purezza senza macchia, ossessionata da un senso religioso più vicino ai rigori del calvinismo o del pietismo del Seicento che alla morale cattolica della Spagna del secolo scorso, la zia Gertrudis, Tula per la sorella Rosa ed i nipoti, ha costruito il proprio mondo all’interno della casa della sorella, nella quale si occupa dell’educazione dei nipoti e di nient’altro. Nella casa di Tula non può entrare nessun estraneo, qualsiasi altra forma di amore che non sia quella per i nipoti, che lei considera alla stregua dei suoi stessi figli, è bandita da quel sacro recinto familiare. Persino Ramiro, il marito della sorella, è quasi un estraneo all’interno di quella casa, nella quale non esiste che lei, Gertrudis, sempre attorniata dai nipoti, dei quali si serviva come di uno scudo per evitare di conoscere – e farsi conoscere – da altri. Anche il medico di famiglia, Don Juan, che era rimasto vedovo, viene allontanato dalla casa per evitare che possa farsi avanti come suo pretendente.

Alla morte della sorella Rosa per parto, che lasciava vedovo Ramiro con i suoi tre figli, Gertrudis accettò di buon grado di continuare ad occuparsi di loro come una madre, d’altronde si era sempre presa a cuore l’educazione dei nipoti, che aveva vestito e nutrito, e con i quali trascorreva lunghe ore giocando. La sua continua presenza in quella casa sconcertava il cognato, che ad un certo punto pensò di doversi fare avanti, ma le attenzioni di Ramiro non ebbero esito, Tula si chiuse sempre più in se stessa, come se il matrimonio o l’amore fossero in grado di macchiare quell’ideale di purezza e castità che ossessionava ogni suo gesto.

Il romanzo fu scritto da Miguel de Unamuno nel 1907, ma venne pubblicato solo quindici anni più tardi, ed ebbe un notevole successo. Ancora oggi viene letto nelle scuole, ed è al centro di numerose analisi psicologiche. Tula è una donna complessa. A suo modo una ribelle, che incoraggia gli altri a compiere delle scelte che lei stessa, però, evita di fare: il matrimonio e la procreazione dei figli.

La complessità di Tula risalta ancora di più se ripensiamo alla famiglia di Don Miguel de Unamuno, alla moglie Concha, ai suoi otto figli, a quei ritratti fotografici in cui compaiono tutti con gli occhi un po’ sgranati, vestiti di nero, senza sorridere. Negli occhi di Tula, come in quei volti pallidi e grigi delle foto della famiglia di Unamuno che dominano le pareti dell’Archivio di Salamanca, si nasconde un mondo in cui nessun uomo e nessuna donna potrà mai entrare:

Perché io, io stessa, come ti sembro, Carita, triste o allegra?

Voi, zia…

Cos’è questa storia del voi e della zia?

Va bene, tu, mamma, tu… be’, non so se sei triste o allegra, a me però sembri allegra…

Ti sembro così? Non parliamone più allora!

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