Manlio Antonio Forni (1998) si è laureato in Filosofia e in Scienze filosofiche all’Università degli Studi di Milano, specializzandosi come studioso della prima età moderna. Ha conseguito un master in discipline psico-pedagogiche e collabora attivamente con numerose riviste filosofiche del panorama accademico in qualità di autore e redattore. Il suo ambito di ricerca concerne la storia del pensiero moderno (con particolare riguardo alla figura di Blaise Pascal), la fenomenologia dell’esistenza e la tanatologia.
Recensione a : W. Eilenberger, Il tempo degli stregoni. 1919-1929. Le vite sraordinarie di quattro filosofi e l’ultima rivoluzione del pensiero, Milano, Feltrinelli 2022, pp. 417, € 25,00.
1919-1929: un decennio di storia, un’Europa immersa nel fermento culturale e nondimeno in preda a rivolgimenti socio-politici che segneranno irreversibilmente la contemporaneità tra la fine del primo conflitto mondiale, l’instaurazione della Repubblica di Weimar e l’esiziale crisi economica del 1929. Quattro vite intrecciate, accavallate, estremamente differenti ma fra loro insospettabilmente vicine, non fosse altro che per il comune ruolo di protagonisti (consapevoli e inconsapevoli insieme) della storia della filosofia del secolo breve. Cassirer, Heidegger, Wittgenstein e Benjamin: quattro nomi, quattro diverse strade del pensiero a partire da un unico e secolare interrogativo filosofico: che cos’è l’uomo? E cosa la storia sembra dire di lui? La risposta di ciascuno dei protagonisti è affidata ad un fervore speculativo che segue rotte e metodi differenti, ma è innanzitutto da ricercare nel cuore della loro biografia, una biografia di uomini prima ancora che di pensatori.
La vita di Cassirer offre uno scorcio per certi aspetti già anacronistico rispetto ai rapidi cambiamenti culturali dell’epoca: neokantiano, accademico di vecchio stampo, marito esemplare e padre severo, uomo apparentemente imperturbabile che gode di quella stabilità professionale ed emotiva che gli altri tre protagonisti a stento trovano o invano ricercano; un uomo ancorato ai valori della tradizione, ma che si erge saldo sull’onda delle nuove tendenze culturali, un baluardo del pensiero classico tedesco aperto ai nuovi orizzonti del sapere e dedito allo studio della cultura nelle sue diverse forme. La biblioteca appare come il suo habitat naturale, al punto da trascorrere intere giornate nel luogo che più di ogni altro sa congiungere la sacralità di un moderno tempio del sapere al calore familiare di una seconda casa: la Biblioteca amburghese di Warburg. Se all’esordio dell’opera di Eilenberger Cassirer è già un intellettuale affermato e vicino all’apice del suo successo accademico (successo che lo porterà, proprio nel 1929, a divenire rettore dell’università di Amburgo), lo stesso non si può dire di Heidegger. Dapprima giovane studioso in rampa di lancio in cerca di un’occasione per esercitare il suo brillante intelletto, Heidegger diventerà in breve tempo il più limpido contrappunto alla figura di Cassirer, un contrappunto che nel 1929 troverà fra i monti innevati di Davos l’arena perfetta per tramutarsi in un vero e proprio scontro di vedute e di generazioni. Una conferenza che mette a confronto due pensieri, due metodi, due stili affatto diversi e forse inconciliabili, e che allo stesso tempo sembra sancire l’inizio di un lento tramonto del neokantismo di Cassirer e l’ascesa dell’innovativa indagine heideggeriana sull’Essere e sull’Esserci.
La parabola biografica del filosofo di Meßkirch è in qualche modo l’emblema della costruzione di una graduale fortuna accademica che vede negli anni Venti una fase di incubazione, rapido sviluppo e infine compimento: Heidegger si dimostra fin dai suoi primi corsi un professore carismatico, capace di accendere negli occhi dei suoi studenti il lume della curiosità e di portare alla luce problemi che la storia del pensiero filosofico aveva a suo dire troppo celermente sepolto. La pubblicazione, nel 1927, di Essere e tempo lo consacra come uno dei più acuti pensatori dell’epoca, permettendogli di smarcarsi definitivamente dall’ingombrante ombra di Husserl, suo predecessore alla cattedra di Friburgo e pigmalione del suo talento filosofico. È a partire da qui che la popolarità di Heidegger negli ambienti accademici consegnerà alla storia un ricco immaginario di vicende legate alla sua vita, tra aneddoti curiosi e aliti di leggenda: dalla controversa relazione con Hannah Arendt ai suoi singolari rapporti coniugali, dalla leggendaria Hütte avvolta fra i rami della foresta nera agli anni di rettorato a seguito della sua adesione alla causa nazista.
Ricostruire in poche righe la vita di Benjamin e Wittgenstein appare un’operazione decisamente più complessa. Se infatti l’esistenza di Cassirer e quella di Heidegger sembrano attestarsi su un binario piuttosto lineare in grado di condurre – non senza interruzioni, contrattempi e difficoltà di ogni sorta – ad una meta predefinita (la stabilità professionale ed emotiva poc’anzi accennata), la parziale esclusione di questi due autori dai più ristretti ranghi dell’accademia comporta un‘inevitabile frammentazione della loro biografia intellettuale.
L’esistenza di Benjamin è la rappresentazione paradigmatica dell’esasperata ricerca di sé, di un progetto di vita cui aderire con pieno vigore e tener fede con l’andare del tempo. Per tutti gli anni Venti, e forse anche in seguito, questa ambizione è destinata a rimanere inappagata: imprevisti, repentini cambi di idea e costanti crisi psico-fisiche impediscono a Benjamin di abbracciare con fermezza un ideale per cui vivere. Brama un posto da ricercatore, ma il suo carattere inquieto e incapace di compromessi provoca presto frizioni con l’ambiente accademico e con i suoi amici più intimi; mischia amore e afflato rivoluzionario in una sola grande missione sociale e personale, ma l’incostanza lo porta presto a smarrire nuovamente la bussola della sua esistenza; viaggia per l’Europa inseguendo quella scintilla di vitalità che ancora lo anima: prima Berlino, poi Capri, Parigi e Mosca a sancire il lento distacco dalla famiglia d’origine, dalla moglie e dall’unico figlio.
Se l’irresolutezza domina la vita di Benjamin, una vita che egli stesso ha probabilmente avvertito come sconclusionata fino all’attimo prima dell’estremo gesto con cui ne decreta la fine nel 1940, la vita di Wittgenstein si può dire oscilli inesorabilmente fra momenti di linearità narrativa in cui una stabilità sembra essere stata acquisita e profonde rotture con il passato che rimettono in gioco l’intero corso dell’esistenza. Il demone contro cui il filosofo viennese si trova periodicamente a lottare è rappresentato dal senso di incomprensibilità generato dal suo rapporto col mondo. Ciò risulta chiaro pensando al destino del suo Tractatus, inaccessibile ai più e frainteso dalle poche menti giudicate dall’autore stesso in grado di comprenderlo (su tutte quelle appartenenti al Circolo di Vienna, il quale riconosceva in Wittgenstein una sorta di sommo profeta). Il disinganno nei confronti del mondo intellettuale – uno dei più potenti motori della biografia di Wittgenstein – unito alla pretesa di aver risolto tutti i principali problemi della filosofia lo conduce alle più bizzarre (almeno per chi, come lui, mostra un innegabile talento filosofico) latitudini dell’esistenza: maestro elementare prima, architetto e ingegnere al servizio della sorella Margarethe poi, e infine il ritorno a Cambridge e alla filosofia, una filosofia che ha ancora bisogno di essere messa a nudo dal suo genio, un ritorno che è la sola risposta cui l’uomo Wittgenstein può affidarsi dopo una vita di affanni tra l’esperienza bellica e le inquietudini quotidiane di chi si percepisce come radicalmente incomunicabile agli altri.
La penna di Eilenberger ha il pregevolissimo merito di guardare alle vite di questi quattro animi rivoluzionari sapendo metterle a nudo, cogliendo le loro sfumature psicologiche, rivelandone le fragilità, le inquietudini, le sottili angosce che non possono fare a meno di prendere corpo nelle rispettive trattazioni filosofiche. La scelta dell’autore di una penetrazione nell’intimità dei personaggi cui dà voce, e dunque di un realismo psicologico che induce di norma a privilegiare lo stato interiore alla dimensione contestuale, non comporta tuttavia un disinteresse per quest’ultima; si può anzi affermare che la riuscita complessiva dell’opera dipenda in primo luogo dalla saldezza di questo connubio fra l’esplorazione dell’interiorità dei quattro pensatori e il rigore con cui vengono tratteggiati i contorni storici della vicenda. La sinergia di queste due istanze entro un’unica linea narrativa trova poi una sua terza componente negli incisi a carattere divulgativo che l’autore si premura di inserire affinché la comprensione da parte del lettore dei motivi biografici dei protagonisti si orienti all’interpretazione del loro pensiero. Queste digressioni – talvolta troppo estese per non rallentare drasticamente il ritmo dello scritto e non comprometterne l’accessibilità ad un pubblico, per così dire, “profano” – non solo permettono di mantenere vivo agli occhi del fruitore il rapporto bidirezionale fra vita e pensiero, ma rafforzano anche quel comune sentire in base al quale al filosofo non è mai possibile dismettere la propria professione di ricercatore della verità nelle sue differenti tonalità. Questo lo testimonia la traiettoria esistenziale di ciascuno degli autori coinvolti, per i quali la filosofia non è solo cagione di sostentamento materiale, ma anelito da cui la vita intera non può non lasciarsi perpetuamente ispirare.
Dal punto di vista dello stile di scrittura, il testo risulta estremamente vivace e godibile, consentendo al lettore una fruizione scorrevole e senza particolari ristagnamenti. L’efficacia della narrazione nei suoi snodi fondamentali risulta da stilemi che sembrano lambire i contorni dell’arte cinematografica: nel modo di inquadrare le scene, ritrarre come con un’istantanea i contesti e le condizioni psicologiche dei protagonisti, accrescere la suspense al sopraggiungere di una scelta che si prospetta decisiva per la vita di uno dei personaggi, è concentrato il tentativo di far rivivere un’epoca dagli aspetti storicamente più rilevanti fin nei suoi più prosastici dettagli materiali, e l’effetto ottenuto è per larghi tratti quello in virtù del quale quattro esistenze che pur mai si incontrano (ad eccezione del suddetto confronto fra Heidegger e Cassirer) sembrano tuttavia integrarsi perfettamente all’interno di un’unica grande pellicola, un’unica grande storia, insomma, un mosaico che, nell’eterogeneità delle sue tessere, non potrebbe apparire più armonico. A ciò contribuisce il passaggio continuo e repentino da una biografia all’altra, un passaggio ricamato dall’autore con magistrale eleganza per mostrare come alle vicissitudini di ciascun pensatore facciano da prolungamento e da controcanto quelle di un altro, secondo l’idea latente che la vita di ogni uomo è infine sempre la medesima pur nelle sue infinte ombreggiature. Questo turbolento dinamismo degli scenari non rappresenta certo la strada più agevole per uno studio biografico, ma la freschezza dello stile unita al fascino delle storie narrate rende il testo estremamente piacevole e accattivante, e questo sia agli occhi del lettore più filosoficamente accorto che di quello semplicemente incuriosito dalle vicende personali di quattro colossi del pensiero novecentesco.