Enrico Orsenigo (1992), psicologo iscritto all’Ordine degli Psicologi del Veneto, è Ph.D. Student in Learning Sciences and Digital Technologies all'Università degli studi di Modena e Reggio Emilia. Nei suoi articoli si occupa di psicologia clinica, psicologia dello sviluppo, psichiatria fenomenologica e filosofia della tecnica.
Recensione a: L. Rossi, Uomo e natura. Un percorso critico nell’antropologia filosofico-biologica del Novecento, Castelvecchi, Roma 2023, pp. 90, € 13,50.
Non siamo a conoscenza di altre opere in lingua italiana che mettono a confronto Uexküll, Portmann e Lorenz in un percorso critico. In questo senso, l’opera che recensiamo è per ora un caso unico.
Lino Rossi sviluppa il suo percorso critico muovendo da una necessità:
Il volume intende così esplorare le diverse prospettive che pongono in modo interrogativo la ricerca di un difficile e inconcluso equilibrio fra l’uomo e la natura da parte di Jacob von Uexküll, Adolf Portmann e Konrad Lorenz, ciascuno interessato a definire i contorni di una presenza umana concepita in un intrinseco rapporto col contesto ecologico.
Interrogativi di ricerca che provengono da tre naturalisti, ossia interessati al ruolo dei processi biologici nel contesto vivo della realtà naturale. Ma anche, come emerge nella prima parte del saggio, conoscitori e critici dell’antropologia filosofica classica, e dell’analisi della posizione dell’uomo nel mondo sviluppata da Scheler, Plessner e Gehlen. Tuttavia, le opere di Uexküll, Portmann e Lorenz seguono un programma che non esclude il valore filosofico, anzi, portano la riflessione della posizione dell’uomo ad un altro livello e, come nota Rossi, da cui emerge una attualizzazione del trascendentalismo kantiano, dove a eccezione di Portmann i termini utilizzati sono riconducibili a un a priori materiale.
Che cosa intendono raggiungere gli antropologi filosofi-biologi? Tentano una spiegazione del fenomeno umano, «cogliendo nelle sue peculiarità il rapporto fra uomo e mondo; fra uomo e ambiente». Convergono nell’esprimere valutazioni critiche nei confronti del paradigma evoluzionistico – dalla negazione di Uexküll alle correzioni radicali di Portmann e Lorenz.
Ritornando alle distanze teoriche che caratterizzano il rapporto tra antropologi filosofi e antropologi filosofi-biologi, Rossi fa presente l’utilizzo diverso del termine adattamento, come illustrato in una nota (p. 21), dove segnala che Plessner utilizza tale concetto come adeguamento dell’organismo animale al mondo esterno, configurando dunque un rapporto tra realtà separate, mantenendosi ad una certa distanza dalla prospettiva ecologica. Il nuovo programma, segnato in prima battuta da Uexküll, intende ‘aprire’ il mondo della singola esistenza, identificando nella costituzione dei soggetti le caratteristiche reagenti al dintorno. L’uomo, costitutivamente non condizionato dall’Umwelt, è agente nel dintorno «destinato a superare le barriere monadologiche tipiche di ogni animale e a realizzare un rapporto complesso col reale». Complessità che va definendosi anche come intero di materie che si manifestano come ostacoli, complessità vivificata da movimento e resistenza. Così Uexküll: «la determinazione locale delle diverse resistenze è indispensabile per il movimento del nostro corpo nello spazio; esso è molto più importante della conoscenza degli oggetti».
Fa notare Rossi che Uexküll propone una teoria dell’ambiente natura a circoli chiusi; risulta chiaro, in questa visione, il valore funzionale che assumono gli strumenti extranaturali dell’uomo, come l’intelligenza: «l’Umwelt chiuso che avvolge l’animale in una intima dimensione, tutta orientata a ottimizzare il funzionamento delle strutture biologiche della specie, non è affatto assimilabile all’Umgebung, l’ambiente nei dintorni, il milieu, tipico dell’uomo». E sempre Rossi, segnala l’efficacia della descrizione di Plessner: «[l’ambiente umano si esprime come] milieu, come “atmosfera” inarticolata, come ricchezza di circostanze, che circondano l’uomo e lo sostengono».
La seconda parte del secondo capitolo affronta l’apertura dell’uomo al mondo intesa da Portmann; il punto di partenza riguarda i fattori del processo evolutivo, rivisti alla luce della problematica nature/nurture. Si contrappone alla visione chiusa di Uexküll, sostenendo che «l’uomo, primo essere libero del creato, funge da guida a se stesso». Qui il saggio presenta le distanze prese da Portmann nei confronti della linea teorica della natura difettiva dell’uomo, concepita da Herder e Bolk, e da Gehlen poi.
Secondo Portmann la concezione dell’essere difettivo manifesta una connotazione negativa. Fa notare come le differenze individuali nel campo della realizzazione spirituale e l’eredità sociale costituita dalla tradizione, sono state più forti e più rapide rispetto all’evoluzione extraumana. Qui Rossi segnala che la ricerca del significato, in Portmann, sembra essere una delle maggiori divergenze fra animale e uomo. Nel programma dell’antropologia filosofico-biologica, la ricerca del senso, richiede l’assunzione di principi etici volti ad una comprensione della realtà aperta alla trascendenza: «l’uomo non solamente è chiamato ad agire, bensì ad agire riflettendo e compiendo scelte alle quali non può sottrarsi». Ancora, in una nota che stende un primo raccordo critico tra Portmann e Lorenz:
ci preme tuttavia osservare come Portmann, al contrario di Lorenz, adotti una intenzione etica che potremmo definire “positiva”, ossia volta a valorizzare le possibilità offerte dal percorso bio-culturale in funzione di un adattamento favorevole alla specie, migliorativo rispetto alle sue condizioni di vita.
Il terzo capitolo si apre con una sintetica ed efficace descrizione dell’impalcatura teorica del terzo naturalista. Nell’opinione di questo, rileva Rossi, l’idealismo trascendentale si fonda su universali necessari che formano un sistema che condiziona e rende possibile la molteplicità delle esperienze che l’umano fa nel mondo. Tali categorie si adattano a ciò che esiste. Nel saggio si sottolinea il fatto che la visione evoluzionistica di Lorenz sembra manchevole di una «percezione operativa del soggetto, che appare in questo modo totalmente privato di quelle facoltà di reazione e differenziazione necessarie per consentirgli un giusto utilizzo delle informazioni genetiche tramandate dalla specie». Una delle differenze principali tra Kant e Lorenz, è che il primo si riferiva alle sue categorie come a concetti puri e necessari dell’intelletto, mentre il secondo precisa che tutta la conoscenza che un individuo può cogliere dalla realtà empirica dell’immagine fisica del mondo non può altro che configurarsi come “ipotesi di lavoro”.
Accompagnati dall’ultima parte del testo di Rossi, assistiamo alla nuova visuale da cui si pone Lorenz, oltre il trascendentalismo kantiano, in un sistema aperto attraversato dal confronto con l’ambiente. Rossi riesce a trasmettere il senso e le conseguenze di questo spostamento di posizioni effettuato da Lorenz: le operazioni prodotte da singoli individui, nell’ambiente, esercitano una retroazione positiva sul sistema delle aspettative: avviando la trasmissione di «tale apprendimento per via extragenetica, ossia attraverso la cultura». E ancora “adattarsi”, in questa nuova ottica, corrisponderebbe «a cogliere fenomenicamente la cosa-in-sé, mediante uno schema di rappresentazione specie-specifico corrispondente a un a priori materiale», che per quanto riguarda l’uomo si realizza per via epigenetica e culturale. Ma è nella parte finale del saggio che emerge in tutta chiarezza la posizione del terzo naturalista. Le facoltà umane vanno considerate alla luce di una folgorazione, una interrelazione creativa di abilità cognitive eterogenee che ha portato alla formazione di una unità funzionale più complessa, dalla quale hanno preso avvio i processi più avanzati della cultura e della socialità; e accanto a questa unità, così come sostiene Lorenz, dominano ancora leggi primitive.
Il saggio si chiude con una riflessione in merito allo stato attuale del rapporto tra uomo, natura e tecnica. L’uomo oggi dispone di strumenti in grado di cambiare in modo irreparabile l’ambiente; in una certa misura, la cultura assume il valore di una seconda natura ambivalente. L’uomo è antiquato? si chiede Rossi con Günther Anders. La risposta, presente nell’ultima pagina del saggio, mantiene la stessa precisione che ha segnato i capitoli precedenti.