Valentina Meliadò, giornalista e storica. Nel 2006 ha pubblicato Il Manifesto dei 101. Il Pci, l’Ungheria e gli intellettuali italiani, libro dedicato alla frattura tra partito comunista e intellettuali all'alba della repressione sovietica della rivoluzione ungherese del 1956; nel 2009, per la Fondazione “Ugo Spirito e Renzo De Felice”, il saggio Ugo Spirito il rivoluzionario: dall'attualismo al comunismo, dedicato al viaggio intrapreso dal filosofo del problematicismo in Unione Sovietica nel 1956. Già redattrice della trasmissione radiofonica Rai Radioanch'io, e giornalista del quotidiano “Liberal”, collabora attualmente con il quotidiano “L’Opinione” e con la Fondazione “Ugo Spirito e Renzo De Felice”.

Recensione a
Y. Hazony, Le virtù del nazionalismo
Guerini e Associati, Milano 2019, pp. 323, €21,50.

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Le virtù del nazionalismo, scritto dal pensatore e filosofo israeliano Yoram Hazony, è un libro quasi urticante fin dal titolo per chi è abituato, come ormai lo siamo tutti persino inconsciamente, a considerare il nazionalismo una sorta di antico retaggio ferino che ciclicamente tende a riproporsi ad una umanità politica denaturalizzata e avviata ad un infinito e non meglio specificato progresso civile. Ma l’autore non ha alcuna remora a sfidare il conformismo vigente, né a confrontarsi con autentici mostri sacri del pensiero politico moderno, da Leibniz a Locke, da Cartesio a Kant, da Hume a John Stuart Mill, al fine di dimostrare la validità della sua teoria.

Il libro è di facile lettura grazie ad una scrittura scorrevole e alla presenza di ricche e puntuali note a piè di pagina, ma la comprensione del testo è determinata dal corretto significato che Hazony attribuisce ai termini che usa, che lui stesso si premura di specificare. Con nazionalismo, infatti, egli intende «un punto prospettico, imperniato su dei valori, che considera il mondo come governato al meglio quando le nazioni sono in grado di pianificare autonomamente il proprio sviluppo; di coltivare senza interferenza alcuna le proprie tradizioni; come pure di liberamente perseguire i propri interessi. Tutto ciò si oppone all’imperialismo, mirante a portare la pace e il benessere al mondo, unendo il più possibile l’intero genere umano sotto un singolo regime politico» (p. 13). Non ci sono vie di mezzo. La scelta, oggi come ieri, è tra due tipi di organizzazione politica: un mondo di nazioni libere e indipendenti, o la globalizzazione, versione contemporanea della struttura imperiale di antica memoria. Possibile?

Per esplicare il proprio pensiero l’autore ricostruisce il processo che porta alla formazione degli Stati, riconoscendo tre modalità politiche: le società pre-statali, formate da clan e tribù, lo Stato imperiale e gli Stati nazionali, intendendo, rispettivamente, con il termine clan le organizzazioni e le istituzioni locali, con tribù le collettività più estese, e con nazione «un certo numero di tribù con una lingua o una religione comune, una storia pregressa di azione comune, laddove si era agito come un unico soggetto per la comune difesa e altri grandi cimenti» (p. 32). Ma cosa porta le società pre-statali a confluire nella nazione e ad istituire lo Stato nazionale? Il filosofo israeliano ritiene che l’impulso principale alla creazione di una istituzione statale – ed anzi la più potente forza operante nella dimensione politica – sia il rapporto di mutua fedeltà tra i membri della comunità istituente. Il concetto di mutua fedeltà ricorre costantemente nel libro e l’autore ne arricchisce la definizione in diversi capitoli, intendendo comunque con questa espressione l’estensione del proprio sé dal nucleo familiare verso le piccole istituzioni che costituiscono la base portante di qualsiasi sistema politico. È la coscienza di ogni membro della nazione di appartenere gli uni agli altri, di essere parte di un unico corpo per il quale si assumono responsabilità e doveri che non possono essere continuamente ritrattati. La mutua fedeltà, in sostanza, è quel sentimento di appartenenza ad uno specifico popolo composto da un insieme di clan e tribù che condividono un insieme di tradizioni peculiari, un percorso comune e uno specifico progetto di realizzazione. Lo Stato nazionale si fonda dunque su un’idea di nazioni intese quali «comunità unite da vincoli di mutua fedeltà in cui le tradizioni specifiche sono trasmesse da una generazione all’altra […] le nazioni, inoltre, offrono ai loro aderenti una potente identificazione con i predecessori, come pure educano all’attenzione per le sorti delle future generazioni» (p. 57).

Tali concetti, veicolati dall’affermazione degli ideali protestanti contro l’universalismo del Sacro Romano Impero, determinarono il nuovo ordine internazionale di Stati indipendenti scaturito dalla fine della guerra dei Trent’anni e dalla pace di Vestfalia (1648), e sancirono il principio dell’autodeterminazione nazionale, che si affermò definitivamente dopo la prima guerra mondiale e la ridefinizione dei confini europei, raggiungendo, con la promulgazione dei celebri 14 punti del presidente americano Wilson, il momento più alto di apprezzamento politico e filosofico del nazionalismo. Eppure, nell’arco di un solo secolo, il principio stesso di sovranità sembra essere entrato in crisi e relegato ai bassifondi delle dottrine politiche. Perché?

Fu certamente il nazismo e l’idea che la Shoah fosse stata determinata dal nazionalismo tedesco a far cadere in disgrazia il concetto stesso di nazionalismo, ma questa idea, sostiene Hazony, è del tutto errata. Hitler, infatti, non fu mai un sostenitore dello Stato nazionale, che riteneva una «logora invenzione dei francesi e degli inglesi» (p. 68). Il suo obiettivo era semmai la riedificazione del Sacro Romano Impero Germanico sotto l’egida della Germania nazista e della razza ariana, adoperandosi per «annientare una volta per tutte il principio di indipendenza nazionale e di autodeterminazione dei popoli» (p. 69). Tuttavia fu ancora il diritto all’autodeterminazione a guidare il riassetto europeo postbellico, stante la spartizione del mondo in sfere di influenza e la caduta dell’Europa dell’Est nelle mani dell’impero sovietico, ma la reputazione del nazionalismo era ormai compromessa. Il suo ultimo sussulto d’orgoglio è stato presumibilmente la fine dell’oppressione sovietica sui popoli dell’Europa orientale, e la riflessione sul nuovo ordine mondiale dopo la caduta del muro di Berlino consolidò l’idea della diffusione a livello globale dei principi liberali. Ma qui l’autore lascia davvero sorpresi quando attribuisce alla costruzione liberale dell’Occidente le stesse caratteristiche di tutti gli imperi della storia.

Per Hazony tutte le dottrine e le religioni universali, dal cattolicesimo all’Islam, dal marxismo al liberalismo, hanno una teoria di salvezza del mondo cui ritengono di poter garantire pace e prosperità in cambio della rinuncia al particolarismo politico, culturale e religioso, e – di conseguenza – all’indipendenza. Così si sono in effetti configurati e comportati tutti gli imperi dell’antichità, i quali, al netto della pace e del benessere che hanno garantito, hanno mantenuto il potere su ampi territori solo con il dispotismo e l’oppressione dei dissenzienti, non potendo contare sui rapporti di mutua fedeltà, che all’interno di un impero costruito attorno al nucleo dominante e alla sottomissione di tutti gli altri è impossibile. La stessa cosa, con caratteristiche differenti, si sta verificando oggi, con un generale «assoggettamento delle nazioni ad un ipertrofico corpo di normativa internazionale; azioni volte a stabilire un universale regime dei diritti umani attraverso organizzazioni non governative; organismi delle Nazioni Unite; corti internazionali; l’omologazione delle università mondiali attraverso criteri internazionali e peer review» (p. 64).

Qualche riflessione a questo punto è d’obbligo. Che tipo di assetto politico è quello in cui tutti si definiscono liberali e in cui abbiamo delegato agli organismi internazionali (dall’Unione Europea alle Nazioni Unite) le decisioni, le azioni e persino la valutazione degli effetti politici, economici e sociali della globalizzazione? Questa contrazione oggettiva della eterogeneità politica e culturale, della sovranità nazionale, della competizione economica e della politica estera ha davvero reso il mondo più ricco e pacifico? Se è vero che il liberalismo si fonda sull’idea di diritti naturali, inalienabili e universali, è altrettanto vero che esso si è diversificato in due correnti di pensiero nella sua storia: il liberalismo di matrice anglosassone, protestante ed empirico, e quello europeo, figlio dell’Illuminismo e della sua matrice razionalista e universalista. Queste due correnti sono tornate oggi a scontrarsi attraverso la Brexit inglese e la presidenza americana di Donald Trump, bollate entrambe come un rigurgito volgare, incolto e incompetente, se non proprio fascista, del nazionalismo. Ciò è dovuto al fatto che lo Stato imperiale, ci ricorda Hazony, è sempre intollerante nei confronti del dissenso, e tende talmente all’omologazione e all’appiattimento del pensiero da provocare alla fine una rottura, un rifiuto. Che è effettivamente quello che sta accadendo.

Il sentimento nazionale, il desiderio di decidere ed orientare il proprio destino non si è affatto spento all’interno di una Unione Europea che «ha costantemente ampliato i suoi poteri sulle nazioni membro in settori quali le politiche economiche, le politiche di occupazione e lavoro, la sanità pubblica, le comunicazioni, la scuola e la formazione, i trasporti, l’ambiente e la pianificazione urbanistica» attraverso un’autocrazia burocratica tipica di tutti gli Stati imperiali, con la differenza che la UE non ha una dirigenza abbastanza forte per una politica estera e di difesa comune, e d’altronde, se i paesi europei non dipendessero ancora, da questo punto di vista, dagli Stati Uniti, quale paese membro si assumerebbe la responsabilità della difesa e della sicurezza? La Germania, senza dubbio, che a quel punto avrebbe ricostruito l’impero tedesco senza sparare un colpo.

In definitiva Hazony non sostiene certo che gli Stati nazionali non conducano guerre o non coltivino al loro interno sentimenti di odio. Egli sostiene piuttosto che queste e quelli siano presenti in qualsiasi assembramento umano e sociale, ma in diverse proporzioni. Le conseguenze prodotte dalle teorie universaliste tipiche degli imperi – le guerre ideologiche – sono infinitamente più gravi di quelle determinate dal perseguimento degli interessi particolari degli Stati nazionali. L’autore ci invita dunque ad un cambio di prospettiva: la continua cessione di porzioni di sovranità e il senso di vergogna per l’interesse nazionale a favore di organismi internazionali, che non sono e non possono essere neutri, possono illuderci sul perseguimento dell’unità del genere umano (che si rivela sempre e comunque un abominio), ma in realtà non fanno che svilire e distruggere la diversificazione, la competizione, la qualità e la peculiarità della ricerca della verità, che la storia ha già dimostrato non poter essere una e men che mai valida per tutta l’umanità. D’altronde ben pochi periodi storici sono stati meno vitali dal punto di vista politico e culturale, e mai come in questo momento, davanti ad una pandemia globale, ci troviamo nudi di fronte all’amara verità della dipendenza di ciascuno di noi dai meccanismi di un’economia delocalizzata, per la quale siamo tutti succubi degli umori di dittature feroci quale quella cinese, e di organizzazioni internazionali che operano in modo opaco proprio per non infastidire le potenze più illiberali del mondo, come l’Organizzazione Mondiale della Sanità. È più che mai evidente, in questo preciso momento storico, che non è possibile affidare le sorti individuali e nazionali ad organismi internazionali che, alla prova dei fatti, si dimostrano incapaci e inconcludenti, scatenando peraltro il perseguimento meno nobile possibile degli interessi nazionali. Pertanto anche in relazione alla riflessione politica ed economica che si imporrà al termine della pandemia di coronavirus il libro di Yoram Hazony risulterà lettura imprescindibile. Una vera pietra miliare del dibattito prossimo venturo.

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