Recensione a: E. Sparvoli, Marcel Proust. La vita, la scrittura, Carocci, Roma 2023, pp. 372, €24,00.
Questo libro di Eleonora Sparvoli, allo stesso tempo introduzione e analisi dell’opera di Proust, sintetizza e suggerisce con grande completezza le tematiche più calde, complesse e affascinanti che da sempre fanno parte della letteratura e del dibattito proustiano. Costituisce dunque un ottimo strumento sia per il lettore appassionato e desideroso di un confronto critico di ampio respiro e di preziosità analitica, sia per lo specialista, che trova dinanzi a sé uno studio dettagliato e preciso. Inoltre, come del resto insegna lo stesso Proust, i libri sono lenti che il lettore usa per conoscere se stesso; da questo punto di vista, l’esperto lettore proustiano può allora gustare e giovarsi della scelta dei brani commentati e concatenati criticamente tra loro da parte dell’autrice. La scansione del libro segue un’impostazione utile e ordinata, essendo affrontate prima la vita dello scrittore – inestricabilmente connessa a quella del Narratore dell’opus magnum – e poi l’opera letteraria dalla cosiddetta giovinezza del periodo mondano fino all’estrema clausura della Recherche.
Trovano posto in questa panoramica biografica: la ferocia sociale, rispetto a cui «è difficile immaginare un demistificatore più spietato degli idoli mondani di quanto non sia stato il Proust della Recherche» (p. 34); le relazioni amorose, le quali sono concepite dallo scrittore «come un sostituto della figura materna» (p. 48); e naturalmente l’arte, che, contestualmente all’articolo La Mort des cathédrales, viene intesa già in questo periodo «non come un oggetto da contemplare, ma come il tramite d’un flusso emotivo, spirituale, intellettuale che attraversa lo spettatore e lo ispira, rendendolo a sua volta capace di creare. La cattedrale sarebbe divenuta per Proust un modello non in quanto scrigno monumentale che racchiude orpelli preziosi (come la dimora ingombra di arredi sacri di Des Esseintes), ma perché traccia tangibile di un’aspirazione, una fede, un’idea di mondo» (pp. 66-67). Più avanti, quando Proust inizierà a scrivere la Recherche, queste premesse verranno portate all’ennesima potenza: oltre alla rievocazione esistenziale in senso mnemonico, di cui c’è già prova nel Jean Santeuil, diventeranno chiarissime la trasformazione della vita in arte, o, per dirla con le parole di Sparvoli a proposito dell’affaire Agostinelli che lo scrittore traslerà di peso all’interno della sua opera sotto le fattezze di Albertine, risulta «difficile tracciare una linea di confine tra vita e letteratura in questa fase dell’esistenza di Proust in cui l’osmosi è totale: la scrittura è un esperimento condotto sulla carne, e la realtà un intreccio da lavorare con lo stile» (p. 119).
La vita è rielaborata, perfezionata, innalzata dall’arte, esiste dunque questo flusso che conduce direttamente dalla vita che si scrive durando nel tempo alla scrittura della vita, ovviamente non in senso meramente biografico bensì letterario, in cui la trasformazione è tale da distillare dall’opacità dell’incompreso la chiarità del concetto. Dice opportunamente l’autrice: «Persino l’amore che come un morbo malvagio sequestra i giorni dell’eroe e li mura nel chiuso d’una stanza, finisce per fare il gioco dell’arte: cui offre – oltre al frutto di ininterrotte analisi psicologiche – il dolore, che è sempre, nella Recherche, apportatore di conoscenza» (p. 168). Che il dolore sia una forma privilegiata di accesso e di produzione di conoscenza è una delle verità maggiori che la Recherche dona al suo lettore. Anzi, la radicalità proustiana arriverà al punto da affermare che non c’è occasione di conoscenza più alta di qualcuno che, a causa dell’amore che si prova per lui, fa soffrire, e di tutto ciò è esempio massimo la liaison con Albertine. Non soltanto il dolore fa conoscere, rende l’umano più profondo e capace di scendere negli abissi di se stesso, ma diventa il maestro più dotto quando associato al sentimento amoroso. Questo potrebbe essere uno dei motivi per cui l’amore per Albertine rappresenta una delle tappe esistenziali del Narratore più importanti – se non addirittura la più importante – verso la verità dell’opera, per meglio dire l’arricchirsi di quel giacimento della sua vita passata che la vocazione per la scrittura permetterà di tramutare nell’oro della letteratura.
Accorgimento che consiste, pensando a un passaggio famoso del Temps retrouvé, nel lavoro del traduttore, che deve appunto mutare da una lingua a un’altra l’enorme quantità di vissuto che giace sepolta dentro il sé. Questa è l’operazione che del resto ricorda anche l’autrice, quando afferma che l’attività di traduttore, specie dell’opera del prediletto John Ruskin, che Proust fece prima di dedicarsi completamente alla scrittura di quello che senza mezzi termini sarebbe stato il suo libro, ha aperto le porte anche per una concezione traduttiva della letteratura: «È dunque come se la lunga fatica di sottrarre all’oscurità un testo scritto in una lingua straniera lo avesse messo sulla strada che portava ad un’altra operazione, ancora più complessa, di scavo e restituzione, condotta nelle profondità di sé stessi ove giace un libro che – se letto secondo il codice della comunicazione ordinaria – può risultare anch’esso incomprensibile, estraneo» (p. 199)
Il libro che dura da una vita e che, dal momento della decisione di Proust di mettersi a scriverlo, durerà per la vita, per quella che gli resta da vivere e che impiegherà a comporlo e l’altra che inizierà non appena la sua opera verrà conclusa, la quale anzi gli sopravvivrà, in un concetto reale e concreto di ultra-vita. La Recherche è un’opera nata dal tempo e di tempo intessuta, «sostanziata di tempo» (p. 216): un’entità esistenziale che dalla temporalità del suo autore passa interamente a quella del Narratore, nel divenire di pagine, frasi e sillabe della letteratura, che spiega e salva la vita. Ma più nel dettaglio è «il tempo che ha preceduto la sua stesura […] e il tempo della sua avventurosa redazione: entrambi innervati nella storia narrata, in cui si percepiscono (a patto di leggerla dal principio alla fine!) sia la distanza intercorsa fra le vicende esistenziali dell’autore e la loro trasposizione nel racconto […], sia i mutamenti, nella biografia e nello stile, che sono avvenuti mentre la scrittura si dipanava» (p. 216). Tutte le grandi opere, in fondo, sono il risultato di un’esistenza di riflessione da parte del loro autore, ma ciò è particolarmente vero per la Recherche, la quale – ed è anche l’indicazione che Sparvoli fornisce per intenderla – rappresenta il faro della vita e dell’opera di Proust.
La Recherche è il tempo di una vita sublimato in opera d’arte, nel tentativo di redimerla dallo spreco e di salvarla nel senza-tempo della letteratura. È un’opera che esprime quindi in se stessa idee assai peculiari di grafia e di forma, come stratigrafia e metamorfosi di un vissuto esistenziale. Una grafia e una forma che sono anche autobiografia e autometamorfosi, scrittura e trasformazione di sé. Questo punto è individuato e affermato dall’autrice con estrema limpidezza e decisione: «L’autobiografismo attraversa la Recherche come un fiume carsico le cui emersioni visibili sono rare ma la cui presenza sotterranea è indubitabile» (p. 239). Un fiume eracliteo in cui ci si può bagnare due volte nelle stesse acque, o quanto meno percepire, grazie al potere analogico della memoria involontaria, identità nella differenza, qualcosa di comune a due enti ma irriducibile rispetto a ciascuno di essi preso singolarmente.
L’autrice dedica riflessioni molto acute ed esaustive a Combray, Swann, Charlus, Albertine, sviluppando in corrispondenza dei luoghi e dei personaggi centrali della narrazione i temi a essi collegati. Rimanendo però nel solco dell’arte, Sparvoli spende importanti considerazioni su Vinteuil e sulla giustamente decantata questione dello stile in Proust. Discutendo le pagine di uno degli episodi in assoluto più alti del romanzo, l’esecuzione nella Prisonnière del Septuor di Vinteuil, Sparvoli rievoca lo sfortunato musicista e prolunga l’eco della pagina proustiana: «Morto da anni, egli sembra tuttavia presente in mezzo agli invitati di quel salotto ai quali parla, attraverso la musica, con una sincerità che non avrebbe potuto mettere in una conversazione, ove la lingua impiegata non è mai davvero personale. Invece l’opera di Vinteuil convince il protagonista che l’anima individuale esiste ma che solo l’arte può esprimerla: e in questo essa è degna d’essere perseguita a dispetto dei fallimenti esistenziali che la assediano. Capitale acquisizione. Perché la parabola del musicista insegna all’eroe che, pur finendo col trascenderla, l’arte è compromessa con la vita: nasce, cresce e si manifesta a suo intimo contatto» (p. 327).
L’arte è anzi il fine al quale la vita dovrebbe tendere, la sola possibilità di redenzione e di reale condivisione di cui gli umani dispongono. La musica di Vinteuil per il Narratore era inconfondibile, e lo stesso doveva accadere al lettore che si fosse accostato alla sua opera: sciogliere la vita nella parola, nella sua luce, nella sua intangibilità e perfezione, e da lì ottenere pace. Con la parola letteraria, con la potenza di uno stile metaforico, si sarebbe potuto ricreare l’esistenza, assicurarle l’eternità, «quella felicità negata alla vita e che sembra invece promessa alla letteratura» (p. 341). Con un’espressione di alto lirismo, l’autrice sintetizza l’anelito allo stile e alla salvezza che intride la Recherche, e forse la cosa più metafisica che si possa dire su di essa: «La tensione a ricucire, riempire, ricostituire, abolire le linee di confine attraversa l’intera scrittura del romanzo ed è tanto più spinta al limite quanto più dispera di poter giungere al proprio fine: e può spezzarsi laddove la ferita, il trauma hanno la forma indicibile del lutto» (p. 341-342). Un lutto di cui la scrittura si farà vindice.