Enrico Palma (1995) è dottore di ricerca in Scienze dell'interpretazione presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell'Università di Catania. Nel 2022 ha conseguito l’abilitazione all’insegnamento per la classe di concorso A019 (Filosofia e Storia). Le sue aree di ricerca sono la filosofia teoretica, l’ermeneutica letteraria e i paganesimi antichi. Ha pubblicato saggi e articoli per riviste di filosofia, letteratura e fotografia. Con la cura del volume Psyché. L’anima ha contribuito alla collana del «Corriere della Sera» dedicate a Greco. Lingua, storia e cultura di una grande civiltà  (a cura di M. Centanni e P.B. Cipolla, 2022/2023). È redattore della rivista culturale online «Il Pequod».

Recensione a: J.-Y. Tadié, Proust e la società, trad. it. di R. Capotorti, Carocci, Roma 2022, pp. 184, € 18,00.

Con questa sua ennesima fatica proustiana uscita lo scorso anno e ora tradotta in italiano Jean-Yves Tadié, probabilmente il massimo studioso vivente dello scrittore parigino, tratteggia un sintetico ma eccellente itinerario di ciò che è esterno alla Recherche o che si deduce da essa, focalizzando alcuni dei temi oggettivi che hanno riguardato tanto l’autore che il suo mondo. Mi riferisco alla società, già invocata nel titolo, ma a molto di più: la storia, la politica, l’economia, la finanza, la geografia, le vacanze, sia come cornice in cui la vicenda del Narratore si sviluppa sia come fattori che determinando la biografia di Proust devono certamente aver influito sulla sua opera. A detta di Tadié, sia come lettori appassionati che come critici o filosofi di mestiere, si conosce molto bene l’interiorità del libro, le sue dinamiche interne; quello che invece resta spesso e volentieri in ombra è il rapporto della Recherche con il suo tempo, cosa abbastanza paradossale se si riflette sul fatto che parliamo di una delle opere che più di ogni altra comprende il tempo nelle sue più diverse manifestazioni. Con un’affermazione che soltanto il grande critico di razza può permettersi, Tadié inizia in questo modo il suo studio: «Ogni secolo, in mancanza di una Divina Commedia, ha bisogno di una Commedia umana, e quella del XX secolo ci è stata data da Marcel Proust» (p. 11).

E ne ha bisogno, come dicevamo, proprio per leggere e comprendere se stesso. È singolare, tuttavia, che Tadié tenga distinte queste opere, quando invece non sarebbe del tutto irragionevole ipotizzare per la Recherche un felice incontro tra le due: se la prima esprime gli umani e le loro passioni dal punto di vista della salvezza, la seconda esibisce il proprio tempo come i grandi affreschi del Rinascimento (penso a Michelangelo) o i dipinti storici del Barocco che rappresentano un’intera epoca. È quest’ultimo l’aspetto che ritengo che il libro di Tadié metta sotto analisi, la storia indagata dalla letteratura affinché si possano comprenderne le dinamiche fin nel profondo. Dice Tadié: «Non è il periodo storico a far nascere l’artista, non lo produce come un melo le sue mele; è il contrario: è ciò di cui egli si nutre, ciò che ricapitola e sintetizza per creare la sua opera. / L’opera di Proust simboleggia quindi gli avvenimenti che abbiamo riassunto: il crollo della vecchia società patriarcale e aristocratica e del sistema letterario che la descriveva; ma anche una guerra interiore, lo scontro delle passioni, la lotta contro la malattia, la difesa delle minoranze, ebrei o omosessuali; e l’avvento di un nuovo universo letterario, basato sulla memoria, la filosofia e la poesia» (p. 111).

Pensando a Hobbes che nel Leviatano suggerisce a chi voglia essere re di scrutare in se stesso l’intero genere umano, è questo il piglio con cui l’autore inquadra l’antropologia di Proust, la sua, per così dire, psicologia delle masse: «Proust ha la passione della generalizzazione, di desumere le grandi strutture, i sistemi e le leggi che lo sostengono, ma sempre, ed è la caratteristica del romanziere, a partire dall’individuo e dal particolare. Una sua idea fissa è che ci sia un’omologia tra l’individuo e il popolo. Comprendere il primo è comprendere il secondo, e viceversa. Procede, quindi, più per induzione dall’individuo che per deduzione a partire dal popolo» (pp. 21-22). Questo genere di approccio si apprende da alcuni dei personaggi più importanti del romanzo, Norpois, Françoise e lo stesso Charlus, le cui idee divengono di riflesso il portato dello status intellettuale e dell’estrazione sociale a cui appartengono, sicché nella coralità ogni voce assume il suo tratto distintivo. E tuttavia la marca proustiana, se vogliamo anche filosofica poiché indirizzata a estrarre il concetto generale dalla particolarità di eventi e persone, si evince da un’altra considerazione di Tadié, che suggella questo procedimento letterario scorgendo in un individuo l’espressione di un principio più alto che in lui si manifesta in maniera particolarmente evidente. «Si raggiunge così la grandezza della religione greca, che è stata quella di umanizzare le astrazioni, d’incarnare, in una donna o in uomo, la pace, la bellezza, l’aurora» (p. 27). Movimento che, come sempre in Proust, ha il suo esito finale nell’arte.

Tadié non classifica Proust, al contrario di molti altri, tra le fila degli snobisti, anzi, lo colloca a pieno titolo tra coloro che non si facevano alcun problema a fraternizzare, ad esempio, con i suoi domestici, con i quali era molto espansivo e cordiale. I domestici, riporta Tadié, costituivano un chiaro segno dell’agiatezza delle famiglie che se ne servivano, e più se ne avevano maggiore era la considerazione sociale che se ne ricavava, al punto che «il loro numero identifica il posto che si occupa nella gerarchia sociale e non averne è un disonore» (p. 33). Ma per quanto riguarda Proust la cosa fu assai trascurabile, almeno a giudicare dal fatto che soprattutto con due di loro, Céleste e il marito, finì per trascorrere più tempo rispetto alla nobiltà o con quelli che avrebbero dovuto essere suoi pari.

In modo molto dettagliato viene passato in rassegna uno degli argomenti più scabrosi e delicati, ovvero il suo rapporto con il denaro e la sua irrefrenabile smania di giocatore in borsa. All’epoca era un’occupazione abbastanza comune per le famiglie facoltose investire denaro in titoli di stato o in obbligazioni, ma la frenesia con cui Proust lo faceva insospettisce Tadié, tanto da chiedersi per quale ragione una persona come lui avrebbe dovuto impiegare tempo e risorse con il rischio di rovinarsi, come poi effettivamente avvenne. L’eredità di Proust ammontava a diversi milioni, una cifra che gli avrebbe permesso di vivere agiatamente di rendita per il resto della sua vita.

A prescindere dalle analisi freudiane che si possono addurre (come Tadié fa) per comprendere l’inclinazione di Proust verso l’ebbrezza del denaro e della vincita, è interessante rilevare come nelle lettere che scambiava con Lionel Hauser, il suo curatore finanziario, facesse ricorso a delle metafore che non avrebbero per niente sfigurato se impiegate nel romanzo: «Così, il mistero di un conto è paragonato a quello dell’Immacolata concezione, una carta ingiallita è legata al Giuramento di Strasburgo, il Crédit industriel è come l’orchidea chiamata vaniglia e che secondo Metchnikoff non dà frutti» (p. 46).

Pagine molto belle sono dedicate a Parigi, la città in cui si svolge gran parte della Recherche ma che rispetto ad altri luoghi descritti nel romanzo acquista uno spazio preponderante soltanto nel Temps retrouvé, durante la Prima guerra mondiale, laddove la capitale diventa la baudelairiana ville del vizio più che una scintillante meta di moda ed eleganza. Ma ciò è congeniale alla struttura estetica del romanzo, come mostra molto bene l’esempio discusso da Tadié, il faubourg Saint-Germain: «I quartieri non sono caratterizzati materialmente né raffigurati come in Zola, Calleibotte o Béraud. Il faubourg Saint-Germain non è tanto un luogo quanto un mito o un fantasma, un ambiente sociale piuttosto che un insieme architetturale» (p. 64). Poiché è questa una delle prospettive in cui Proust inserisce non solo gli umani ma anche i luoghi, trasformandoli come delle cere accese in una colata onirica che sciogliendone l’involucro ne rivela l’essenza, che nel caso della mondanità del faubourg sarà all’insegna della meschinità e dello svanimento. Ugualmente si può dire per un altro luogo topico della Recherche, la stanza d’albergo, fucina dell’abitudine e, come lo è stato per il Proust autore, luogo sicuro in cui elaborare la morte della madre, «sistema sociale» e «rifugio d’amore» in cui consumare la fisicità del desiderio e del sentimento (cfr. p. 94).

Naturalmente, la Recherche è anche un’opera politica, soprattutto se si considerano i due grandi eventi che costituiscono anche un netto discrimine sociale e mondano: il caso Dreyfus e la Grande guerra, ai quali la Recherche offre un indispensabile punto di vista. Tadié applica alla politica, alla modernità e alla storia un principio epistemologico che è letterario ma rispetto al quale niente impedisce di poterlo estendere a fatti più generali: «Di fronte a un evento straordinario, la letteratura è uno strumento privilegiato, non solo di riproduzione, ma soprattutto di comprensione» (p. 136). Storia che Tadié distingue dalla memoria, specie quella involontaria: «Diecimila madeleines inzuppate in diecimila tazze di tè sono storia; una sola è un romanzo» (p. 144). È difficile dire se qui Tadié metta da parte la riflessione benjaminiana sulla memoria involontaria come principio di base per la concettualizzazione della sua gnoseologica storica, ma è dal canto nostro più semplice condividere con l’autore il fatto che quella sola madeleine è stata l’origine di una letteratura fin lì assolutamente inedita: la memoria involontaria che mette in azione il racconto, lo crea, ne definisce le reti di relazioni e di associazioni, «il tessuto connettivo della prosa del mondo» (p. 144).

In conclusione, Tadié non rinuncia comunque a regalare al lettore, dall’alto della sua sapienza proustiana, bellissime formule sull’amore, sulla psicologia, sulla temporalità e sul motivo per cui la Recherche attira all’interno del suo gorgo sempre nuovi lettori. Dalle ultime considerazioni, emerge come il tempo oggettivo, ovvero il tempo del mondo, sia stato ripiegato nel romanzo, sillabato nella musica silenziosa della scrittura. È per questo che l’epopea di Proust è il tempo che diviene un altro tempo, un flusso in cui gli umani sono collocati per mutarli, la storia di eventi inserita nella coscienza di un uomo che li racconta per consentirne la comprensione e mostrarne l’indice immodificabile di trasformazione. Se la società, una delle possibili manifestazioni dell’oggettività di cui discutiamo, è uno dei nomi della Storia, questa Storia può cambiare, può cambiarci, secondo il potere immenso della Recherche che rivela il tempo a noi stessi e noi stessi al tempo.

Ritroviamo Platone e il mito di Er che ci racconta alla fine della Repubblica: possiamo ricominciare la nostra vita in un altro modo, la nostra vita di lettore, la stessa e un’altra. L’eterno ritorno è una garanzia d’immortalità (p. 164).

Un mito di oblio e ricordo, di cambiamento perenne, di indefessa trasfigurazione e rigenerazione.

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