Recensione a: E. Mazzarella, Cerimoniale, Crocetti, Milano 2023, pp. 180, € 15,00.
L’Opera sesta – 2020-2022, seconda parte di questa silloge, è l’opera più coraggiosa del poeta e filosofo Eugenio Mazzarella. È infatti l’opera sulla morte. Che non teme di cantare il tempo al suo estremo andirivieni tra l’essere stato e il non essere più. La precede Cerimoniale – 2014-2020, nel quale non è questione di un posto nello spazio, di un luogo in cui deporre finalmente il proprio strazio, ma è questione del posto che l’umano e il poeta stesso occupano nel tempo. Come è possibile abitare un tale luogo? Il tempo, infatti, il suo battito, è l’altro nome del niente. E questo Mazzarella lo sa bene: «Cammina tra le cose l’agile niente […] Solo l’attimo è fermo» (p. 12). E «di minuto in minuto / Cammina il giorno nella sua rovina […] Non torna niente, / Essere fonte è già essere foce / Ogni secondo che accade, / Irreversibile» (p. 21).
Cenere che assale, fiume che va, ferita della sera, silenzio che riposa, sono alcune delle immagini che il poeta disegna per indicare l’essere del vivente dentro il mondo e il destino di ogni cosa dentro l’essere. «Io vedo il fiume andare / Ma non so la montagna e non so il mare» (p. 81); il risultato è che «non si torna. […] Il senso è questo traffico col niente» (p. 132). Ciò che di personale c’è in questa vicenda è del tutto secondario. Poesia e filosofia mirano entrambe all’universale e sono l’universale. Mazzarella constata quindi che la struttura antropologica ha costruito sin dall’inizio un riparo non per coloro che sono ma per quanti sono stati: «Non riparo o giaciglio, / La prima casa costruita fu la tomba / Tumulo fossa monumento // Costruire fu memoria, ammonimento» (p. 51).
Opera sesta appare come questa casa, questo monumento, questo ammonimento. Una visionarietà dell’oltre ne attraversa i versi mentre è ben piantata nel qui e ora dell’effimero, del tempo. «Non è possibile», infatti, «non dover morire» (p. 139). Il poeta lo sa e da qui guarda «la mia età che va via. […] le ruote di Saturno […] l’assalto della cenere» (p. 127), il sé che si è dentro un cosmo che non conosce stasi, il sé che si è dentro «questa biglia lanciata nello spazio» che al pari dell’eone al quale si appartiene va inesorabilmente consumandosi (124), sino a una composizione nella quale vede con lucidità l’accadere delle cose e degli affetti di fronte alla sua assenza, al cospetto dell’«inevitabile faccenda» (p. 153).
C’è qualcosa di assai più che visionario in tutto questo, c’è qualcosa di più che visionario nel libro che porta il titolo di Cerimoniale. C’è la forza antica e fondatrice del mistico. Mistica è stata sin dall’inizio la poesia di Mazzarella, che qui mostra senza più esitazioni, pudore e maschere la sua potenza nel testimoniare una realtà ultima e indicibile e che però i versi esatti e scabri di questo poeta sanno dire. La «nuova maniera con cui canti» (p. 125) è tale visione. Cosmica come in Giordano Bruno «di finito in finito l’infinito» (p. 99); teoretica nel rivolgersi «alla forma delle cose» (p. 23), fecondamente contraddittoria nell’affermare «Ora so tutto. Non chiedetemi cosa. / Non è niente. Solo un fiume al suo mare. / Il vuoto è dappertutto. Lo sapranno» (p. 141) e insieme «Non sono venuto a capo di nulla // Non ho capito il dolore» (p. 161).
Emerge in questi versi un dolore quasi immedicabile, una sofferenza che trasuda, un disagio inesorabile nell’esserci e tuttavia c’è qualcosa che di sé può dire «non ho bruciato invano l’universo. / Vi basterà l’angoscia di passare, / Anche di qui c’è luce» (p. 27). Luce che si fa gloria, ultima parola anche nella Grande Dimenticanza descritta e oltrepassata in una delle composizioni finali della silloge, un regno dell’oblio nel quale entrano tutte le ombre dei vivi, «Il dissiparsi / Il cauto cadere delle cose / L’attutito rumore del frastuono / L’ampia distesa / Il più ristretto amore / L’ordine e il consiglio / Questa neve di cose che si sfanno / Lacrimate miserie / E gli attimi splendore della gloria / Si allontanano i Soli / E tutto resta un giro» (p. 164).
Una composizione, quella appena letta, che ha l’incedere e il passo del riscatto e che però non chiude l’opera mistica di Mazzarella, la cui conclusione è ancora più enigmatica e fascinosa nell’oscillare del Poemetto che la sigilla tra la fede che l’artefice sia buono e l’ammettere che forse è gnostica l’ultima parola, quella che a un Dio che ha prodotto tanto male può infine solo e semplicemente perdonare: «Quando cominciarono le cose / La Sapienza era accanto e vedeva / Che non tutto girava / Nei cieli delle sfere / Come doveva. / Che non tutto era musica / O Silenzio. / C’era un suono sordo / Non previsto. […] E l’artefice è stanco, / Anche di loro. / Non ricorda perché cominciò / Che cosa lo mosse / Che cosa ne sperava / Semplicemente forse / Non ce la faceva a stare fermo. / Ma era buono. / Lo ha amato per questo / E ancora oggi lo perdono» (p. 166).
Una storia millenaria di saperi, la loro lucidità e la loro forza, si condensa e si scioglie in questi versi esatti e commoventi, che si fanno meditazione dalla quale il lettore viene scosso, coinvolto e pensato nella miseria che tutti ci accomuna e che la teologia poetica di Eugenio Mazzarella sa plasmare in forma di parola. «Nel ventoso mondo dei venti / Un aquilone un filo teso / Stella stabilita del cammino» (p. 158).