Alfonso Lanzieri (1985) è dottore di ricerca in filosofia dal 2017. Attualmente insegna filosofia presso la Facoltà Teologica di Napoli e l’ISSR “Duns Scoto” di Nola-Acerra. Si interessa principalmente di filosofia della conoscenza e filosofia della mente. Ha pubblicato saggi, articoli e monografie, tra cui Pensiero e realtà. Un'introduzione al "realismo critico" di Bernard Lonergan (Mimesis, 2017); Il corpo nell'anima. Henri Bergson e la filosofia della mente (Mimesis, 2022).

Nel dicembre dell’anno scorso, il proprietario di Twitter, Elon Musk, una delle persone più influenti del pianeta, ha pubblicato sul proprio account la locandina di Matrix, celebre film incentrato su un gruppo di umani “risvegliati” che mirano a liberarsi dal mondo fittizio in cui sono stati imprigionati dalle macchine intelligenti. La frase che accompagnava l’immagine era, più o meno: «Il solo modo di scappare da Matrix è scordarti tutto ciò che hai pensato fino ad ora e ricostruire l’intero sistema delle tue credenze basandoti sul pensiero critico». Sembra una sorta di riscrittura dell’inizio del Discorso sul metodo di Cartesio.

Il tweet è emblematico perché perfettamente in linea con un sentiment oggi assai diffuso, che porta molti individui a vedere un complotto delle élite dietro molti accadimenti storici. È il modo con cui una fetta di persone molto ampia cerca di rispondere a una realtà sempre più confusa, caotica e instabile. Il filosofo Zizek, in Guida perversa all’ideologia, ha sintetizzato bene il sentiment di cui sopra: «Quando indossi gli occhiali, intravedi una dittatura nella democrazia, l’ordine invisibile che sostiene la tua apparente libertà». Una certa quota di persone (imprenditori, politici, intellettuali) sa benissimo che può estrarre valore da tutto ciò. Ne sono consapevoli padroni del social, i politici, gli agenti di comunicazione. Parlate con uno di questi ultimi e vi spiegherà che per accumulare ospitate in tv o a eventi dovete essere portatori di una posizione “alternativa”, facile da piazzare nel mercato dell’attenzione.

In questa Era del Sospetto (come l’ha definita lo scrittore Raffaele Alberto Ventura, in un saggio sul quale torneremo), in tanti credono di aver indossato finalmente gli occhiali giusti per vedere l’ordine (cospirazione) sotto il disordine di superficie. Poiché i complotti esistono, le democrazie hanno le loro faglie di non-democrazia, e chi detiene il sapere “legittimo” ovviamente non è sempre all’altezza del compito, ecco che il sospetto universale – che sa ragionare solo per assoluti – trova continuamente conferme e sfocia o nella divisione manichea in bene e male (che naturalmente è capovolta rispetto alla versione percepita come “ufficiale”) o nell’equiparazione di tutto con tutti in una scepsi radicale di taglio qualunquista. In entrambi i casi, ringrazia chi sa guadagnare da questa situazione. Il problema grosso è che questo rende le nostre società sempre più instabili e stressa molto le istituzioni di ogni tipo. Ritengo che tale questione non sia leggibile solo in termini di psicologia delle masse (uso l’espressione in modo lasco) ma abbia a che fare con un modello di ragione che, dopo alcuni secoli, è arrivato al limite massimo della sua resa e necessita di una messa a punto.

Nella prima parte di questa riflessione ho provato a esplicitare la natura di quello che ho definito il “pathos dell’immediatezza”, che mi pare essere una postura intellettuale (ma con ricadute estremamente concrete in ambito sociale e politico) molto diffusa in questi anni. Ho cercato di mostrare come tale forma mentis abbia a che fare con il modo singolare col quale oggi si suole cogliere la “forma” dei fenomeni e come tale sguardo impedisca un pensiero del nostro tempo capace di una reale presa sul mondo. È ancora dalla percezione della forma che intendo partire, chiamando in causa Maurice Merleau-Ponty, che sul tema ha scritto pagine decisive. Semplificando un po’ le cose (mi scuso con gli specialisti) possiamo dire che per il filosofo francese il corpo incarnato è garante del legame tra il soggetto e il mondo. Tale rapporto, però, non giunge a consapevolezza a partire da un’inferenza logica ma anzitutto da un’esperienza di auto-affezione:

Quando la mia mano destra tocca la mia mano sinistra – scrive Merleau-Ponty – io la sento come una “cosa fisica”, ma nello stesso momento, se voglio, si produce un evento straordinario: ecco che anche la mano sinistra si mette a sentire la mano destra. […] Pertanto, io mi tocco toccante, il mio corpo compie “una specie di riflessione”. Nel corpo, e per mezzo suo, non c’è solo rapporto a senso unico di colui che sente con ciò che egli sente: il rapporto si inverte, la mano diventa toccante, e io sono obbligato a dire che in questo caso il tatto è diffuso nel corpo, che il corpo è “cosa senziente”, “soggetto-oggetto” (Segni. Fenomenologia e strutturalismo, linguaggio e politica. Costruzione di una filosofia).

Quella descritta è un’esperienza pre-logica e pre-categoriale in cui albeggia quella zona di fusione tra senziente e sentito, psiche e materia, che con Merleau-Ponty possiamo chiamare la “carne” del mondo.

Il filosofo francese mostra come dalla percezione si arrivi a un essere che si sottrae costitutivamente ad ogni pretesa di fondazione definitiva della nostra esperienza del mondo. Quest’ultima riposa su quella «fede percettiva del mondo» che è «la nostra esperienza, più vecchia di qualsiasi opinione, di abitare il mondo mediante il nostro corpo, la verità con tutti noi stessi, senza che ci sia da scegliere e nemmeno da distinguere tra la certezza di vedere e quella di vedere il vero» (Il visibile e l’insivisibile). Ogni interrogare postumo (anche un iperbolico dubbio sull’esistenza stessa del mondo) sarà pensabile solo a partire da questo grembo primario impossibile da fondare concettualmente ma che sperimentiamo da principio come un senso affidabile. Con Husserl possiamo anche chiamare in causa la Urdoxa, la credenza originaria che il mondo c’è, la realtà mi avvolge da ogni lato e si offre alla mia esperienza.

Da quanto detto, allora, induco un elemento fondamentale per il nostro discorso: ogni giudizio sul mondo è possibile a partire da una fiducia iniziale nella realtà. Questa ci interpella originariamente e in ogni istante: i diversi significati che diamo agli elementi del mondo sopraggiungono sull’accoglienza di questa certezza fiduciale. Mi rendo conto che l’ultima espressione può sembrare paradossale. Sì, perché perlopiù siamo abituati a ritenere che la certezza e la fiducia camminino su due binari diversi; invece, come ho cercato di mostrare fugacemente fin qui, la certezza non è anzitutto o solo quella della coerenza logica.

Il discorso di Merleau-Ponty può apparire ai non addetti ai lavori come una riflessione iper-specialistica fine a sé stessa ma in realtà il pensatore francese stava cercando un modo alternativo di pensare le basi della nostra esperienza del mondo rispetto al modello di ascendenza cartesiana che ha dominato la filosofia moderna (e in buona parte i saperi moderni). Non proprio un’impresa piccola. E in effetti è in quella biforcazione seicentesca, all’inizio della modernità, che bisogna cercare, a mio parere, una nuova linfa per la ragione contemporanea. A Cartesio che cercava la certezza indubitabile da cui partire per ricostruire l’intero impianto del sapere, individuandola nel Cogito, Pascal rispondeva:

Noi conosciamo la verità non soltanto con la ragione, ma anche con il cuore. In quest’ultimo modo conosciamo i princípi primi; e invano il ragionamento, che non vi ha parte, cerca d’impugnare la certezza. I pirroniani, che non mirano ad altro, vi si adoperano inutilmente. Noi, pur essendo incapaci di darne giustificazione razionale, sappiamo di non sognare; e quell’incapacità serve solo a dimostrare la debolezza della nostra ragione, e non come essi pretendono, l’incertezza di tutte le nostre conoscenze. Infatti, la cognizione dei primi princìpi – come l’esistenza dello spazio, del tempo, del movimento, dei numeri –, è altrettanto salda di qualsiasi di quelle procurateci dal ragionamento. E su queste conoscenze del cuore e dell’istinto deve appoggiarsi la ragione, e fondarvi tutta la sua attività discorsiva.

Quando Pascal parlava del cuore, non intendeva contrapporre alla ragione un tumultuoso principio sentimentale, cieco a ogni logica; intendeva piuttosto criticare una visione razionalistica della ragione, che misconosceva il radicamento esistenziale di quest’ultima, cui l’uomo può acconsentire con la propria fiducia razionale senza la quale non c’è evidenza razionale. Sul criterio dell’evidenza separata dalla volontà e dalla fiducia, ad avviso di chi scrive, si è costruita una vera e propria mitologia. Se ne era occupato anche un importante esponente della filosofia analitica, Wolfgang Stegmüller, in una bellissima opera dal titolo Metafisica, scetticismo e scienza (si veda in particolare la seconda edizione del 1969), in cui sosteneva che «la mia personale coscienza non è la suprema istanza soltanto nelle decisioni etiche, ma anche in quelle scientifico-oggettive, apparentemente del tutto desoggettivizzate». In tal senso, superando Kant, «non si deve eliminare il sapere per fare posto alla fede. Si deve piuttosto già credere in qualcosa per poter in generale parlare di sapere e di scienza». È importante rimarcare, se non fosse sufficientemente già chiaro, che tale fiducia si trova entro il perimetro della ragione.

Quanto fin qui detto – se ha una sua fondatezza – si connette a uno dei problemi principali del nostro presente socio-politico, che per semplicità racchiudo nel termine “cospirazionismo”, evidenziato in apertura. Ed è qui che torniamo a Raffaele Alberto Ventura e al suo bel libro La guerra di tutti. Populismo, terrore e crisi della società liberale, del 2019.

Oggi è come se tutti avessimo indossato gli occhiali di John Nada – scrive Ventura  ̶  il protagonista del film Essi vivono, o ingoiato la pillola rossa di Matrix. Per alcuni coincide con un libro sacro, un blog alla moda, un predicatore televisivo, ognuno con la sua narrazione alternativa capace di riempire i vuoti di senso lasciati dal sapere detto “legittimo” e considerato di fatto sempre meno legittimo. Non sappiamo se quello che abbiamo visto sotto la superficie delle cose è vero o falso, sappiamo soltanto che fornisce una spiegazione a una realtà sempre più confusa. Ognuno ha la sua verità, ognuno i suoi nemici.

Il complotto dei vaccini, il terrapiattismo, la teoria di QAnon, i cadaveri della strage di Bucha in Ucraina che in realtà sarebbero figuranti. Per dirla ironicamente: non crediamo più in Dio, ma neanche nel New York Times. In scia con le analisi di Ventura, possiamo racchiudere i motivi di tale rottura cognitiva (che però ha conseguenze concretissime) nel risentimento di una fetta consistente della popolazione, per la quale la promessa di benessere e riconoscimento sociale fatta dal progressismo democratico, figlio degli ideali illuministi, non si è realizzata. Questo ha messo in crisi le cornici interpretative che tenevano “in forma” il mondo fino più o meno all’inizio degli anni 2000. Lo scontento porta a un rifiuto generalizzato di tutto quanto è ritenuto mainstream. Non a caso, nelle urne, negli ultimi anni hanno spesso trionfano proposte politiche che si sono presentate anche solo vagamente come alternativa allo status quo. In tal modo esplode il conflitto tra interpretazioni della realtà più o meno paranoiche:

L’era della post-verità – scrive Ventura – non è dunque un tempo di ignoranza ma di stupidità, quella stupidità prodotta dal sospetto generalizzato e da una fiducia eccessiva nelle proprie capacità. Questa stupidità s’incarna in quelli che consideriamo dei principi fondamentali: lo spirito critico, la disintermediazione del sapere e la sua circolazione, che hanno come doppi oscuri lo scetticismo, il sovraccarico informazionale e i meccanismi di polarizzazione.

Quel che dobbiamo ritrovare, perché l’abbiamo persa, sarebbe una nuova rappresentazione del mondo condivisa che, per quanto approssimativa, possa ridare legittimità alle istituzioni democratiche, verso le quali è ormai endemica la diffidenza.

La diagnosi di Ventura è stimolante e fenomenologicamente azzeccata, ma occorrono alcune puntualizzazioni. «La fiducia sta alla base del funzionamento delle istituzioni democratiche – scrive il nostro autore – proprio come la fede era per Cartesio necessaria per fondare la conoscenza e sopprimere il dubbio iperbolico». Il dubbio iperbolico, se non superato, è dissolutore del mondo e dell’ordine sociale. Alla fine, serve una “fede” che dia certezza. Il problema, per me, è che Ventura pone la fiducia al di fuori della ragione. Citando il titolo di un romanzo di Flaubert, lo scrittore italiano chiede: «Quid est veritas? Non ci metteremo mai d’accordo su questo, ed è precisamente segno della follia di Bouvard e Pécuchet il fatto di volerla abbracciare nella sua totalità».

In altri termini, la nuova rappresentazione che questo tempo di transizione aspetta, suggerisce Ventura, non sarà più vera di quella del vecchio ordine ma semplicemente una finzione, una nuova narrazione, che supererà il test costi-benefici meglio di quella precedente, ormai esaurita. Il difetto di questa visione consiste anzitutto nel partire da una concezione assolutistica di “verità” (conoscere la totalità) che non è l’unica possibile. È vero, su tantissime cose non siamo d’accordo, e le civiltà nascono, crescono e muoiono. È anche vero, però, che il cammino dell’umanità accumula esperienze e tracce che concorrono, certo dopo una scrematura anche molto severa, a determinare un patrimonio di convinzioni che rappresenta un minimum di verità comuni per larga parte dell’umanità.

In secondo luogo, non si capisce come una rappresentazione del mondo – quella degli ultimi tre secoli di sviluppo in occidente – abbia potuto avere una presa sul mondo così efficace, senza contenere anche elementi solidi di aggancio alla realtà: sarebbe un fondamento troppo friabile. La verità è questo rapporto, che ha bisogno di continua manutenzione. Ma, come anticipato in precedenza, oltre tutto questo, c’è un aspetto più profondo da considerare, che i richiami filosofici di Ventura autorizzano ad evocare. Ad essere entrato in crisi è un modello di ragione che ha escluso la fiducia da sé come qualcosa di irrazionale. Sarebbe una storia lunga da raccontare, ma forse si potrebbe cominciare dalla biforcazione di cui si è detto, quando agli albori della modernità l’esprit de finesse pascaliano è stato guardato con sospetto, come fosse una sospensione del criterio cartesiano dell’evidenza chiara e distinta, ritenuto il solo degno tutore di una ragione che doveva guidarci verso l’eliminazione dell’imprevisto e il dominio della natura. Imboccare questa strada ci ha regalato un controllo enorme sulle cose e un benessere da non demonizzare, ma oggi ne avvertiamo anche tutto il cosiddetto “effetto iatrogeno”. Le nostre istituzione, l’organizzazione del nostro sapere e della nostra economia, sembrano faticate sotto il peso delle soluzioni da noi stessi escogitate su quel modello di ragione che forse richiede una manutenzione. La porta più promettente da cui entrare per operare tale manutenzione è proprio quella estetica: Merleau-Ponty (certo non solo lui), l’aveva meritoriamente intuito.

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