Avvocato e dottore in Scienze storiche. Ha al suo attivo pubblicazioni sul federalismo ("Le origini del federalismo: il Covenant”, 1996; "Il sacro contratto. Studio sulle origini del federalismo nordamericano", 1999). Ha inoltre pubblicato "Sovranità. Teologia e sacro alle origini di una categoria politica" (2015); "Il regime alimentare dei monaci nell'alto medio evo” (2017), “Paura e Rivoluzione francese nell’opera di Guglielmo Ferrero” (2021). Inoltre ha curato la riedizione del volume di Guglielmo Ferrero "Palingenesi di Roma antica” (2019). E' autore di articoli e relatore in convegni di studio.
Recensione a
Le idee del sovranismo. Miti, suggestioni e immaginario della destra identitaria
a cura di A. Di Mauro
Editrice Pagine – I libri del Borghese, Roma 2021, pp. 190, € 18.00.
Al profluvio di instant books che dominano l’effimera pubblicistica si aggiunge oggi Le idee del sovranismo, una raccolta di trentacinque interviste condotte da Alessio Di Mauro (direttore del giornale satirico «Candido») con personaggi a vario titolo vicini al sovranismo di destra. Alcuni degli intervistati sono personaggi politici di primo piano (Giorgia Meloni; Gianluigi Paragone); altri, esponenti notissimi del giornalismo non allineato (Marcello Veneziani; Camillo Langone; Massimo Fini; Francesco Borgonovo); non mancano studiosi, scrittori, cantautori, artisti. Insomma: un panorama estremamente variegato. Le interviste sono raccolte in cinque aree tematiche (Cos’è la destra? Cos’è la sinistra?; Villaggio globale; Chi sono io per giudicare?; Dietro la lavagna; Sei un mito). Come tutti gli instant books il volume paga lo scotto di una certa superficialità compensata però dall’immediatezza dei messaggi e la freschezza colloquiale dello stile.
Anziché ripercorrere le arcinote posizioni politiche del sovranismo illustrate nelle interviste pare preferibile focalizzarsi sul momento specificamente culturale perché in quest’ambito (spesso trascurato dalla pubblicistica corrente) è possibile cogliere meglio l’originalità (e anche il fascino) di taluni aspetti del composito universo “identitario”.
I maestri ideali sono chiari e espliciti. I nomi di Giovanni Gentile, Filippo Tommaso Marinetti, Julius Evola, Ernst Jünger, ma anche Ezra Pound e Yukio Mishima ricorrono con frequenza nei vari contributi. L’adesione alla tradizione è sfaccettata, ricchissima di distinguo e di precisazioni e di volta in volta contestualizzata. Si prenda il contributo del giovane editore Daniele Dell’Orco, la cui casa editrice Idrovolante ha recentemente pubblicato di Mishima La difesa della cultura: una scelta coraggiosa in un panorama editoriale che di Mishima predilige le opere narrative e ignora i suoi scomodi e anticonformistici testi di saggistica. Mishima resta una figura ineludibile di riferimento per gli intellettuali non allineati al discorso globalista. La sua morte, preparata come una rappresentazione tragica, lancia un messaggio sempre attuale, come ci ricorda Dell’Orco: «non c’è nulla che valga più della tradizione e dell’identità primordiale. Nemmeno la vita stessa» (p. 95) Posizione estrema, come estremo è il grido di protesta contro l’aggressivo e fintamente egualitario discorso culturale mondialista, protagonista dell’odierno processo di erosione delle identità di nazioni, popoli, comunità (e individui: le teorie del gender formano parte integrante della strategia del globalismo).
Giovanni Gentile non poteva che campeggiare tra i maestri di riferimento: egli è il filosofo più gettonato dell’area. Lo è, per esempio, per Marcello Veneziani («Gentile è stato il filosofo che ha pensato l’Italia e il suo popolo; in lui c’erano le basi filosofiche di una destra sociale e nazionale» che oggi chiamiamo sovranista – p. 20) ma lo è anche per l’intellettuale Corrado Ocone, un liberale distante dal fascismo storico. Ocone, fortemente critico dell’opportunismo di fondo che segnò la “svolta” di Fiuggi del 1995, coglie con finezza il pluralismo intrinseco e contraddittorio nel fascismo storico e lo fa proprio con riferimento alla filosofia gentiliana («Il fascismo di Gentile era vissuto dal filosofo come una sorta di inveramento del liberalismo risorgimentale. Eppure egli fu anche uno dei maggiori teorizzatori dello Stato corporativista», p. 41). Come già il fascismo, anche l’odierno sovranismo è ricco di sfumature e contraddizioni, e non per questo risulta meno vivo e meno alternativo al pensiero unico globale. E a proposito di liberalismo e filosofia di Gentile, anche un altro liberale come Giancristiano Desiderio manifesta nostalgia per la riforma gentiliana della scuola. Secondo lui la scuola italiana potrà evitare il bàratro solo con un recupero integrale di «quello che era il cuore della concezione gentiliana, cioè l’interesse e la motivazione degli alunni» (p. 134). La scuola gentiliana perseguiva l’obiettivo della larga e profonda formazione umanistica incentrata sui valori culturali e spirituali – che oggi sono stati completamente sacrificati nel nome di esigenze di carattere pratico-legale (il conseguimento del “pezzo di carta”) e tecnico-economico (formazione grettamente funzionale all’avviamento professionale). La riforma gentiliana si è dissolta nel livellamento verso il basso mascherato di aderenza pratica alle esigenze del mercato del lavoro. Le idee di quella riforma hanno perso la battaglia più di cinquant’anni fa; e tuttavia esse offrono un’alternativa permanente, e forse proprio per questo ritornano con insistenza negli altri interventi (di M. Cimmino e M. Ruggeri, autore del libello Giù le mani dal liceo classico) dedicati al sistema educativo e al suo (inarrestabile?) degrado.
L’altro “mostro sacro” dell’universo identitario è un artista che continua a far parlare di sé: F.T. Marinetti. Egli si sottrae ai tentativi di etichettarlo in un qualche modo esaustivo. Crocevia tra arte, pensiero, politica e tecnica, Marinetti simboleggia molto bene, nonostante la distanza cronologica che ci separa da lui, la vivacità, le contraddizioni, le aspirazioni, le irrequietezze dei sovranisti del XXI secolo. A prima vista si fa fatica a cogliere nel futurismo di Marinetti e degli altri artisti a lui affini di quella lontana generazione un legame con la tradizione, l’ideale archetipico e quel “senso del sacro” che secondo il curatore del volume costituirebbe «un tassello chiave, attorno al quale ruotano tutti gli altri» tasselli della destra identitaria (p. 184). Eppure per molti degli intervistati Marinetti resta punto essenziale di conferma identitaria, se non proprio esistenziale. Per esempio Roberto Genovesi, il noto scrittore di genere fantasy (sua la saga della Legione Occulta, popolarissima tra i millennials alternativi ma anche tra quelli apolitici) si rifà esplicitamente al Manifesto del Futurismo del 1909, che già a quei tempi aveva esaltato la sconcertante (e per i benpensanti urtante) simbiosi del linguaggio multisensoriale «nel quale la scrittura si fonde con l’immagine, con la musica, col suono e persino con esperienze tattili» (p. 152), esattamente come avviene oggi tra i millennials cresciuti a indigestione di social, internet e iPad. Ma – a differenza delle neo-lingue standardizzate e impoverite del politically correct – il linguaggio nuovo multisensoriale non contraddice ma anzi potenzia la tradizione archetipica. «Il mio obiettivo – ci ricorda Genovesi – è quello di raccontare i miti attraverso il linguaggio moderno. I puristi se ne facciano una ragione» (p. 152). Considerazione molto futurista. E lo spirito di Marinetti fa capolino anche nel contributo di Graziano Cecchini, artista neo-futurista e acerrimo spregiatore dell’arte-intrattenimento, dell’opera artistica degradata a merce. L’epoca attuale segna il trionfo del dis-gusto, ossia della mercificazione estetica all’ennesima potenza in quanto globalizzata. L’epoca piccolo-borghese dell’estetica convenzionale, contro cui combattevano i futuristi e prima di loro gli scapigliati, è oggi sostituita dal globalismo ma le sregolate e pugnaci istanze artistiche, estetiche e di puro godimento intellettuale che ispirarono Marinetti e i suoi conservano nella loro essenza pieno valore. Vanno solo aggiornate e ricontestualizzate. D’altronde un neo-futurismo che si rifacesse pedissequamente al futurismo “classico” scadrebbe al ruolo di “passatista”, negherebbe cioè lo spirito più autentico di Marinetti. L’”arte sovranista” (se è lecito utilizzare tale espressione) non si compiace di canoni estetici dei tempi che furono ma fugge in avanti, nel segno delle figure archetipiche del mito e della ribellione aristocratica antifilistea, come già osò la modernità futurista. Marinetti riempì di lirica l’elettricità e la velocità delle macchine nel sussulto di una modernità che voleva recidere i legami con le asfittiche e meschine certezze borghesi; ma quella era una modernità tutta tesa alla trascendenza e al nietzscheano superamento di sé, a differenza della modernità tecnocratica e materialista che si crogiola nel dominio dell’anonimo inumano algoritmo universale. Come le avanguardie futuriste, anche la nuove avanguardie sovraniste – ci dice Eugenio Rubei, direttore artistico, jazzista e organizzatore delle kermesse internazionali di Villa Celimontana – traducono il ribellismo aristocratico in un linguaggio musicale incentrato sul “vitalismo primordiale” e su una musica ricondotta alle sue funzioni primigenie di rottura delle rassicuranti convenzioni quotidiane: una musica dionisiaca, connessa alla ritualità e al sacro, una musica antiaccademica come il jazz – genere non a caso importato in Italia dai futuristi e apprezzato dalle avanguardie fasciste.
Completata la lettura delle 35 interviste si resta perplessi e storditi dal caleidoscopio di idee originali frammiste a luoghi comuni tipici del dibattito politico di corto respiro. Ma a chi separi il grano dal loglio, a chi operi la dissezione delle idee più originali e ricostruisca la loro genesi storica, il libro regalerà un sapore verace di dis-allineamento e un retrogusto di qualità che invano si cercherebbero nelle centinaia di altri instant books.