Lorenzo Paudice (1975) si è laureato in Filosofia presso l’Ateneo fiorentino nel 2002, discutendo la tesi La questione del valore in bioetica. Dal luglio 2004 al settembre 2010 ha collaborato con la SISMEL – FEF (Società Internazionale per lo Studio del Medio Evo Latino – Fondazione Ezio Franceschini) alla redazione centrale per la realizzazione di Medioevo latino. Bollettino bibliografico della cultura europea da Boezio a Erasmo (sec. VI-VII). Nell’a.a. 2015-2016 è stato Docente Incaricato di Storia della Filosofia Antica presso la Facoltà Teologica “San Gregorio Magno” del Monastero Ortodosso di San Serafino di Sarov presso la facoltà di Filosofia dell’Università degli Studi di Firenze. Attualmente è impegnato in un personale lavoro di ricerca e approfondimento storico-teorico del pensiero di L. Wittgenstein e dei maggiori esponenti novecenteschi dell’ordinary language philosophy (in particolare G. Ryle e J.L. Austin).

Nella notte tra il 1 e il 2 Novembre del 1975 Pier Paolo Pasolini veniva assassinato sulla spiaggia di Ostia. Il 22 Novembre dello stesso anno il Festival del Cinema di Parigi presentava postumo in anteprima Salò o le 120 giornate di Sodoma, l’ultimo lungometraggio del poeta e regista friulano, che in tal modo diveniva (suo malgrado) anche un film-testamento. In Italia sarebbe arrivato il 10 Gennaio del 1976, con il prevedibile strascico di polemiche e provvedimenti giudiziari: il produttore Alberto Grimaldi finì sotto processo per oscenità e corruzione di minori, e la pellicola venne sequestrata fino al 1978. Tuttavia la leggenda nera di Salò – con Ultimo tango a Parigi di Bertolucci il grande film “maledetto” del cinema italiano degli anni Settanta – era iniziata ancora prima della sua uscita, non solo per le difficoltà di lavorazione (dovute principalmente all’imbarazzo degli attori, professionisti e non, nell’interpetare le scene più “forti”), ma anche per il misterioso furto di alcune bobine – con conseguente richiesta di riscatto – tra il 14 e il 18 Agosto del 1975. Almeno fino agli anni Novanta (quando comincerà ad uscire in vhs persino nelle edicole) resterà un’opera per molti versi interdetta ai più, tanto spesso citata quanto difficilmente reperibile e visionabile. La versione integrale restaurata edita dalla Cineteca di Bologna, proiettata in anteprima mondiale a Cannes nel 2015 e poi distribuita in dvd, ha inoltre fatto giustizia delle numerose dicerie circa presunte sequenze-shock all’epoca tagliate ed ancora esistenti: se mai ci furono sono andate perdute, ma decisamente il film così com’è basta e avanza…

A distanza di mezzo secolo Salò rimane una pellicola sconvolgente ed estrema, a tratti quasi insostenibile. Stupri, pederastia, coprofagia, torture, mutilazioni ed esecuzioni: nulla è lasciato all’immaginazione dello spettatore. Nessuno prima di Pasolini aveva osato tanto: mai prima di allora la degradazione dei corpi ad opera del Potere, il pervertimento della sessualità in strumento di violenza e dominio dell’uomo sull’uomo erano stati rappresentati in maniera tanto esplicita, radicale e lucida, mai più lo saranno in seguito. Ispirandosi liberamente a Le 120 giornate di Sodoma (1785), romanzo postumo e incompiuto di Donatien Alphonse Francois de Sade (1740-1814), egli – con i cosceneggiatori Sergio Citti e Pupi Avati, non accreditati – lo attualizza all’epoca contemporanea, da un lato  proponendone una lettura allegorico-politica, dall’altro accentuandone le ascendenze dantesche, e dunque ristrutturandolo in un Inferno terrestre scandito in un Prologo-Antinferno, tre Gironi (delle Manie, della Merda, del Sangue) e un Epilogo. Se nella cosiddetta  Trilogia della vita (Il Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle Mille e una notte) Pasolini aveva inteso ritrarre ed esaltare l’erotismo come espressione libera e gioiosa delle classi subalterne, Salò avrebbe dovuto invece costituire il primo capitolo di una Trilogia della morte nella quale mettere in scena il trionfo definitivo e apocalittico della moderna Società dei Consumi, segnata dalla mercificazione totale e irreversibile dei corpi e delle coscienze. Il sesso sadomasochisto diviene così metafora orrenda della disumanizzazione neo-capitalista, che investe in pari misura vittime e carnefici: la vitalità emancipatoria dell’eros si rovescia in oppressione abietta e mortifera, all’insegna di una coazione gratuita e (auto)distruttiva.

Fondamentale è a questo riguardo la nozione pasoliniana di ‘anarchia del potere’. Il Potere in quanto tale tende di per se all’anarchia, ovvero all’assenza di limiti: laddove si manifesti nella più completa impunità – come nel caso dei quattro Signori del film, rappresentanti rispettivamente il potere politico, ecclesiastico, giudiziario ed economico – esso non potrà che negare ed annichilire ogni progresso ed ogni dinamica storica di liberazione ed emancipazione. La stessa Repubblica Sociale Italiana assume quindi in Salò una valenza essenzialmente simbolica, e qualsiasi interpretazione del film in senso storico e realistico (come quella a suo tempo avanzata da Moravia nella propria recensione) manca il bersaglio. Certo Pasolini, da buon marxista, vedeva effettivamente nel nazifascismo il braccio armato della borghesia, e dunque dovette riuscirgli naturale eleggerlo a paradigma dell’odierna società tardo-capitalista. In ogni caso Salò non è un film sul fascismo repubblichino né su qualunque altro specifico regime politico del passato o del presente, ma una “sacra rappresentazione” – blasfema e turpe – sul Potere in generale, nella sua dimensione metafisica. Ciò è reso evidente anche da alcuni ostentati anacronismi, ad esempio i dialoghi infarciti di citazioni di autori anni Sessanta come Barthes, Klossowski etc.

La qualità astratta e simbolica (pur nella sua raccapricciante crudezza) dell’opera per un verso ne rivela l’impianto brechtiano – volto a sollecitare non l’immedesimazione ma il distacco critico dello spettatore – e per l’altro riflette il carattere iperbolico della narrazione sadiana, difficilmente traducibile in immagini (come acutamente osservò Calvino) se non su un piano mentale ed onirico. Facendo del “Divino Marchese” in qualche modo un precursore di Auschwitz, Pasolini peraltro suscitò l’irritazione di quanti vedevano nel testo di Sade – concepito e composto in carcere – fondamentalmente una fantasia liberatoria, e lo accusarono dunque di averne frainteso e tradito lo spirito. Alla verbosità affabulatoria dell’autore francese, la sua ossessione (illuministica?) relativa ai dettagli e alle prescrizioni cerimoniali corrispondono in Salò una cura e un rigore formali senza precedenti per Pasolini, grazie anche alla splendida fotografia di Tonino Delli Colli, alle suntuose scenografie di Dante Ferretti ed ai costumi di Danilo Donati. La bellezza e l’eleganza di Salò a livello figurativo contrastano volutamente con la sua materia oscena e repellente, così come il decor borghese degli arredi e delle opere d’arte nella villa-lager di Marzabotto fa da stridente cornice alle atrocità consumate fra le sue mura.

Anche (anzi, a maggior ragione) quando è più anarchico, il Potere ha bisogno di imporre e imporsi un ordine, una regola: da qui la ferrea disciplina che governa minuziosamente le orge nel loro sistematico crescendo di sevizie e torture. Quello di Salò è un universo concentrazionario autonomo e chiuso in se stesso, retto da una logica inflessibile quanto arbitraria e imperscrutabile: nel Prologo-Antinferno viene appunto comunicato alle giovani vittime che nessuno potrà salvarle perché esse sono ormai morte al  mondo ed alle sue leggi (morali e giuridiche). Ma la disciplina in oggetto vale per tutti gli occupanti della villa, inclusi gli stessi Signori. È in questo senso che il Potere Assoluto diviene Coazione Universale: il Sesso e il Crimine – per antonomasia, le due forze antagoniste rispetto ad ogni ordine ed ogni legge – assumono la forma dell’Ordine e della Legge, proprio per rivendicare la capacità del Potere di sottrarsi ad ogni norma o logica ad esso estranea (la “libertà obbligatoria” di cui cantava Gaber?). Di nuovo, il referente polemico più immediato di Pasolini non può che essere costituito – in linea con la sua battaglia ideologica – dalla società liberal-capitalista, non solo per ragioni di attualità, ma anche e soprattutto perché soltanto in essa la dialettica in esame sembra essersi realizzata compiutamente. La civiltà borghese moderna ha distrutto tutte le culture precedenti – fondate sul Sacro e sulla Tradizione – in nome della Libertà (anche sessuale), del Progresso e del Mercato, ma unicamente per affermare la logica nichilista e oggettificante del Potere – economico in primis – senza più limiti di sorta.

Le sequenze forse più famigerate e pregnanti di Salò hanno a che fare con la coprofagia (Dacia Maraini notò in proposito che esse risultano addirittura più disturbanti delle scene di stupro). Nella sezione conclusiva e culminante del Girone della Merda, tutti i personaggi del film banchettano – chi più, chi meno volontariamente – con le proprie feci, raccolte e conservate all’uopo nelle precedenti giornate. La valenza metaforica è evidente e indiscutibile, seppure suscettibile di letture differenti. La merda – ovvio il richiamo, anche lessicale, a Dante – rappresenta il residuo ultimo della digestione, ciò che resta di un alimento dopo che esso è stato privato di tutte le sue qualità nutritive. La prima e più plausibile allusione sembra dunque essere all’economia delle società consumistiche, obbligate in qualche modo a cibarsi dei loro escrementi (ovvero, a generare e consumare merci superflue e scadenti per perpetuare il proprio ciclo produttivo). Ma forse c’è un significato più sottile e profondo. L’atto coprofagico appare in qualche modo come un’inversione del naturale processo alimentare di manducazione-assimilazione-defecazione. Ora, il Potere, nella misura in cui non riconosce alcuna realtà o legge sopra di sé, non può che rifiutare la Natura, alla pari del Sacro (in Salò, ogni più piccolo atto di devozione religiosa è punito con la morte). Quindi la coprofagia – insieme al sesso anale, che contraddice la funzione procreativa dell’eros – può in un certo senso essere vista come il trionfo del Potere sulla Natura, l’apoteosi del Piacere fine a se stesso, senza apertura alla Vita (ovvero, al Sacro), e perciò autodistruttivo.

Si è spesso osservato – e suggerito in quanto precede – che in Salò, paradossalmente, nemmeno le giovani vittime appaiono del tutto esenti da una qualche complicità con i propri carnefici. Sebbene indifese, inermi e impotenti esse, tranne rare eccezioni (il ragazzo comunista, verso il finale), non sembrano neppure tentare di ribellarsi o sottrarsi al proprio destino. Alcune di loro poi, notoriamente, ricorreranno alla delazione nella speranza – assurda e vana – di avere salva la vita. Anche questo elemento va interpretato simbolicamente, alla luce del messaggio che Pasolini intende trasmettere. Il Potere disumanizza e corrompe non solo chi lo esercita impunemente, ma anche coloro che lo subiscono. Meglio: esso non è mai tanto assoluto e disumano come quando si esercita con il consenso (reale o apparente) di questi ultimi. Così nelle odierne democrazie capitalistiche i cittadini-consumatori hanno l’illusione di essere liberi e felici. Al tempo stesso, vi è un’assuefazione delle coscienze alla violenza, specie se esercitata con una parvenza di diritto (Legge e Ordine…). Questo aspetto chiama in causa direttamente lo spettatore di Salò. La pellicola di Pasolini – dicevamo – è durissima e spesso difficile da sostenere, eppure figurativamente bellissima. Se è vero che non è un film pornografico e dunque non sollecita nello spettatore gli istinti perversi che rappresenta, è però innegabile che costui ricava comunque un certo piacere (quanto meno estetico-intellettuale) dalla sua visione. Inoltre, per buona parte del film i ragazzi di ambo i sessi che interpretano le vittime appaiono sullo schermo completamente nudi. Seppur un tale spettacolo ci suscita pena ed orrore, non possiamo non notare che anche i giovani in questione sono bellissimi ed hanno corpi perfetti. Insomma, sia pur in misura minima, noi stessi ci scopriamo complici involontari e recalcitranti degli aguzzini e del loro sadismo. Questo vale per ogni opera d’arte (cinematografica e non) che rappresenta la violenza, ma in grado estremo per Salò, non solo – banalmente – perché si tratta di uno dei film più violenti mai realizzati, ma anche perché l’orrore che mette in scena è un modo per parlare dell’orrore della società nella quale viviamo, e nei cui confronti siamo in qualche modo conniventi o accondiscendenti. Opera profondamente morale, Salò sfida i limiti di ciò che è rappresentabile sul grande schermo per costringerci ad interrogarci sulla moralità del nostro stesso sguardo, sulla sua complicità e/o assuefazione al male nella nostra esistenza quotidiana. Un’eredità tanto più preziosa in tempi di voyeurismo virtuale, di violenza e pornografia dilaganti in Rete.

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