Stefano Brugnolo (1956) e si è laureato nel 1980 a Venezia sotto la direzione di Francesco Orlando, ha insegnato Letterature comparate, e dal 2009 è docente di Teoria della letteratura presso l’Università di Pisa (dal 2018 in qualità di professore ordinario). Si è occupato e ha scritto di autori e testi appartenenti a varie tradizioni linguistiche e nazionali. Si è occupato di umorismo, della relazione tra scritture scientifiche e scritture letterarie, di letteratura coloniale, del soprannaturale in letteratura, di letteratura delle periferie, di retorica e stilistica. Ha scritto vari libri, tra cui: La tradizione dell’umorismo nero (1994), La letterarietà dei discorsi scientifici (2000), La tentazione dell’Altro. Avventure dell'identità occidentale da Conrad a Coetzee (2017), Dalla parte di Proust (2022) e Rivoluzioni e popolo nell’immaginario letterario italiano e europeo (2023).

Il pensatore più citato negli studi filosofici e letterari è senz’altro Michel Foucault. Lo si evoca continuamente come una specie di Aristotele (ipse dixit) degli studi contemporanei.

Ora, io penso che diversamente da altri maestri del pensiero francese, come Derrida o Deleuze, Foucault sia un pensatore più “solido”, con cui vale la pena confrontarsi seriamente. Eppure, credo che varrebbe la pena problematizzare certe sue idee che vengono troppo spesso prese come verità indiscutibili. Il che è quasi buffo se si pensa che Foucault non ha fatto altro che criticare l’idea di verità.

Foucault in effetti è stato molto criticato dagli storici di professione perché molti di loro hanno ritenuto le sue ricostruzioni piuttosto inattendibili se non dilettantesche. Si pensi soltanto al suo saggio sulla Storia della Follia, largamente privo di un apparato documentale appropriato (in compenso Foucault si avvale dei testi letterari come se fossero documenti probanti). È però interessante notare come lui ha risposto a queste critiche che lo avevano evidentemente scosso. Invece che difendere i risultati delle sue ricerche egli ha adottato una strategia alternativa, che è contemporaneamente di attacco e di difesa.

Lo ha fatto rivendicando che le sue opere dovevano essere prese come delle “finzioni”, come dei romanzi, e non come degli studi tesi a dimostrare qualcosa sulla base di prove documentali. Lo ha detto e scritto tante volte. Vi cito almeno dei passi:

le persone che mi leggono in particolare quelle che apprezzano ciò che faccio mi dicono spesso ridendo “in fondo tu lo sai molto bene che quello che tu dici non è che finzione”. E io rispondo sempre: “Certo che sì, non ho scritto mai altro se non delle finzioni” (Entretien avec Michel Foucault, in D. Defert, F. Ewald et J. Lagrange (dir.), Dits et écrits 1954-1988, vol. IV 1980-1988, p. 46).

Dove la parola “fiction” significa anche e proprio creazione letteraria. Come a dire: i miei non sono studi scientifici ma romanzi. Va bene, ma chiediamoci: è così che li prendono i suoi ammiratori? E come si spiega che lo stesso Foucault abbia reagito polemicamente alle obiezioni che gli sono state fatte circa la poca attendibilità storica delle sue ricerche? Non avrebbe potuto rivendicare la sua libertà di inventare finzioni?

Comunque, in un’altra occasione, rispondendo ad una intervista sulla natura e le caratteristiche della sua opera Foucault ribadisce il concetto:

Quanto al problema della finzione, è un problema molto importante per me; mi rendo ben conto che non ho scritto altro che delle finzioni (Les rapports de pouvoir passent à l’intérieur des corps, in D. Defert, F. Ewald et J. Lagrange (dir.), Dits et écrits 1954-1988: III 1976-1979, p. 236).

Attenzione, ciò non significa che Foucault non voglia essere preso sul serio (Foucault voleva essere preso molto, molto sul serio e per lo più ci è riuscito) perché lui s’affretta a dire che ciò «non significa che la sua opera sia fuori dalla verità» (Foucault, ibidem).

Come a dire che sì, lui è consapevole di “fare finzione”, ma si tratterebbe di una “finzione” che dice il vero, o quanto meno non è estranea alla verità. E nel 1980, durante un colloquio intitolato Foucault Examines Reason in Service of State Power, Foucault riconosce di praticare «una specie di finzione storica»:

so bene di non essere veramente uno storico: non sono nemmeno un romanziere. Pratico una sorta di finzione storica. In un certo senso so bene che ciò che dico non è vero […]. Cerco di provocare una interferenza tra la nostra realtà e ciò che sappiamo della nostra storia passata. Se ci riesco questa interferenza produrrà degli effetti reali sulla nostra storia presente. I miei libri diventano veri una volta che sono scritti non prima (Foucault étudie la raison d’État, in D. Defert, F. Ewald et J. Lagrange (dir.), Dits et écrits 1954-1988, IV 1980-1988, p. 41).

D’altra parte, già nel 1967, in una intervista con Raymond Bellour, Foucault sostiene che Les mots et les choses «è una pura e semplice finzione», «un romanzo» (M. Foucault, Sur les façons d’écrire l’histoire, in D. Defert, F. Ewald et J. Lagrange (dir.), Dits et écrits 1954-1988, I vol.,  p. 586).

Più chiari di così non è possibile, no? Ma ci si può tornare a chiedere: è così che lo intendono i suoi tantissimi ammiratori? Quando si cita quel testo, Le parole e le cose, lo si fa o perché si ritengono vere certe sue affermazioni oppure perché esse vengono ritenute romanzesche?

Nessuno le prende come discorsi romanzeschi, che io sappia, ma anzi sono in molti a sottoscriverle come assolutamente attendibili. Secondo il filosofo della politica Michael Walzer, Foucault era sì, a quanto pare, consapevole di scrivere delle finzioni, ma…

Allo stesso tempo, egli ha molti lettori che sembrano credere che le sue genealogie sono accurate e anche indiscutibili, e ci sono suoi studiosi e seguaci che approfondiscono le linee di ricerca che lui ha inaugurato. I suoi libri sono pieni di formulazioni che si propongono come plausibili qui ed ora. Scrive proposizioni di tipo dichiarativo sebbene lui ami molto le forme interrogative e quelle al condizionale, così che spesso i suoi argomenti hanno il carattere di insinuazioni. Esse sono in ogni caso rinforzate da frequenti note a piè di pagina e con erratiche ma (lui assicura) scrupolose documentazioni. Così chi legge è portato a pensare che lui vuole che chi lo legge creda a quel che scrive [M. Walzer, The Politics of Michel Foucault, in Hoy, D.C. (ed.), Foucault: A Critical Reader, Basil Blackwell, Oxford 1986, p. 52].

È una questione cruciale dei nostri tempi, quella dei confini labili tra discorso oggettivo e discorso di finzione: molti autori dell’iper-modernità hanno spesso giocato con il loro lettore lasciandolo per così dire incerto circa il valore di verità (o meno) dei loro scritti.

Quando Derrida scrive «il n’y a pas d’hors texte», «non ce niente fuori dal testo», come dobbiamo prendere questa sua affermazione: come una dichiarazione “seria” o come un paradosso alla Oscar Wilde? Insomma, la domanda ingenua che fa il lettore a questi testi è: devo credere a quel che scrivi? devo pensare che tu vuoi farmi credere alla verità di quel che scrivi? oppure no, il tuo è un gioco, una provocazione? ebbene certi autori rispondono con una sorta di marameo, con un sì che potrebbe essere anche un no, con un “chissà”…

Altrove Foucault per riuscire a bypassare questo bivio si inventa dei neologismi come il verbo “funzionare”. Scrive:

Mi sembra che ci sia la possibilità di far funzionare la finzione nella verità, di indurre degli effetti di verità con un discorso di finzione, di far sì che il discorso di verità susciti, fabbrichi qualcosa che non esiste ancora, e che dunque esso “finzioni” (fictionne). Si “finziona” della storia a partire da una realtà politica che la rende vera, si “finziona” una politica che non esiste ancora a partire da una verità storica (M. Foucault, Les rapports de pouvoir passent à l’intérieur des corps, cit., p. 236).

“Finzionare” significa dunque qualcosa come immaginare delle altre possibilità di realtà e di esistenza. Foucault non crede alla possibilità di “fare verità” bensì a quello di “fare finzione”; non crede cioè nella possibilità di fare un discorso oggettivo, “vero” sul passato e sul presente e intende invece proporre delle finzioni o dei miti che possano scuotere, destabilizzare, cambiare il presente.

In un’altra occasione lui scrive quanto segue a proposito della sua Storia della follia:

So bene che ciò che ho fatto, da un punto di vista storico, è parziale, esagerato. Può essere che io abbia ignorato certi elementi che mi contraddirebbero. Ma il mio libro ha avuto degli effetti sui modi con cui la gente percepisce la follia. E dunque il mio libro e la tesi che vi sviluppo hanno una verità nella realtà di oggi. (M. Foucault, Foucault étudie la raison d’État, cit., p. 805).

A me pare una dichiarazione piuttosto sconvolgente: Foucault dice che sì, certo, lui ha esagerato e ha trascurato certi dati storici, ma così facendo ha modificato il nostro modo di percepire la follia. Potremmo dire che il suo “funzionare” ha funzionato, e che le sue sono delle “finzioni effettive”.

Ora, è vero, Foucault ha modificato il nostro modo di percepire e intendere la follia, ma il prezzo da pagare è stato un consapevole tradimento della verità storica, in nome di valori pratici e “militanti”, in nome di un qualche cambiamento politico e sociale (anche se non si comprende bene quale). E Foucault continua così:

Il mio problema non è di soddisfare gli storici professionali. Il mio problema è di fare […] una esperienza di ciò che noi siamo, di ciò che non è solo il nostro passato, ma anche il nostro presente, una esperienza della nostra modernità tale per cui noi ne usciamo trasformati (Foucault, Entretien avec Michel Foucault, cit., p. 44).

Ancora una volta il problema della attendibilità storica è messo da parte a favore di un tipo di scrittura che produca degli “effetti reali” sulle vite dei lettori. Il che mi pare come minimo discutibile. Ma Foucault per giustificare questa sua poca cura del fattuale a tutto favore del “funzionale” proclama che non scrive dei «libri-verità» o dei «libri-dimostrazione», bensì dei «libri-esperienza» (ivi, p. 47)

In un’altra occasione dirà che «i miei libri sono per me delle esperienze, nel senso più letterale del termine. Un’esperienza è qualcosa da cui usciamo trasformati» (in D. Trombadori, Colloqui con Foucault. Pensieri, opere, omissioni dell’ultimo maître-à-penser, Castelvecchi, Roma 2005). Non sono cioè degli scritti in cui Foucault espone i risultati delle sue ricerche, sono appunto delle “esperienze” che mirano prima di tutto a trasformare l’autore e poi il lettore. Il loro valore non dipende da criteri come vero/falso, ma dagli “effetti reali” che producono nella vita dell’autore/lettore.

Ora, in effetti forse la lettura di un romanzo può essere ritenuta una “esperienza” in cui non ci preoccupiamo certo se l’autore “dimostra” una qualche “verità”; ma la lettura di un saggio che pretende di dirci come s’è imposta in Occidente l’idea di malattia mentale può accontentarsi di essere considerato solo come una “esperienza” di tipo esistenziale? Non è questo un modo per impedire al lettore di provare a stabilire se quel che Foucault scrive è attendibile o no? Non è un modo per mettersi al riparo da critiche “oggettive””, specifiche?

Come ha scritto lo storico Allan Megill, Foucault non deve, non può, non intende essere preso sul serio come storico, come uno studioso che prova a ricostruire in modo il più possibile attendibile il nostro passato. Se lo facciamo, non possiamo che scoprire difetti anche gravi nelle sue ricostruzioni di quel nostro passato. Egli deve però essere preso sul serio come creatore di finzioni e cioè di miti «intesi come armi nelle lotte sociali e politiche contemporanee».

In questo senso Foucault condivide il pensiero di Nietzsche, come sostiene sempre Megill:

Le storie di Foucault sono esplicitamente presentate non come rappresentazioni di una verità letterale concernente il passato. Esse non mirano a ritrarre il passato “così come esso di fatto si svolse”. Tutt’al contrario esse hanno la funzione di creare dei miti. Foucault accetta, nei suoi scritti tardi, la nozione di storia (history) di Nietzsche come di qualcosa che propaga, o dovrebbe propagare miti che saranno utili nel presente (A. Megill, Prophets of Extremity: Nietzsche, Heidegger, Foucault, Derrida, University of California Press, Los Angeles 1985, pp. 234-235).

In altre parole, il valore di Foucault sta nell’essere stato un fabbricatore di miti capaci di smuovere le coscienze al fine di cambiare lo stato di cose presente. Non è così che però lui viene per lo più letto e inteso, ahimè, se sto a quella che è diventata una sorta di scolastica foucaultiana messa in circolazione dai suoi ammiratori.

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