Avvocato e dottore in Scienze storiche. Ha al suo attivo pubblicazioni sul federalismo (Le origini del federalismo: il Covenant, 1996; Il sacro contratto. Studio sulle origini del federalismo nordamericano, 1999). Ha inoltre pubblicato Sovranità. Teologia e sacro alle origini di una categoria politica (2015); Il regime alimentare dei monaci nell'alto medio evo (2017), Paura e Rivoluzione francese nell’opera di Guglielmo Ferrero (2021); Un nuovo romanticismo per il nuovo secolo (2024) . Inoltre ha curato la riedizione del volume di Guglielmo Ferrero Palingenesi di Roma antica (2019). E' autore di articoli e relatore in convegni di studio.
Recensione a
R. Catanoso, Hannah Arendt. Imprevisto ed eccezione. Lo stupore della storia
Giappichelli, Torino 2019, pp. 315, €42.00.
Su Hannah Arendt è fiorita una letteratura critica ricca e articolata e che si infoltisce col trascorrere degli anni: monografie, articoli scientifici, studi interdisciplinari dedicati all’antica allieva di Heidegger e Jaspers si contano ormai a centinaia e testimoniano la profondità e complessità di pensiero della scrittrice nonché il perdurante interesse che il suo lascito suscita tra gli studiosi e presso tutti coloro che si interrogano sui perché e sulle dinamiche del mondo contemporaneo.
Oggi a questa letteratura critica aggiungiamo il recente saggio della giovane studiosa Rosaria Catanoso. Un lavoro robusto, informatissimo, con puntuali rimandi alle pagine della Arendt ma anche alle fonti del pensiero della filosofa e alle varie letture e interpretazioni proposte da altri studiosi. Il saggio di Catanoso non pretende di illustrare per filo e per segno l’opera omnia di Arendt ma persegue il più circoscritto obiettivo di analizzare alcuni snodi particolari del pensiero arendtiano alla luce delle concezioni e metodologie storiche elaborate dalla stessa Arendt. Il sottotitolo del volume chiarisce subito a cosa l’Autrice intenda riferirsi: Imprevisto ed eccezione. Lo stupore della storia. Il nucleo concettuale più originale di Arendt è individuato nell’insistenza sulla imprevedibilità delle vicende umane, sul “nuovo inizio” intrecciato alla nascita di ogni nuovo essere umano foriero a sua volta di imprevedibilità e libertà. Alle ferree leggi delle deduzioni e concatenazioni logiche astratte applicate dai grandi sistemi filosofico-ideologici alla storia (cioè alla vita) Arendt contrappone l’imprevedibile, l’eccezione, lo stupore dei nuovi inizi e la libertà delle contingenze e dell’empirìa della vita activa. Il valore profondo della filosofia di Arendt, scrive Catanoso, consiste «nella valorizzazione assoluta della libertà umana, libertà di dare inizio all’inatteso e al nuovo, libertà di scegliere e, se liberi, di giudicare» (p. 7).
Il saggio di Catanoso si articola in quattro capitoli (L’umanità al cospetto delle rovine della storia; Con il totalitarismo. La deflagrazione di storia e politica; Un “nuovo inizio” per la politica e per la filosofia; Giudicare: responsabilità storico-politica ed etica) ciascuno dei quali preso in sé costituisce un possibile oggetto di studio autonomo e conchiuso. Nel complesso il libro esamina i diversi passaggi, secondo un criterio tematico ma anche – soprattutto nei capitoli 3, 4 e 5 – a grandi linee cronologico, del pensiero arendtiano. Accanto alle fondamentali Origini del totalitarismo, Vita activa, La via della mente la studiosa fa ampio ricorso alle opere spesso e frettolosamente giudicate “minori” da parte della letteratura critica. Così, per esempio, nel primo capitolo: Catanoso valorizza i bellissimi saggi di Arendt specificamente dedicati al concetto di storia e alla metodologia storica (pubblicati a suo tempo sotto il titolo Between Past and Future) e, dopo aver condotto un serrato confronto con le Tesi della filosofia della storia di Walter Benjamin (autore al quale la Arendt deve pur qualcosa, e certo non poco) e, sul terreno più empirico, con gli scritti metodologici e “di mestiere” di Marc Bloch e storico-filologici del Droysen, illustra con dovizia di particolari la refrattarietà di Arendt a letture teleologiche e deterministiche della storia. La contingenza, il caso singolo, l’evento imprevisto «interrompono il moto circolare della vita quotidiana nello stesso senso in cui il bios rettilineo spezza il moto circolare della vita biologica», come scrive la stessa Arendt.
La storia diviene così per Arendt la storia delle fratture, la storia dell’irruzione dello straordinario, del “nuovo inizio” che ogni vita porta con sé. Imprevedibilità significa libertà dagli schemi precostituiti e da ogni ideale di totalità della storia, sia esso di segno hegeliano (quale dispiegamento dialettico del Geist dal bene al meglio) o estrinsecazione del materialismo dialettico. La storia, mette in guardia Arendt, non è il risultato inevitabile di un già dato né un processo regolato da leggi meccaniche perché ogni nuova vita racchiude in sé infiniti possibili e imprevedibili nuovi inizi. Da qui l’estrema cautela richiesta allo storico quando maneggia l’insidiosa categoria della causalità in relazione ai singoli fatti storici.
E se il totalitarismo si staglia come fatto storico “principe” del Novecento, lo studio che Arendt dedica alle origini di questo fenomeno non stabilisce cause e effetti, come nota Catanoso. Antisemitismo, razzismo, imperialismo, società di massa sono fenomeni storici distinti dal totalitarismo e che nel totalitarismo semmai si cristallizzano ma non lo causano. Il totalitarismo lumeggia bene, al negativo, l’idea arendtiana dell’irruzione dell’inaudito nella storia perché «il significato storico di quanto successo trascende la catena causale delle vicende» (p. 93), catena causale che vive più nella testa dei filosofi idealisti e dei cattivi storici che nella complessità del reale e nell’irriducibile singolarità dei fatti. Persino il Leviatano di hobbesiana memoria ha poco a che spartire col totalitarismo.
Molto chiare e persino avvincenti le pagine che Catanoso dedica alla problematica hobbesiana in Arendt: Hobbes, si sa, per Arendt è filosofo eminentemente borghese; i sudditi del Leviatano rinunciano allo spazio pubblico in cambio della sicurezza, essi costituiscono una aggregazione di individui isolati e privati, liberi nella loro sfera di produrre, vendere e comprare. Il Leviatano incute paura a fini utilitaristici ma si mantiene indifferente alle libertà private; esso non anticipa in niente, neppure nella paura pubblica, lo Stato totalitario novecentesco. Se proprio si vuole indagare una origine indiretta del totalitarismo, questa è identificabile nell’ideologia, ossia etimologicamente nella “logica di una idea”. Tutte le ideologie – comprese le più liberali – contengono elementi totalitari «sia per la loro pretesa di spiegazione globale sia per la loro tendenza a emanciparsi dall’esperienza e dalla realtà in virtù della logica inerente alla loro idea» (p. 131): ancora una volta, si evoca qui la contingenza empirica e imprevedibile della libertà contro la dilatazione abnorme del ragionamento di tipo logico deduttivo che nei totalitarismi raggiunge il limite estremo e si fa regime. Il totalitarismo: un “nuovo inizio” esso stesso che ha preteso di negare gli altri infiniti possibili “nuovi inizi” dell’imprevedibilità sino a cancellare nei campi di sterminio e nei gulag la spontaneità, dignità e identità delle vittime, riducendole a un indistinto materiale organico.
Arendt è nota al grande pubblico non tanto per i suoi studi sul totalitarismo e le opere di maggior impegno teoretico (Vita activa e La via della mente, cui Catanoso dedica rispettivamente il bel capitolo terzo e l’altrettanto interessante capitolo quarto), quanto per aver coniato l’efficace formula “la banalità del male”. Il suo libro del 1963, dedicato al processo di Gerusalemme intentato contro Adolf Eichmann, ha incontrato un successo editoriale mondiale, ne sono state tratte riduzioni cinematografiche e ancora oggi cattura l’attenzione dei lettori non specialisti. Il saggio di Catanoso riserva adeguato spazio a quest’opera della Arendt e alla sua interpretazione dell’emblematica figura del funzionario nazista Eichmann. Sul banco degli imputati Arendt non scorge il mostro della radicale malvagità totalitaria (che lei stessa aveva così brillantemente evocato e tratteggiato nelle Origini), ma il prodotto umano più banale e conformista delle odierne società di massa e amplificato sino al parossismo dai regimi totalitari. Quella del funzionario Eichmann, piccolo ingranaggio nella macchina dello sterminio degli Ebrei, è la spaventosa normalità dell’uomo incapace di pensiero critico e di indipendenza di giudizio: un automa deresponsabilizzato e adoratore di feticci chiamati Potere e Legalità positiva.
Perché il “caso Eichmann” conserva intatto un valore esemplare anche per il mondo d’oggi? Egli visse in un’epoca in cui i valori morali (pubblici e privati) tradizionali si stavano rapidamente dissolvendo. Di fronte a una situazione nuova, inattesa, inaudita e sconcertante, a un tragico “nuovo inizio” Eichmann (cioè una intera generazione che in quest’individuo trova una epitome) rinunciò alla pretesa della libertà, cioè al pensare criticamente; si astenne dal cercare in se stesso nuovi codici morali; scelse (ammesso che di scelta possa parlarsi, posto che il processo avvenne inconsapevolmente) il congedo da ogni giudizio. In una parola: si conformò al nuovo mondo del totalitarismo, egli, perfetta «figura simbolo di quanti facilmente si adattano ai nuovi codici di comportamento senza pensare» (p. 227).
«Senza pensare»: qui sta la radice del male (“banale” e no) sulla quale Arendt torna di continuo anche nelle altre sue opere, come Catanoso ricorda bene. Quando, nello spazio politico pubblico ma anche in quelli di ambito privato, noi non ci soffermiamo a pensare a ciò che facciamo, a una ricognizione intellettuale cioè della vita activa, quando non siamo più vigili di fronte all’empirìa del contingente, all’irruzione del nuovo e dell’inatteso, all’imprevedibilità della vita e dei suoi nuovi inizi, è serio il rischio di degradare in tanti Eichmann, tipi umani non di esclusivo appannaggio del totalitarismo ma presenti e potenzialmente maggioritari in ogni gruppo umano organizzato. Il pensiero critico, il pensiero attivo diventa “strumento etico” di opposizione al conformismo, cioè all’anticamera di un mondo privo di libertà. È questa, ci pare, l’eredità più viva e attuale di Hannah Arendt che il saggio di Rosaria Catanoso ci aiuta a riscoprire.