Alfonso Lanzieri (1985) è dottore di ricerca in filosofia dal 2017. Attualmente insegna filosofia presso la Facoltà Teologica di Napoli e l’ISSR “Duns Scoto” di Nola-Acerra. Si interessa principalmente di filosofia della conoscenza e filosofia della mente. Ha pubblicato saggi, articoli e monografie, tra cui Pensiero e realtà. Un'introduzione al "realismo critico" di Bernard Lonergan(Mimesis, 2017); Il corpo nell'anima. Henri Bergson e la filosofia della mente (Mimesis, 2022).

Negli ultimi anni è diventata molto famosa la parola “infosfera”, diffusa nel linguaggio pubblico in particolare dal filosofo italiano Luciano Floridi. Tale termine vuole designare il nuovo ambiente in cui vive l’uomo contemporaneo grazie alle enormi trasformazioni portate dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT, dall’inglese: information and communications technology). Questo nuovo ecosistema è frutto di un mutamento radicale. Se Copernico, Darwin e Freud hanno scalzato l’uomo, rispettivamente, dal centro dell’universo, dal centro della natura e dal centro del proprio Sé, la rivoluzione delle tecnologie dell’informazione sposta l’uomo dal centro del mondo in quanto essere intelligente: «Stiamo lentamente accettando l’idea, che si fa strada a partire da Turing, per cui non siamo agenti newtoniani, isolati e unici, come una sorta di Robinson Crusoe su un’isola. Piuttosto, siamo organismi informazionali (inforg), reciprocamente connessi e parte di un ambiente informazionale (infosfera), che condividiamo con altri agenti informazionali, naturali e artificiali, che processano informazioni in modo logico e autonomo».

Il cambiamento è ormai penetrato nella consapevolezza comune. «Le vere domande consistono casomai nel chiedersi perché, come e con quali conseguenze, soprattutto in relazione all’IA». Quest’ultima, infatti, secondo Floridi, pone un divorzio tra la capacità di svolgere un compito con successo e la necessità di essere intelligente per farlo. In altre parole, dice il filosofo italiano, quella che chiamiamo “intelligenza artificiale” non è intelligenza. L’IA è capace di svolgere come e meglio degli esseri umani compiti che richiedono grandi risorse computazionali ma relativamente poche in termini di abilità, compiti che si basano su regole costitutive anziché vincolanti. La differenza si può spiegare con un confronto tra gli scacchi e il calcio: «Entrambi sono giochi, ma negli scacchi le regole stabiliscono le mosse valide e non valide prima che sia possibile una qualsiasi attività di tipo scacchistico; perciò generano tutte e solo le mosse accettabili. Mentre nel calcio un’attività precedente – come calciare un pallone – è “regolamentata” o strutturata da regole che arrivano dopo l’attività. Le regole non determinano né possono determinare le mosse dei giocatori, ma pongono semplicemente limiti a quali mosse siano “valide”». L’IA imita l’intelligenza umana: è in grado di svolgere compiti come se fosse intelligente, un po’ come una lavastoviglie che è capace di lavare i piatti come se a svolgere quel compito fosse un essere umano.

L’IA appartiene dunque al genere degli strumenti. Questo non diminuisce il suo carattere rivoluzionario. Se non è vero che ogni strumento rappresenta un salto evolutivo, è vero che ogni salto evolutivo non può prescindere dalla nascita di uno strumento. La nostra comprensione della trasformazione in atto è solo agli inizi, come spiega Peter Sloterdijk:

Si comincia a capire che (e come) la “materia informata” o il meccanismo più sviluppato possono produrre prestazioni parasoggettive, fino a simulare intelligenza progettante, capacità di dialogo, spontaneità, flessibilità. Viceversa diventa chiaro che numerose manifestazioni delle istanze tradizionali della soggettività e di anima erano solo dei meccanismi sovrainterpretati.

Il nodo su cui concentrarsi, però, è quel divorzio tra intelligenza e capacità di svolgere un compito già messo in luce. Secondo Floridi, ChatGPT, ad esempio, è un agire sine intelligere. A lui hanno replicato Riccardo Manzotti e Simone Rossi, in un saggio dal titolo Io & IA: Mente, Cervello e GPT: per costoro, invece, si dovrebbe piuttosto parlare di un intelligere sine agere, dal momento che l’azione presuppone un soggetto che agisce, mentre l’intelligenza, o almeno una parte di questa, può anche essere la manifestazione di un modo di organizzare la realtà. Che si accetti l’una o l’altra versione, l’IA sembra poter essere concepita come comportamento intelligente (o che simula l’intelligenza) senza una coscienza. Una sorta di mente senza soggetto, una mente, cioè, che opera senza la consapevolezza di una soggettività che intuisce sé stessa in prima persona. Le macchine ci permettono di delegare loro tutta una serie di attività (para)intelligenti che altrimenti avremmo dovuto svolgere noi, e per giunta con risultati meno entusiasmanti. Manzotti e Rossi hanno scritto, non senza ragione, che «ci siamo abituati a quest’uso impersonale del termine “intelligenza”. Abbiamo le lavatrici intelligenti, le porte intelligenti, persino le bombe intelligenti (su questo ci sarebbe da discutere ovviamente). Intelligente è, semplicemente, una parte della realtà (lavatrice, porta o macchina più complessa) in grado di articolare il rapporto tra cause ed effetti in modo efficiente rispetto a un qualche obiettivo prefissato».

Eccoci giunti al problema cruciale: chi e in che modo fissa l’obiettivo? È evidente che questo debba essere il compito nostro. Su ciò non si può però peccare di ingenuità: gli strumenti non sono neutri, hanno un valore performativo. In altri termini, essi non si limitano ad essere mezzi ma dettano anche nuovi fini. Da ciò segue che il rapporto uomo-macchina deve essere pensato in modo da scongiurare due estremismi. Da una parte, va evitata ogni ingenua impostazione antropocentrica di un umanesimo radicale, che concepisca la tecnica come mera appendice dell’uomo. L’uomo è sì produttore di strumenti ma, nello stesso tempo, è anche plasmato dagli strumenti stessi. Dall’altra parte, però, risulta anche impraticabile un postumanesimo radicale, per il quale l’uomo dovrebbe guardare a sé come mera appendice della macchina e assecondare tutte le realizzazioni della tecnica: portata alle sue ultime conseguenze, questa idea dissolve il problema morale stesso. Le concezioni estreme hanno sempre il loro fascino teorico, tuttavia, di fronte alla bomba atomica  ̶  tanto per fare un esempio facile  ̶  anche il più sfrenato postumanista diverrebbe moderato.

Stando attenti a non cadere nei due estremi descritti, per inquadrare la questione possiamo richiamare una dualità evidenziata dal filosofo francese Henri Bergson: quella dell’intelligenza e dell’intuizione. L’intelligenza, spiega Bergson, è una facoltà connessa alle necessità dell’azione: essa prepara la nostra azione sulle cose, prevede sulla base della ripetizione dell’identico. L’intelligenza ritaglia degli “oggetti” nella continuità indivisa del reale (si pensi alla formazione dei concetti), impone degli schemi fissi, come altrettanti isolotti artificiali, più o meno stabili, poggiati sulla superficie delle acque perennemente mosse della realtà. Gli strumenti “intelligenti”, allora, servono ad agire sulla scia di questa funzione: non sono forse questi i nostri succedanei nello svolgimento di compiti connotati da una certa ripetitività? Per questo, dice Bergson, «l’intelligenza, considerata in ciò che sembra esserne il significato originario, è la facoltà di fabbricare oggetti artificiali, in particolare utensili atti a fare altri utensili, e di variarne la fabbricazione indefinitamente». Non a caso, lo abbiamo detto, l’IA è a proprio agio quando lavora in un ambito tendenzialmente stabile, fatto cioè di regole costitutive. L’intelligenza riconduce la realtà al massimo grado di regolarità possibile: lo strumento, allora, è una sorta di delegato della persona, che può muoversi con destrezza entro le maglie di quella regolarità perché costruito per quella funzione e inserito in uno spazio predisposto ad ospitarlo. Il soggetto così può mettersi da parte, sullo sfondo, a sorvegliare il processo, oppure dedicarsi ad altro. Ciò è tanto più vero da quando esistono quelle che Floridi chiama “tecnologie di terz’ordine” (tipiche della nostra età dell’infosfera): a questo stadio del sviluppo tecnologico, gli strumenti comunicato tra loro senza la necessità di un puntuale concorso umano.

A differenza dell’intelligenza, l’intuizione, spiega Bergson, è «godimento della differenza». Ciò vale a dire, che l’intuizione è «un concetto tagliato sulla cosa stessa, che non conviene che a essa»: espressione paradossale (per definizione il concetto accomuna più oggetti per il tramite di caratteristiche condivise) che vuole dire qualcosa di semplice. L’intuizione è scienza del particolare. Facendo un uso eretico del testo bergsoniano, avvicino tale intuizione a ciò che Blaise Pascal intendeva con “cuore” in relazione a “ragione”. Come ha mostrato in maniera per me convincente Alberto Peratoner, rilevante studioso italiano di Pascal, il binomio coeur e raison ricalca quello di intellectus e ratio dell’epistemologia di Tommaso d’Aquino (e non solo sua). Si tratta, rispettivamente, del momento intuitivo (l’insight, l’illuminazione della mente che esclama “ho capito!”) e di quello raziocinante e discorsivo (si pensi al concatenamento di concetti coi quali spieghiamo ciò che abbiamo compreso). Nella modernità, purtroppo, la ragione è divenuta sinonimo di “ragionamento”: il momento intuitivo è stato messo in ombra, sebbene grandi autori abbiano tentato di riabilitarlo. Ora, la cosiddetta intelligenza artificiale, al netto della problematicità di tale espressione, imita o incarna la parte raziocinante-discorsiva della ragione umana. Per l’intuizione, invece, è richiesto un soggetto conficcato nella carne del mondo, cosa che evidentemente la macchina non è. Solo l’intuizione può avere una scienza del particolare, una conoscenza immediata che non comincia già dalla manipolazione di simboli. E solo in forza dell’intuizione è possibile la fornitura di scopo alle macchine. Sono proprio le ragioni del cuore (che abbiamo accostato all’intuizione), a radicarci nella realtà («Il cuore sente che lo spazio ha tre dimensioni», scrive Pascal). È in tale piano della nostra esperienza che appare il “senso” positivo o negativo di una determinata configurazione di dati e di fatti, che ci decidiamo per ciò che crediamo giusto. A questo livello possiamo tentare, con tutti i limiti e le difficoltà, di disegnare la realtà secondo ciò che ci sembra preferibile, per farla combaciare con il perimetro designato dagli automatismi delle macchine. In questo punto, etica e creatività s’incontrano. Pascal inventò la “pascalina”, strumento precursore delle moderne calcolatrici, per aiutare nei calcoli il padre Etienne, intendente di finanza. Il giovane Blaise (era appena diciannovenne) riuscì a trasferire in uno strumento, in qualche modo, i mezzi per mimare il ragionamento necessario per i calcoli. Mai, però, avrebbe potuto infondere nella macchina l’intuizione che gli divampò dentro vedendo per l’ennesima volta l’amato padre stanco, a tarda sera, ancora chinato sui conti.

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