Lorenzo Morelli (1988) ha svolto i suoi studi a Roma presso la Luiss Guido Carli, dove nel 2012 si è laureato in Scienze Politiche. Nel 2013 ha ottenuto un dottorato di ricerca in Political History presso la Scuola Imt Alti Studi di Lucca e nel 2017 ha conseguito il titolo di Ph.D. Nel 2017/2018 ha ricevuto una borsa di ricerca all’Istituto Italiano per gli Studi Storici di Napoli ed è stato membro della commissione di valutazione del Concorso di Storia Contemporanea Milena Rombi. Nel 2019 ha ottenuto un assegno di ricerca dal Museo delle Culture di Lugano. Giornalista pubblicista, è autore di articoli scientifici e divulgativi sul pensiero politico moderno e contemporaneo.

Recensione a
G. Ferrero e L. Ferrero, La palingenesi di Roma antica

Saecula, Zermeghedo 2019, pp. 178, € 10,50.

10.5281/zenodo.3551487

I saggi introduttivi che arricchiscono questa riedizione dell’agile testo di Guglielmo e Leo Ferrero sono interessanti e soprattutto utili rispetto alla lettura di La palingenesi di Roma antica. I contenuti salienti della controversa ricezione critica di Ferrero – esposti in modo sintetico ed efficace da Lorenzo Petrosillo – sono infatti ben riconoscibili nel testo, la cui lettura ne conferma una generale fondatezza.

Il periodare disinvolto e scorrevole rivela facilmente l’estraneità di Ferrero rispetto al mondo accademico: un dato biografico che, come lascia intendere Petrosillo, è stato usato talvolta a pretesto dalla critica per svalutarne in parte l’opera e che pure, allo stesso tempo, si riconosce nel testo come una oggettività. Pur non rappresentando una diminutio – ché molti sono gli esempi di intellettuali e geni non universitari, così come di rado i grandi spiriti hanno asceso alle cattedre più alte – bisogna riconoscere che manca, a tratti, quella ponderatezza delle ipotesi e delle affermazioni che si rintraccia nella saggistica accademica e più istituzionale. Al suo posto si coglie talvolta un’indole sentenziosa che, pur corroborata da autorevolezza e competenza, lascia nel lettore il sospetto di una precipitazione nei giudizi. Questa caratteristica abbastanza tipica della prosa di Ferrero, riscontrabile già nei ponderosi volumi di Grandezza e decadenza di Roma antica, sembra farsi via via più visibile negli scritti dell’età più matura, fino a culminare in Potere – un saggio da riscoprire – in cui la prosa si fa a tratti particolarmente icastica, fino a sfiorare il lirismo.

In La palingenesi di Roma antica la riflessione di Ferrero si situa tra la storia politica e la storiografia, risalendo a Livio le rappresentazioni che la civiltà romana ha dato di sé e il ruolo che in esse è giocato dagli individui, dal pubblico potere e dalla religione. Sono pennellate veloci e dense di colore che riescono a comporre, in pochi tratti, l’autorappresentazione diacronica della civiltà latina che i grandi storici di Roma hanno contribuito a costruire, attingendo dall’inesauribile materia della vita. Ferrero interpreta e maneggia l’opera dei grandi storici romani con rispetto ma senza soggezione, con la disinvoltura che ci aspetta da chi si è già confrontato lungamente con la materia e, soprattutto, coevo al vitalismo post-nietzschiano, ha ben chiaro il rischio insito nella storia antiquaria. Quella “furia collezionistica” e quel “tanfo” che esala dalla “polvere delle quisquilie bibliografiche” – contro cui il filosofo tedesco aveva messo in guardia nella Seconda Inattuale – sono evidentemente ben chiari a Ferrero, che dimostra, nel bene e nel male, di sapere che la storia promana dalla vita e alla vita deve ritornare.

La storia è una scienza umana e come tale si confronta con le miserie e le grandezze dell’animo umano, che declinate in infinite combinazioni si ritrovano nei fatti storici, così come in chi è chiamato a raccontarli e interpretarli. Anche ogni idea sulla storia, infatti, nasce dalle medesime passioni e tensioni che alimentano la vita. Per questa ragione lo storico, secondo Ferrero – che pure è vissuto in epoca positivista – non può limitarsi a notomizzare i fatti né a collezionare documenti storici con l’acribia del filologo. L’ufficio fondamentale della scienza storica è piuttosto quello di svelare “nella farragine macchinosa degli eventi, negli intrecci inestricabili dei fatti, la semplicità delle passioni e delle idee da cui tutto procede e a cui tutto ritorna”.

Egli scruta il passato non per sterile sete di conoscenza, né per inseguire curiosità o fisime intellettuali, ma per mettersi al servizio della aristocrazia culturale e politica di una civiltà e fornire a essa – attraverso una ricostruzione del passato che non rinuncia al ritocco artistico ed estetico, soprattutto se funzionale allo scopo didattico – un “oggetto di meditazione”. È la differenza che passa tra lo studioso o l’erudito e l’intellettuale, che diversamente dal primo ha il diritto e il dovere di rielaborare la materia storica, pur senza alterarne il contenuto, allo scopo di metterla al servizio del presente. È una distinzione presente anche in Benedetto Croce – del cui contradditorio rapporto con Ferrero si fa menzione nel testo – quella tra filologo e storico o storiografo, cui ben si attaglia la similitudine con il rapporto che passa tra l’operaio – che predispone il materiale da costruzione – e l’architetto – che impiegherà e rielaborerà la conoscenza e il materiale a sua disposizione per costruire l’edificio finale.

Gli spunti metodologici appaiono interessanti e maggiormente degni di nota rispetto alla palingenesi di Roma antica evocata da Ferrero, che giunge fino a Machiavelli.

Quando parla della storia come dello studio delle passioni e delle tensioni eterne che agitano l’animo umano e la vita, Ferrero si spinge addirittura oltre, palesando orientamenti che hanno apparentemente ben poco a che fare con la cultura positivista e fiduciosa nel progresso nella quale si era formato. La storia gli appare infatti comprensibile per categorie di fenomeni, ancor più che come classica cronologia di eventi. Ciò è possibile a partire dalla considerazione che la natura umana non muta e anzi è sempre uguale a se stessa. A modificarsi sono il contesto e gli epifenomeni con i nomi e i luoghi, ma l’essere umano resta il medesimo, con la sua natura ben poco incline al bene e scarsamente perfettibile. Vi sono – egli ammette – eventi “nuovi” nella storia, unici e irripetibili. A queste “grandi eruzioni del nuovo” – come l’Impero Romano, il Cristianesimo, l’Islamismo, la Riforma e la Rivoluzione francese – che mutano il cammino della storia, la classificazione per categorie di fenomeni evidentemente non si applica.

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