Avvocato e dottore in Scienze storiche. Ha al suo attivo pubblicazioni sul federalismo (Le origini del federalismo: il Covenant, 1996; Il sacro contratto. Studio sulle origini del federalismo nordamericano, 1999). Ha inoltre pubblicato Sovranità. Teologia e sacro alle origini di una categoria politica (2015); Il regime alimentare dei monaci nell'alto medio evo (2017), Paura e Rivoluzione francese nell’opera di Guglielmo Ferrero (2021); Un nuovo romanticismo per il nuovo secolo (2024) . Inoltre ha curato la riedizione del volume di Guglielmo Ferrero Palingenesi di Roma antica (2019). E' autore di articoli e relatore in convegni di studio.
Recensione a
G. Sangiuliano, Reagan. Il Presidente che cambiò la politica americana
Mondadori, Milano 2021, pp. 252, € 22.00.
«In questa primavera moscovita ci sia permessa una speranza: che la libertà finalmente sbocci nel ricco, fertile terreno della vostra civiltà». Correva il 31 maggio 1988 e il Presidente Ronald Reagan stava tenendo un commosso discorso di esaltazione delle libertà agli studenti dell’Università Statale di Mosca. Per una felice ironia del destino in quel momento di alto simbolismo Reagan, il campione statunitense del conservatorismo politico e del libero mercato, era sovrastato da un busto in marmo bianco di Lenin e tra l’uditorio accanto agli studenti assistevano attempati accademici di stretta ortodossia marxista, anch’essi plaudenti. E a chi in quel giorno gli chiedeva conto della sua definizione dell’Urss quale “impero del male” lui rispondeva “another time, another era”. Eppure erano trascorsi appena cinque anni dal suo discorso tenuto a Orlando, Florida, durante il quale aveva bollato l’avversario sovietico con un marchio diabolico di infamia. E se adesso si stava entrando in un another time, another era, una stagione di libertà, parte cospicua di merito va attribuita alla politica dell’Amministrazione Reagan.
Oggi Reagan, destino che condivide con Margaret Thatcher, resta una figura storica controversa; le sue idee, la sua politica hanno plasmato profondamente gli Stati Uniti per un periodo ben più lungo dei suoi due mandati presidenziali (20 gennaio 1981 – 20 gennaio 1989) al punto che molti storici (anche di estrazione liberal come Sean Wilenzt) dilatano the age of Reagan dal 1974 al 2008 ma in realtà anche agli anni successivi, per sottolineare che l’humus politico-ideologico da cui trasse origine l’Amministrazione Reagan cominciò a ramificarsi nella società americana molto prima del 1980 ed è ancora largamente presente negli USA, capace di orientare le scelte di decine di milioni di elettori e di influenti gruppi economico-finanziari e culturali. L’eredità di Reagan divide, ma bisogna intendersi. La politica interna, economica, sociale, valoriale dei conservatori reaganiani resta una componente essenziale della società americana ma guardata con avversione da circa la metà della nazione. La politica estera di Reagan – incompresa e combattuta dai liberal negli anni Ottanta – oggi è valutata con maggior serenità e apprezzata anche da chi all’epoca la avversò, in quanto fattore determinante del tracollo dell’Urss. Si discute di quanto la “dottrina Reagan” abbia contribuito alla vittoria nella Guerra Fredda e ci si divide tra chi ne esalta e chi ne ridimensiona l’apporto al risultato finale. Ma che tale apporto vi sia stato, e in misura certo non trascurabile, oggi nessuno può seriamente negarlo. E tanto basterebbe per iscrivere Reagan nell’albo dei migliori presidenti Usa del XX secolo.
Un grande presidente ma anche un personaggio affascinante: entrambi questi tratti emergono dalla recente e brillante biografia che Gennaro Sangiuliano, giornalista e attuale direttore del Tg2, dedica a Reagan. Il libro non ha pretese di originalità e si colloca semmai sul livello della divulgazione intelligente. L’Autore non ha consultato archivi e documenti, ma fa ampio ricorso alla letteratura secondaria e in particolare all’opera biografica di Lou Cannon, la più meticolosa e informata tra quelle oggi in circolazione ma che risale ai primi anni Ottanta. Inoltre l’approccio di Sangiuliano non è né ostile al personaggio né distaccato e anzi risalta l’ammirazione politico-culturale ma anche umana che lega l’Autore a Reagan.
Fatta questa premessa va aggiunto che il libro scorre piacevolmente e conduce il lettore con vivezza di particolari e concretezza di situazioni in un viaggio che attraversa tutto il ventesimo secolo americano, dal profondo Midwest delle origini sino ai fasti della Casa Bianca. Ed anzi la porzione più interessante (e più ampia) del libro è proprio quella dedicata al Reagan non ancora Presidente. La sua vita, così come narrata da Sangiuliano, getta squarci di luce sulla realtà sociale americana dei ceti più umili dei primi decenni del XX secolo, con un Reagan proveniente da una famiglia poverissima ma di grande dignità (nonostante i problemi del padre, Jack Reagan, afflitto dall’alcolismo ma sempre pronto a ricominciare la sua sfortunata vita lavorativa). E con Ronald stesso che, pur tra mille difficoltà, è sempre sorretto da inguaribile ottimismo e fa della sua propria vicenda (lavapiatti; ragazzo tuttofare; bagnino; radiocronista sportivo; attore “minore” a Hollywood; sindacalista; conferenziere; uomo politico; governatore della California; Presidente) un caso esemplare di sogno americano che si realizza.
Il capitolo di maggior spessore culturale del libro è il quinto («Il conservatore», pp. 99-119), dove viene proposta una intelligente sintesi del pensiero conservatore statunitense che Reagan ereditò dal suo “mentore” politico Barry Goldwater (1909-1998). Il discorso di Reagan alla Convention repubblicana del 1964 (A Time for Choosing), che consacrò la candidatura di Goldwater alle elezioni presidenziali di quell’anno, è passato negli annali del conservatorismo per la densità delle idee ivi esposte e per l’alata retorica di cui Reagan, già allora, era maestro.
L’Autore dedica solo una cinquantina di pagine del libro agli anni della presidenza (1981-1989), troppo poche per una analisi particolareggiata delle politiche reaganiane. D’altronde Sangiuliano si presenta come biografo e la lunga vita di Reagan non comincia nel 1981. Più che una ricostruzione storica le pagine dedicate agli anni della presidenza possono leggersi come un commento e una interpretazione delle idee reaganiane tradotte in pratica. La dimensione delle idee è spiccata perché sin dal giorno dell’inaugurazione del suo mandato (20 gennaio 1981) Reagan rivendica il valore delle posizioni conservatrici. Egli parla di un New Beginning, una nuova era «che chiuda definitivamente con le frustrazioni della crisi sociale e la sfiducia seguita al Vietnam» (p. 197). La sua Presidenza vuole essere ideologica sin da subito: non solo ordinaria amministrazione ma anche segnali forti di conservatorismo sui vari temi (sociali, politici, economici, culturali, religiosi). L’assunto inziale è la lotta al Big Government. Nelle parole di Reagan: «Il governo non è la soluzione ai nostri problemi. Il governo è il problema». Le ricette economiche adottate dalla presidenza Reagan si ispirano alla scuola austriaca (von Hayek, von Mises), ai monetaristi (Milton Friedman) e all’allora giovane e brillante economista Arthur Laffer (la cui celebre “curva” «diviene il cuore del nuovo approccio macroeconomico», p. 202). La nota tesi di Laffer sostiene che oltre una certa soglia di tassazione si annichilisce la creazione economica di ricchezza e per conseguenza diminuisce anche il gettito. Al contrario, una riduzione delle aliquote libererebbe risorse per l’economia privata e produrrebbe un significativo incremento del gettito. Ed effettivamente con l’Economic Recovery Tax Act del 1981 e con il Tax Reform Act del 1986 la riduzione marginale delle aliquote sui redditi da lavoro passò dal 70 al 27% per i redditi più alti e dal 14 all’11% per i redditi medio-bassi, con esenzione totale per sei milioni di lavoratori a basso reddito. La riforma (o rivoluzione) fiscale, insieme con altri fattori (riduzione della spesa pubblica per 39 miliardi; deregulation; controllo dell’offerta della moneta in un’ottica anti-inflazionistica), assicurò agli Usa un lungo periodo di crescita economica e di prosperità. I dati parlano chiaro: tra il 1981 e il 1989 il Pil nominale crebbe in media del 7,4%, l’inflazione scese dal 12,5 al 5,4%; la disoccupazione passò dal 7,5 al 5,4%. Un mix di ideologia economica e pragmatismo contrassegnò gli otto anni della presidenza; a livello ideologico-simbolico assume primaria importanza la soppressione “Consiglio per la stabilità dei prezzi e dei salari”, una vera macchina burocratica socialista che con i suoi invasivi meccanismi alterava il libero incontro tra domanda e offerta. A livello pragmatico è degno di menzione il fatto che Reagan non abolì mai i sussidi alla disoccupazione, nonostante gli assunti ideologici più aggressivi del neoconservatorismo.
Sangiuliano è un biografo attento e preciso ma anche poco propenso a sottolineare i limiti più gravi dell’azione politico-economica di Reagan. Per esempio, non è concesso adeguato spazio al punto dolente del debito federale (che passò da 0,74 trilioni di dollari del 1980 agli oltre due del 1989), né ne viene offerta una convincente interpretazione che possa salvare integralmente la reaganomics da ogni nesso di causa con l’aumento vertiginoso del debito. In parte va detto che con Reagan la spesa per la difesa militare subì forti rialzi per motivi geopolitici legati al duro confronto con l’Urss; senza questa voce di spesa il debito federale sarebbe stato più contenuto, ma pur sempre ragguardevole.
Neppure viene affrontata nel libro la questione della crescente diseguaglianza sociale nell’America di Reagan ìnsita nei meccanismi del libero mercato lasciato a se stesso. Eppure è singolare che un altro americano certamente più propenso all’egualitarismo, Barack Obama, abbia manifestato, quando non era ancora diventato presidente, una «grande e sincera ammirazione per Reagan» (p. 10): non semplice retorica bipartisan ma conferma di quanto incisiva rimanga per tutti gli americani, ancora oggi, l’eredità di Ronald Reagan.