Giorgia Maddalon è laureata in Lingue per l’interpretariato e la traduzione (inglese - spagnolo) all'Università degli Studi Internazionali di Roma (UNINT) con tesi finale su “Hobbes interprete di Tucidide: analisi linguistica della traduzione inglese della Guerra del Peloponneso e la sua eredità nelle Relazioni Internazionali”. Attualmente è iscritta al corso di laurea magistrale in Relazioni Internazionali presso la LUISS Guido Carlo di Roma

Recensione a

Kwame Anthony Appiah, La menzogna dell’identità
Feltrinelli, Milano 2019, pp. 280, €19,00.

Alain Finkielkraut, L’identità Infelice
Guanda, Milano 2015, pp. 191, €18,00.

10,5281 / zenodo.3845137

Quello dell’identità, individuale o collettiva, per quanto di eterna attualità, è sempre apparso concetto complesso e di non facile definizione. È con il Romanticismo che il tema dell’identità nazionale appare per la prima volta sulla scena europea, ma le nazioni non hanno certo aspettato quel momento per affermarsi, distinguersi e farsi la guerra. L’identità è stata motivo di scontri tra gli uomini da quando il profilo del pensiero moderno iniziò a delinearsi con le nuove scoperte delle scienze sociali e biologiche fino a diventare centrale argomento di discussione storica, filosofica e letteraria (dal cogito ergo sum di Cartesio al cavaliere errante di Don Chisciotte, fino alla crisi pirandelliana dell’essere uno, nessuno e centomila).

È nella cornice di quella naturale ricerca, riconquista e difesa dell’identità minacciata che vanno letti L’identità Infelice di Alain Finkielkraut, a cui fa da contraltare La menzogna dell’identità. Come riconoscere le false verità che ci dividono in tribù di Kwame Anthony Appiah, un’opera che teme l’identità, nelle sue varie forme, come possibile nemico della solidarietà umana.

Appiah parte dai suoi strumenti autobiografici di vita personale per convertirli in nuovo paradigma di quel che significa identità multipla. Filosofo anglo-ghanese, figlio di padre africano e madre inglese, ora cosmopolita e professore alla New York University, Appiah racconta di essere inseguito dalla domanda sulle origini: un “dove sei nato?” che però non fa altro che celare dietro di sé la reale questione identitaria: “chi sei tu?”.

Il modo di percepire noi stessi e le identità che hanno plasmato la nostra vita politica sociale e culturale dall’era delle tribù, passando per il Romanticismo fino alla contemporaneità, sembrano ruotare attorno alle tradizionali etichette della nazionalità, colore della pelle, cultura, classe sociale e religione. Ma cosa realmente rappresentano e perché sono così importanti? Pagina dopo pagina, Appiah evidenzia come le dimensioni biografiche, individuali o collettive, non siano solo plurali, ma anche cangianti, ambigue, realtà intrinsecamente dinamiche che si formano e si trasformano nella loro relazione reciproca verso direzioni raramente rappresentabili in modo univoco e definitivo.

È innegabile come l’essere creature claniche sia un tratto distintivo della storia e della psicologia umana: basti pensare agli echi dell’Eneide di Virgilio i cui primi versi raccontano di Enea che portò «nel Lazio i suoi dèi, donde il sangue Latino, e i padri Albani e le mura dell’alta Roma» (Virgilio, Eneide, 1,6-7) o ai drammi storici di Shakespeare dove Enrico V si rivolge ai suoi soldati chiamandoli «nobilissimi inglesi». Ma nel rischio di esagerare le differenze tra il “noi” e il “loro” è forse meglio, dice l’autore, iniziare un percorso di apertura e smontaggio dei meccanismi identitari: decostruire cioè quelle etichette che abbiamo marchiato a fuoco sulla pelle della storia e di cui ci siamo sempre serviti come norme d’identificazione per riconoscerci, invece, all’interno di un corpus culturale collettivo più ampio.

È un’idea discussa e accettata pressoché universalmente quella secondo cui i popoli debbano governarsi. «Noi non dobbiamo essere governati da altri, prigionieri di una occupazione straniera» (p. 71). Per quanto l’ideale di sovranità resti un forte motivo di legittimazione, la domanda sorge spontanea: chi compone questo noi che deve autodeterminarsi? Come stabilire, soprattutto nel caso di affiliazioni multiple, la dimensione di chi appartiene al nostro recinto identificativo? Questa la risposta di Appiah: «Una volta che si va oltre la sfera circoscritta, una sorta di villaggio in miniatura, del faccia-a-faccia, gli altri saranno sempre una comunità di estranei. Ecco il primo problema: la scala dimensionale» (p.71).

Sorprendenti le pagine su Gandhi, Isaiah Berlin e soprattutto Italo Svevo, ossia Aaron Ettore Schmitz, emblema della complessità delle identità nazionali e culturali nella vita moderna. Ebreo per educazione, cattolico per compiacere la moglie, nato sotto l’Impero austriaco e morto sotto il Regno d’Italia, la vita di Ettore Schmitz pone con grande forza la questione di come scegliere la propria nazione.

«Cos’è allora, al di là di una nominale discendenza in comune, a renderci nazione? Come scegliere, tra i molti gruppi con la stessa discendenza, quelli a cui appartenere?» (p.72), si chiede Appiah. La “danza dei confini” non è di certo fenomeno di recente apparizione. La spartizione dell’India inglese nel 1947 con enormi masse di popolazione che valicarono i nuovi confini tra India e Pakistan, i processi di decolonizzazione che hanno interessato il continente africano fino al nuovo panorama geopolitico successivo alla dissoluzione dell’ex URSS sono la testimonianza, ci ricorda Appiah, di come decidere la propria nazione sia ancora più complicato quando i confini politici continuano a spostarsi.  

Ecco che ritorna in auge l’annosa questione della distinzione tra Stato e nazione. Cosa significa, quindi, costituire una nazione? Il passaggio da nazione a Stato non è sempre un passaggio naturale. Così come gli Stati sono il frutto di determinati processi di evoluzione storica, l’identità nazionale non è qualcosa di dato nella natura, ma ha a che fare con la disposizione umana, con la storia e il progetto politico di ciascuno. Per essere una nazione non basta una situazione oggettiva di comune discendenza, ma, come ricordava Renan, ciò che conta davvero è «il desiderio chiaramente espresso di continuare a vivere insieme».

La storia ci insegna che la nazione, per quanto importante, si è spesso dovuta edificare dalle fondamenta attraverso processi di nation building. Ricordiamo la famosa frase di Massimo d’Azeglio «fatta l’Italia bisogna fare gli italiani» come appello alla creazione di un’identità nazionale italiana e di una cultura comune in cui potersi rispecchiare. 

Due sono i temi, dice Appiah, alla luce dei quali va ridiscussa la questione identitaria: l’essenzialismo e l’intersezionalità. La prima, concepita dall’autore come pericolo mortale nella logica identitaria, è quella convinzione – si apprende da Susan Gelman – che certe categorie abbiano un sostrato di realtà o una natura autentica che non si può cogliere direttamente, ma che dà forma all’identità ed è responsabile delle altre somiglianze di quella categoria. Dai quattro a sei anni i bambini, nel pieno processo di apprendimento, sono degli infallibili essenzialisti, ma questo per gli adulti può essere rischioso e negativo perché «noi umani siamo portati a essenzializzare più facilmente gruppi su cui abbiamo idee negative, ed è più facile avere idee negative su gruppi che abbiamo essenzializzato» (p. 32). La strategia di ricomporre le identità che tendono a svilupparsi a fisarmonica con innumerevoli pieghe e fessure, è inadeguata, ricorda Appiah, dinanzi alla complessità del mondo odierno. Si tratta di scontrarsi con le mappe identitarie tradizionali e non cadere in quella trappola riduzionistica di schematizzare ed essenzializzare tutto ciò che sembra omogeneo e immodificabile.

Ma è sul tema dell’intersezionalità – cioè sulla sovrapposizione di diverse identità sociali e le relative possibili particolari discriminazioni o dominazioni che si spingono oltre la semplice sommatoria delle dimensioni di genere e classe – che la visione di Appiah collide invece con quella di Alain Finkielkraut. Essere un popolo, dice Appiah, non dipende soltanto da come ci vediamo noi. L’identità è frutto di negoziazioni tra chi sta dentro e chi fuori. India, Cina e Indonesia sono profondamente diverse nelle loro etnie, che ne siano consapevoli o meno, così come i paesi delle Americhe riconoscono tutti le loro origini in una molteplicità di popoli. Tuttavia questa insistenza sulle dimensioni plurali e mobili dell’identità, sull’idea cioè che un popolo non viva solo in Stati-nazione monoculturali, monoreligiosi e monolinguistici rischia di essere fragile e non prendere in considerazione il naturale riemergere della personale ricerca identitaria. Ed è proprio qui che s’inserisce L’identità infelice di Finkielkraut.

Nato a Parigi nel 1949 da una famiglia di ebrei polacchi scampati alla Shoah, il filosofo concentra la sua analisi sulla crisi della cultura europea, su un patrimonio autoctono sempre più oggetto di disinteresse e di critica, e su quella che lui stesso definisce un’ideologia dominante che predica il disprezzo per la nostra storia e la romantica accettazione dell’Altro. Dal carattere cosmopolita dell’Europa, concepita semplicemente come spazio per l’espressione delle culture “altre” e sotto il principio della ‘non discriminazione’, la Francia di Finkielkraut sembra cadere in un vero e proprio processo di “disidentificazione”, in un’uguaglianza totale che impedisce di esaltare la diversità culturale prodotta dall’umanità. «L’antico e il moderno rischiano di sprofondare insieme nell’oceano dell’indifferenziazione» (p.110), osserva il pensatore francese.

L’identità è infelice perché i francesi, così come gli europei, antepongono alla celebrazione dei simboli della loro cultura una difficoltà emergente di riconoscere l’umanità nella variabile delle sue forme. È con un rimando puntuale al pensiero dell’antropologo Claude Lévi-Strauss – che invita a rivedere al ribasso le nostre pretese senza per questo rinunciare a ciò che ci fonda – che L’identità infelice dimostra come fare della diversità una fortuna e non un problema. «Non creiamo niente di nuovo se non a partire da ciò che abbiamo ricevuto. Dimenticare o scomunicare il nostro passato non significa aprirci alla dimensione dell’avvenire: significa sottometterci, senza resistenza alla forza delle cose» (p. 100).

È la necessaria riscoperta di un’identità particolare, che pur non facendo di noi degli esseri superiori, merita per Finkielkraut di essere preservata e nutrita permettendo agli uomini di riconoscersi nella condivisione di una lingua e di una memoria comune: solide fondamenta per l’avvio di quel processo di formazione di una comunità. Il superamento della grande ambizione illuminista di dare il nostro volto a tutto il mondo non deve condurre alla cancellazione di questo volto, ma costruire un sentiero per apprezzare l’umanità nella sua varietà e fare di essa il punto di partenza per l’edificazione di percorsi condivisi. Come sottolinea Finkielkraut, «pur essendo diventati consumatori planetari, non siamo per questo intercambiabili e abbiamo tutto il diritto di aspirare a non diventarlo» (p. 109).

Per non ripetere gli orrori del passato e raccogliere la sfida contemporanea della convivenza si vorrebbe oggi cancellare la proposta identitaria. Ma una civilizzazione che dimentica il suo passato, diceva all’inizio del XX secolo il filosofo americano George Santayana, è condannata a riviverlo. Difficile dire quale sia la lezione finale da apprendere. Probabilmente l’identità non può definirsi completamente e richiede quantomeno la considerazione di una molteplicità di fattori e strumenti di analisi adeguati di cui bisogna comunque accettare la parzialità. Dall’altro lato, Charles Taylor ci ricorda giustamente che la mancanza di riconoscimento non infrange soltanto un obbligo di rispetto normalmente dovuto. Il riconoscimento non è soltanto una cortesia che dobbiamo ai nostri simili: è bisogno umano vitale.

È sicuramente ora di sentirci cittadini globali e considerare che, vivendo in un unico mondo sempre più interconnesso, le regole debbano essere improntate a un’etica globale. La riflessione sull’identità può diventare l’occasione e l’invito alla riscoperta e alla costruzione, alla comprensione di una realtà che spesso ci sfugge di mano e al superamento di quella visione binaria del globalismo-patriottismo. Nel condividere l’idea che l’eredità è ormai sia biologica sia culturale, forse non è necessario un unico pensiero che ci definisca cos’è precisamente l’identità, ma occorrono senz’altro uomini che decidano di viverla e difenderla.

Loading