Recensione a: Poesie dell’Italia contemporanea (1971-2021), a cura di T. Di Dio, il Saggiatore, Milano 2023, pp. 1087, € 35,00.
Un libro che abbia l’ambizione di raccogliere cinquant’anni di poesia italiana è qualcosa rispetto al quale gli interrogativi si pongono in modo assolutamente naturale. Ma se fosse stata presentata al lettore un’antologia di un’altra forma espressiva, come la pittura, la fotografia o il cinema, il risultato e il senso generale sarebbero stati certamente diversi. Questo ha naturalmente a che fare con lo statuto, con l’essenza della poesia, che rispetto alle altre forme d’arte e dell’espressività umana può vantare una sorta di primazia.
Per interrogarci sul senso di un’antologia, abbiamo però bisogno di una guida affidabile, e possiamo ritrovarla nella riflessione heideggeriana sulla poesia. Sarebbero molti i testi da citare, ma non può sfuggire il celebre A che i poeti? in cui il filosofo tedesco, interrogandosi a sua volta su alcuni versi di Hölderlin e poi di Rilke, afferma apertis verbis che il tempo in cui viviamo è un tempo della povertà. Un tempo in cui la parola sembra aver perduto la sua presa, il suo contatto privilegiato con il mondo, l’umano e l’essere. Citando Rilke, infatti, dai Sonetti a Orfeo, Heidegger recepisce la riflessione del poeta delle Duinesi soprattutto in corrispondenza di una strofa in particolare, nella quale Rilke mette il lettore nell’angolo della vita in cui imperversano le domande decisive dell’esistenza, e proprio perché tali quelle che eludiamo: le domande su quale sia l’essenza dell’amore, del dolore e della morte.
Sarebbe certamente interessante proseguire nel tracciato heideggeriano ma credo che l’intuizione da cogliere sia, per così dire, correlata a quella che abbiamo appena formulato. L’idea di Heidegger è che i poeti, con le loro antenne sensibilissime e la capacità di connettersi con il manifestarsi originario del mondo, esprimono la realtà meglio di chiunque altro, esprimono insomma la condizione del nostro tempo. L’umano, con Aristotele, è l’animale che parla, l’animale dotato di parola, parola che giunge al suo culmine quando diventa poesia. Parola, lógos, che per Heidegger è l’effetto dell’incontro tra la parola del mondo (il suo darsi) e la parola che l’umano può esprimere (il suo accorrere). Il mondo, il vero mondo, il mondo giunto a verità e alla sua piena manifestazione, è il mondo che diviene parola nel lógos dell’uomo. Con una bella formula del filosofo napoletano Eugenio Mazzarella, che si pone sulla scia di Heidegger, il mondo è istituzione di parola; in altri termini, il mondo viene all’essere attraverso la parola più alta, quella dei poeti. Per vedere il mondo dispiegato nella sua verità, la parola da ascoltare è dunque quella poetica.
Con Poesie dell’Italia contemporanea non abbiamo però a che fare con una silloge, una raccolta di un solo poeta, in questo caso il poeta Di Dio. Abbiamo invece una raccolta di poesie dell’ultimo cinquantennio italiano. È allora con questo sfondo che suggerirei di leggere il libro, come un’esperienza di apertura in cui il mondo italiano, nella nostra lingua e in tutta la sua complessità storica, culturale e intellettuale, viene all’essere, che in termini heideggeriani significa venire alla verità, alla chiarezza della comprensione, in cui le nostre parole possono unirsi a quelle dei poeti, cercare i nostri percorsi, trovare eventualmente le risposte ai muti ma cocenti interrogativi del nostro animo, tali poiché ancora privi della parola che li dica e li comunichi. La potenza della grande poesia è infatti anche questa: riuscire a dare parola a ciò che si agitava al nostro interno nostalgico di luce, appunto della luce della parola.
Ma se questo è vero al livello soggettivo, individuale, si può dire altrettanto sul piano dell’oggettivazione storica. Il senso più profondo di un’operazione di questo tipo, un’antologia poetica nel modo in cui Di Dio ha deciso di strutturarla, è di portare il proprio tempo alla parola, il ritmo della storia a quello del verso, le fratture e i traumi del divenire alla musica della sillabazione, a riempire un vuoto laddove non si sapeva nemmeno che un vuoto ci fosse. Trovo infatti particolarmente efficace la prima definizione che Di Dio dà al lettore nell’Introduzione al suo lavoro: «Quel genere letterario che è tutto ciò che ancora non è (più tutto ciò che è già stato)» (p. 9), che potremmo cercare di tradurre con il tutto della tradizione a cui si somma ciò che è ancora nella potenzialità di essere in termini di composizione, di interpretazione, di comprensione. La poesia «è uno straordinario strumento di contemplazione del possibile e, insieme, una frattura del probabile: una sorpresa del linguaggio che si fa, in una manciata di sillabe, abisso di potenza» (p. 10). Viene da ricordare un verso famoso della Dickinson nel quale si afferma che la poesia è quella possibilità in cui si dimora, regno dell’imprevedibile e dell’inatteso, ma indescrivibile potenza, capace di donare sollievo e di redimere dal dolore.
Ricordando ancora Heidegger, d’altra parte, è tristemente vero che il nostro tempo è povero, sia perché dal nostro orizzonte esistenziale sono sparite le questioni che dovrebbero farci degnamente umani e creature di pensiero, sia perché la semplificazione della comunicazione, e quindi del linguaggio, sembra un fenomeno irreversibile dinanzi al quale la potenza si è smarrita e resta soltanto l’abisso. Nonostante ciò, Di Dio aggiunge che «la poesia è anche una riserva di forza, capace di rompere i meccanismi automatici e i piani confortevoli della lingua comune» (ibidem), riuscendo la parola poetica a sbalestrarci nei domini dell’insicurezza, a porci nella nostra nudità originaria di esseri gettati e continuamente in cerca della luce. Difatti, quasi captando la povertà che era prima di Rilke e poi di Heidegger, il curatore afferma: «La poesia si rivela indicazione delle nostre origini poveramente umane, ci mette di fronte alla nostra condizione marginale di animali parlanti, ci sprona a divenire consapevoli della mortalità che abita i nostri discorsi» (p. 11). La presente antologia, anche per queste ragioni, si offre allora come una proposta ragionata e temporalmente avveduta di alcune «realizzazioni poetiche» (ibidem), del farsi del mondo autenticamente se stesso nella parola.
Il lavoro di Di Dio ha il merito di porsi al lettore, nonché nel dibattito degli addetti ai lavori, come un esperimento intrigante e fascinoso sul genere, se così si può dire, dell’antologia in sé e per sé. Non quindi una mera raccolta di date, premi, menzioni, rilevamenti statistici (ad esempio, i componimenti più citati nei giornali, nei saggi critici, nelle riviste o per ultimi nei social), ma un ecosistema, uno spaziotempo aperto e sempre integrabile in cui sono state fornite soltanto alcune linee guida, degli eventi particolarmente significativi nella storia d’Italia o nella storia europea e mondiale più in generale.
Lasciando la parola al curatore: «Non più la metafora teatrale, ma quella panoramica: non volevo ricostruire la scena della poesia, nel teatro immaginario della letteratura, dove pochi volti sono illuminati, di volta in volta, da un occhio di bue. Piuttosto, intendevo rappresentare la poesia contemporanea come un paesaggio» (p. 15). L’idea è quella di una grande narrazione in cui il tempo, nel nostro caso dieci lustri ripercorsi decade per decade e anno per anno con una singola realizzazione poetica, viene a se stesso nella forma di comunicazione spirituale ed essenziale di cui l’umano è dotato. Tempo che, come con Heidegger prima ma più in particolare con l’indicazione del curatore, è uno dei sensi dell’intero lavoro: «Il lettore potrà ripercorrere ogni paesaggio anche come un episodio della più ampia storia della lingua poetica italiana, rintracciando sia gli elementi di originalità che identificano ogni decennio, sia apprezzando la sostanziale continuità che pervade i cinque paesaggi, con stilemi che tornano e ritornano a distanza cronologica l’uno dall’altro e che formano lo sfondo costante e peculiare della nostra tradizione. Ma oltre alla riduzione dell’enfasi autoriale, ho fatto un’altra scelta che, a mio parere, offre l’occasione di una lettura nuova» (p. 18).
Il paesaggio narrativo e di disvelamento offerto da Di Dio con questa antologia è certamente frutto del suo punto di vista, quello che rimane pur sempre vizio e forza del singolo occhio che guarda ma che non si riduce a questo, come ci ha ampiamente spiegato la teoria ermeneutica novecentesca. Il lavoro di Di Dio è infatti uno squarcio, una veduta, un ambiente sicuramente non più intatto ma col vantaggio di essere realizzato da uno che la poesia la fa, la studia, la assapora, sensibile abbastanza per captare il tempo e proporne una visione d’insieme al lettore, il quale può sollevare le pieghe, misurare gli anfratti, sbattere sui punti morti, attraversare ponti e aprire porte che non avrebbe mai pensato che esistessero.
L’invito finale del curatore è quindi all’insegna della saggezza e dell’orientamento: «Che adoperi, insomma, questo volume come un ponte o una porta, una via per andare oltre, uscendo fuori da qui, al di là di questo libro, verso lo spazio aperto della poesia» (p. 26). Un invito a fare un’esperienza di verità che non sia conclusiva bensì un inizio, un coinvolgimento da cui slanciarsi verso il non ancora costitutivo che è la parola che non è stata ancora detta, che non ci ha ancora raggiunto dicendo il mondo e noi a noi stessi.
(in foto il poeta Milo De Angelis)