Alice Delli Pizzi (1995) ha conseguito la laurea magistrale in Storia e Civiltà all’Università di Pisa nel 2021. I suoi principali interessi di studio sono la storia della Prima Repubblica e la storia culturale.
Recensione a: M. D’Eramo, Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi, Feltrinelli, Milano 2020, pp. 256, € 19,00.
Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra. “Ma qual è la pietra che sostiene il ponte?” chiede Kublai Kan. “Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra − risponde Marco, − ma dalla linea dell’arco che esse formano”. Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: “Perché mi parli delle pietre? È solo dell’arco che m’importa”. Polo risponde: “Senza pietre non c’è arco”[1].
Italo Calvino scrisse questo splendido passaggio de Le città invisibili probabilmente ispirandosi alle recenti (almeno per il 1972, ma comunque estremamente influenti tutt’oggi, come dimostra l’assegnazione del Nobel per la fisica del 2022 a Giorgio Parisi, studioso dei sistemi complessi) evoluzioni della fisica moderna. È infatti risaputo che Calvino fosse un grande appassionato di fisica, di astronomia, di matematica e di architettura e che il suo lavoro ne fosse molto influenzato, anche se è a partire dagli anni Sessanta, in seguito all’incontro con Queneau e la sua concezione di letteratura come gioco combinatorio, che comincia ad essere evidente l’influenza delle discipline scientifiche nelle sue sperimentazioni con la struttura narrativa. Anche il campo storico sta ultimamente risentendo delle influenze della fisica moderna, come possiamo vedere (anche, ma non solo) dalla proliferazione della parola “complessità”.
“Complessità” è una parola usata con estrema generosità nei contributi storici, filosofici e del pensiero critico in generale contemporanei ed ha finito per essere usata come sinonimo di “molto complicato”, ma raramente ci si sofferma sul potenziale analitico della sua accezione nella fisica moderna. Dominio è un’eccezione di rara chiarezza espositiva (non stupisce la formazione da fisico dell’Autore) che sembra muovere il primo passo verso una comprensione dell’apparente invincibilità della cultura neoliberale grazie ad un approccio davvero globale ed olistico.
In fisica moderna un “sistema complesso” è un sistema composto da diverse entità minime che interagiscono fra loro: è necessario analizzarlo globalmente oltre ad analizzare le singola entità, in quanto non è possibile se non tramite simulazioni al computer calcolare l’effetto di tali interazioni fra di esse. Sono queste interazioni a cambiare il risultato dell’analisi, perché non sono necessarie (già “inscritte” nelle singole entità, come ad esempio nella visione hegeliana) ma sono dovute semplicemente alla coesistenza di tali entità: si pensi alla citazione aristotelica “il tutto è maggiore della somma delle parti”.
L’analisi del neoliberalismo e in generale dei meccanismi dell’egemonia culturale nella seconda parte del Novecento si è concentrata sul superamento della tradizionale contrapposizione marxista fra struttura e sovrastruttura: grossomodo, è da tale superamento che nasce la popolarità dell’analisi del discourse. La fecondità e la necessità di questa evoluzione storiografica sono assolutamente innegabili: ciononostante, essa ha attribuito una sorta di carattere di onnipotenza all’egemonia culturale neoliberale e ha spinto a trascurare una contrapposizione che, seppure inadeguata a descrivere la totalità dell’esistente, ha ancora un suo valore.
Per la teoria linguistica di Saussure[2], è la contrapposizione fra due termini a generare significato e non i termini stessi, che presi singolarmente non ne avrebbero alcuno. Allo stesso modo, D’Eramo dimostra come la distinzione marxista fra struttura e sovrastruttura ci permette di ricordare che sì, la diffusione della cultura neoliberale è pervasiva, estremamente efficace e conseguentemente multiforme e in continua evoluzione, ma che si è accompagnata, avvantaggiandole e sfruttandole contemporaneamente, ad effettive trasformazioni strutturali sul campo strettamente economico e politico. Piuttosto che studiare singolarmente le due entità (vale a dire l’influenza culturale e le mutazioni strutturali), o cercare di superare le loro mancanze creandone una nuova (il discourse), è necessario introiettare nell’analisi che ognuna di queste entità è attiva contemporaneamente e che la loro contemporaneità le pone in una relazione di reciproco rafforzamento. Il tutto è maggiore della somma delle parti.
La diffusione globale dell’egemonia neoliberale e la sua indiscutibile pervasività, che ha esposto molti contributi accademici ad essere criticati per un approccio riduzionista, cioè basato sull’attribuire ogni cosa al neoliberalismo, hanno spinto a trascurare il fatto che i primi passi del viaggio della cultura neoliberale sono storicamente determinabili e determinati. Difficilmente, tra l’altro, possono essere scissi dalla diffusione globale del capitalismo anche e proprio in quanto modo di produzione. L’Autore dunque insiste giustamente su quest’aspetto aprendo il volume con una ricostruzione della storia delle fondazioni neoliberali statunitensi, create appunto dai più ricchi imprenditori del Paese lungo gli anni Settanta. La nascita di tali fondazioni diede il via a quella che la storiografia ha definito “la controffensiva conservatrice”. “Controffensiva” in quanto, come l’Autore ci spinge a non dimenticare, l’avvio della diffusione della cultura neoliberale non è solo storicamente determinato, ma è stato frutto di un’intenzionalità ben definita. “Conservatrice” perché in questo momento è la galassia culturale conservatrice ad essere il riferimento della classe imprenditoriale, negli Stati Uniti (si pensi a Donald Trump, che iniziò la sua carriera politica dichiarandosi spesso pubblicamente un presbyterian christian).
Le fondazioni sono infatti istituzioni create esplicitamente allo scopo di condurre una “guerra di guerriglia”[3] contro le critiche al sistema del capitalismo imprenditoriale e finanziario, che per la prima volta non arrivano solo da soggetti politici “estremisti” ma anche da “elementi rispettabili della società”, riformisti e moderati (situazione che sarebbe stata estremamente appesantita dalla crisi energetica del 1973). Le fondazioni forniscono dunque borse di studio e risorse agli accademici vicini alle loro posizioni economiche e politiche. Ma non basta: se le critiche vengono anche da riformisti e moderati, lo scopo diventa intervenire sulla nozione condivisa di “senso comune”. Per raggiungere questo obiettivo, la classe imprenditoriale statunitense (l’abbondanza e la completezza delle fonti non lasciano spazio ad accuse di vaghezza o complottismo) crea quelli che vengono definiti think tanks.
I think tanks neoliberali, anche se la parola al giorno d’oggi è genericamente sinonimo di centri culturali, sono nati allo scopo di rielaborare i contributi economici e politici accademici in materiale approcciabile dal grande pubblico, in grado quindi di influenzare l’opinione pubblica e conseguentemente la politica più direttamente. Ancora nel 2017, il “New York Times” ha pubblicato il memorandum rilasciato da uno di questi think tanks ad inizio gennaio in cui si suggeriva a Trump di abrogare alcuni regolamenti, provvedimento che venne preso dal Congresso una settimana dopo il suo insediamento[4].
Riconoscere la natura politicamente e storicamente connotata della nascita del neoliberalismo non vuol dire negare il fatto che le sue categorie filosofiche siano ormai universali, sia in senso politico-istituzionale (a destra e a sinistra) che geografico. Quello che però rimane valido in entrambe le declinazioni è l’importante elemento di rottura con il liberalismo classico individuato dall’Autore, vale a dire l’«uso accorto dello Stato», un antiautoritarismo (focalizzato sul regime fiscale in alcuni casi, sulle varie forme di discriminazione contemporanee in altri) solo apparente che però si accompagna all’applicazione, da parte della macchina-Stato, dei suoi principi.
La nascita e sviluppo della cultura neoliberale sono infatti appunto legate a doppio filo alla classe imprenditoriale conservatrice statunitense ed in questa declinazione è senza dubbio più efficace: D’Eramo sottolinea ad esempio come le uniche situazioni in cui la politica occidentale non ha manifestamente seguito le direttive “del mercato” siano state momenti di grave crisi, come la crisi economica del 2008 e la pandemia del 2020. Gli interessi “del mercato” si sono ristabiliti come prioritari una volta passato il peggio e vengono così ancora più associati, nella coscienza globale, con la nozione di normale e naturale svolgimento delle cose.
Il concetto di “naturale svolgimento delle cose” è fondamentale nell’egemonia culturale neoliberale ed è strettamente legato all’appropriazione della scientificità da parte della disciplina economica, un processo esemplificato dalla creazione del premio Nobel per l’economia, non previsto dal testamento di Alfred Nobel ma aggiunto nel 1969 grazie ai fondi messi a disposizione dalla banca nazionale svedese. Al contempo, l’economia diviene il fondamento della razionalità umana: viene usata dalla galassia culturale neoliberale per concettualizzare e di conseguenza influenzare la totalità della società: salute, genere, relazioni interpersonali.
Si pensi alla popolarità del concetto dell’imprenditore di sé stesso o del capitale umano. Se il proletario non vende più la sua forza lavoro ma amministra il proprio capitale umano, egli è semplicemente un capitalista in concorrenza (il sostituto del conflitto: l’Autore non smette mai di sottolineare come l’influenza neoliberale passi anche dalle parole) con un altro capitalista e l’irriducibile differenza di interessi tra classi sparisce. Ù
D’Eramo non è solo fisico, ma anche sociologo: è evidente l’influenza di Bourdieu, con cui ha studiato e di cui cita la nozione di violenza simbolica, «quella violenza che estorce sottomissioni che non sono nemmeno percepite come tali». Tali violenze, nonostante siano accompagnate da un’evoluzione culturale, sono state comunque rese possibili da trasformazioni storiche anche assolutamente non politiche, come ad esempio la rivoluzione informatica, di cui si è appropriato il cosiddetto capitalismo della sorveglianza.
Internet è stato infatti sin dalla sua nascita anche centro di numerosi progetti di ispirazione libertaria basati sulla condivisione libera della cultura. Ironicamente, in epoca contemporanea la condivisione culturale in rete è quasi completamente monopolizzata a scopi commerciali. Il tutto è maggiore della somma delle parti.
[1] I. Calvino, Le città invisibili, Einaudi, Torino 1972.
[2] F. de Saussure, Corso di linguistica generale, Laterza, Bari 1967.
[3] Il documento con cui tradizionalmente si identifica l’inizio della “controffensiva conservatrice” e della “guerra di guerriglia” (nell’originale guerrilla warfare) è un memorandum confidenziale scritto alla Camera di Commercio degli Stati Uniti da Lewis Powell Jr. nel 1971, intitolato Attacco al sistema americano di libera impresa. Powell era da nove anni membro del consiglio d’amministrazione di Philip Morris: due mesi dopo che ebbe scritto il suo memorandum, il presidente Nixon lo nominò Giudice della Corte Suprema. Il dattiloscritto del memorandum è stato digitalizzato ed è scaricabile su: https://law2.wlu.edu/deptimages/Powell%20Archives/PowellMemorandumTypescript.pdf
[4]L’articolo sull’argomento del New York Times è consultabile su: https://www.nytimes.com/interactive/2017/02/04/us/doc-lobby.html