Lorenzo Bravi (1982) è laureato in Lettere e Storia. Ha scritto per «L'Intellettuale dissidente» e «Pangea». Collabora con la rivista «Il Pensiero Storico».
Nonostante tutte le riserve, dovremo rimanere consapevoli che l’uomo che ha agito ed è stato agito nel passato è lo stesso che agisce nel presente, e che studiare il passato è un modo e non il modo peggiore, per acquisire il diritto e i criteri per giudicare il presente…
[F. Gilbert, Perfections on the History of the Professor of history (1977)]
Tale assunto di Felix Gilbert, studioso del Rinascimento fiorentino e di Niccolò Machiavelli, è quanto mai lapalissiano nel dedurre che l’interesse per lo studio del contesto politico fiorentino di fine Quattrocento e nel primo trentennio del Cinquecento è stato dettato da un interesse per la connessione con il contesto storico politico, culturale e sociale del Novecento.
L’interesse per Niccolò Machiavelli nel mondo accademico statunitense ha avuto il suo turning point con la fuga degli accademici e intellettuali dalla Germania nazista in cui gli Stati Uniti, grazie alla Rockefeller Foundation, ospitarono più di 335 accademici in 150 università e in diversi istituti di ricerca pubblici e privati, sparsi per tutta l’unione (G. Pedullà 2012, VII-XXIV). La prima rivista ufficiale scientifica di studi storici negli Stati Uniti fu l’«American Historical Review», fondata nel 1895, nata per volere dell’Associazione degli storici accademici statunitensi, l’American Historical Association. Proprio grazie agli articoli degli storici emigrati dalla Germania vennero pubblicati i primi contributi sul Rinascimento italiano, che in larga parte avevano per oggetto la storia delle costituzioni della Repubblica di Firenze e di Venezia (A. Musi, 2013).
Nell’ambito degli studi della storiografia del Rinascimento, e in particolare di Niccolò Machiavelli, fu proprio grazie alla translatio studii degli emigrati tedeschi di cui sopra che poté approdare la metodologia storiografica della scuola di Berlino, che aveva avuto in Leopold Von Ranke il suo fondatore ma non prescindendo neanche dall’influenza che aveva avuto Jacob Burckhardt, con il suo primo studio sistematico sulla cultura del Rinascimento italiano, con il saggio Die Kultur der Renaissance in Italien del 1860, dove il fenomeno culturale del Rinascimento in Italia veniva collocato come prima forma di una politica culturale che successivamente porterà alla democrazia moderna occidentale.
Tra questa generazione di storici delle istituzioni politiche e del pensiero politico vi era anche lo storico della filosofia Paul Oskar Kristeller, che concentrò il suo studio proprio sulla filosofia rinascimentale e umanistica, convogliando le sue ricerche sull’accademia neoplatonica fiorentina di Marsilio Ficino. Invece, tra gli storici delle istituzioni politiche figurarono personaggi come Hans Baron, che si trasferì negli Stati Uniti nel 1938 in qualità di ricercatore associato presso la Newberry Library di Chicago. L’interesse di Baron sul Rinascimento italiano, e in modo particolare sulla repubblica fiorentina di inizio XV secolo, fu focalizzata sul ruolo intellettuale e politico del cancelliere fiorentino Leonardo Bruni. Baron sottolineò il valore etico-culturale dato dalla cultura umanistica fiorentina da politici e intellettuali come Coluccio Salutati e Leonardo Bruni, i quali furono fondamentali per instaurare quella concezione di virtù etica repubblicana nella Firenze di inizio Quattrocento. Lo stesso Baron coniò la famosa locuzione di «civic humanism» nel suo saggio più famoso, Crisis of the Early Italian Renaissance (H. Baron, 1966, 132).
Proprio l’interpretazione assunta da Baron – sul ruolo che aveva la concezione storico-etica dei valori civici repubblicani dell’uomo politico fiorentino – fu assunta a paradigma anche per l’attività intellettuale di Niccolò Machiavelli. Sempre secondo lo storico tedesco, Il Principe andava collocato secondo il genere dello specula principis («guidebook for the despot prince») e la successiva opera, i Discorsi sulla prima decade di Tito Livio, andava inquadrata come un’opera politica ma pro-repubblicana. Secondo la tesi di Baron i Discorsi erano il seguito de Il Principe e rappresentavano una maturazione intellettuale ed etica di Machiavelli, in cui il repubblicanesimo rappresentava il vero valore etico. Lo stesso Baron teorizzò che Il Principe venne redatto tra il 1512 e il 1513 e i Discorsi in un momento successivo (H. Baron, 1988, 101-151).
La medesima parabola di Baron e degli altri accademici tedeschi, che emigrarono a causa dell’instarurasi del regime nazista, la ebbe Felix Gilbert, allievo di Friedrich Meinecke presso la Humboldt di Berlino e addottoratosi con una tesi su Johann Gustav Droysen. Nel 1936 emigrò dapprima in Inghilterra e subito dopo negli Stati Uniti. La sua prima mansione negli Stati Uniti fu quella di analista politico, esperto del regime nazista, presso l’Office of Strategic Services. Una volta concluso il conflitto bellico, Gilbert iniziò l’attività di docente, dapprima presso il Bryn Mawr College in Pennsylvania e poi dal 1962 al 1975 presso l’Institute for advanced study of Princeton. La sua attività di ricercatore si concentrò sulla storia politica del Rinascimento fiorentino. Nel 1939, presso la rivista «Journal of Modern History», pubblicò il suo primo articolo su Niccolò Machiavelli intitolato The Humanistc Concept of the Prince and The Prince of Machiavelli.
Proprio sulla scorta della lezione di Meinecke, Gilbert concentrò la sua analisi sui capitoli del Principe che andavano dal XV al XIX. Come teorizzato anche da Baron, Gilbert inquadrò l’opera nel genere dello speculum principis, genere che all’epoca ebbe una notevole fortuna nei lavori di altri umanisti, quali Poggio Bracciolini, Giovanni Pontano e Francesco Patrizi. Per Gilbert Il Principe fu fondamentale come opera per conoscere la teoria politica del suo autore, fondata secondo chiari rapporti di forza tra gli attori politici in campo. Nell’articolo Gilbert diede anche la sua opinione sulla cronologia della composizione del libello, entrando di fatto nel dibattito tra il suo maestro Meinecke e Federico Chabod. Gilbert di fatto sostenne la tesi di Meinecke, il quale a sua volta sosteneva che Il Principe fosse stato composto in due tempi diversi. Gilbert teorizzò che la parte che andava dal capitolo XII al XXV era in forte discontinuità con i capitoli precedenti a causa dell’oggetto degli argomenti trattati (Gilbert, 1939, 449-483).
L’interesse di Gilbert per Machiavelli e la sua personalità intellettuale si manifestò con il saggio The renaissance of the Art of War, lavoro che faceva parte della raccolta di lavori collettanei Makers of Modern Strategy: Military Thought from Machiavelli to Hitler, pubblicato in prima edizione nel 1943. Nel suo contributo Gilbert sostenne che Machiavelli fosse stato un teorico militare tout court del Rinascimento, dato che fu il primo che capì che la soluzione militare era necessaria davanti al problema politico e culturale della penisola italiana dopo l’invasione delle truppe francesi del 1494 (Gilbert, 1966, II edizione, 16).
Nell’articolo del 1953, intitolato The composition and structure of Machiavelli’s Discorsi, Gilbert si concentrò appunto sull’altra opera politica del segretario fiorentino, i Discorsi sulla prima deca di Tito Livio. Gilbert delineò una diversificazione sulla struttura compositiva del testo, secondo due fasi cronologiche distinte. Egli teorizzò che i primi diciotto capitoli del primo libro furono redatti contemporaneamente al Principe, dove veniva fatto un commento dell’opera dello storico patavino. Nella parte successiva Machiavelli divise i commenti secondo un ordine tematico in tre libri. Secondo Gilbert la stessa composizione del saggio si protrasse fino al 1519. Proprio in base alla struttura cronologica dell’opera, Gilbert teorizzò che lo iato tra il realismo politico del Machiavelli del Principe e il Machiavelli autore idealista dei Discorsi andava a inquadrare un mutamento intellettuale, che lo portò ad assumere una posizione politica filo-repubblicana. Tesi di Gilbert molto vicina a quella di Baron. L’unico legame tra le due opere, postulava Gilbert, era quello dell’importanza del fattore della forza già teorizzato dal suo primo saggio su Machiavelli, The Humanist Concept of the Prince and The Prince of Machiavelli.
Un’analisi metodologia opposta a quella di Baron e Gilbert su Machiavelli la si ebbe con Leo Strauss. Anch’egli di origine ebraiche e costretto ad emigrare dalla Germania a causa delle persecuzioni naziste, alcuni suoi familiari non emigrati furono dapprima deportati e poi uccisi nei campi di sterminio. Strauss dapprima si trasferì in Gran Bretagna e successivamente, nel 1937, si trasferì definitivamente negli Stati Uniti, dove svolse l’attività di ricercatore e insegnante rispettivamente presso tre diversi atenei, dapprima alla New School Research of New York, poi alla University of Chicago e infine presso il Claremont Men’s College of California. Il suo campo di interesse era la filosofia politica e lo sviluppo del pensiero storico. Strauss basò il suo metodo di ricerca nell’interpretazione dei classici del pensiero politico, partendo da una minuziosa analisi filologica dei testi filosofici greci, in particolare Platone e di quelli biblici. A questo modello metodologico Strauss aggiunse anche un’interpretazione personale ermeneutica di carattere esoterico. Proprio a tali assunti Strauss ha dedicato il saggio Thoughts on Machiavelli, pubblicato nel 1958, che fu una rielaborazione di diversi seminari che tenne alla University di Chicago. Sin dalle prime pagine del saggio, Machiavelli viene definito come un pensatore amorale nella celebre locuzione «a teacher of evil» (Strauss, 1958, 9). Per Strauss il Segretario fiorentino è stato il fondatore della scienza politica, fondata sull’esaltazione della forza e dell’irreligiosità.
A differenza di Baron e Gilbert, Strauss non divise secondo un paradigma morale e intellettuale il Machiavelli del Principe da quello dei Discorsi. Entrambe le opere, facendo un ricco ricorso a personaggi della storia antica, servivano come speculum per il principe:
Il Principe e i Discorsi concordano non solo rispetto ai loro temi particolari, ma anche rispetto ai loro fini ultimi. Noi tenteremo di comprendere la relazione fra le due opere, partendo dall’idea che il Principe è quella dell’esposizione della dottrina di Machiavelli che è indirizzata ai principi del suo tempo, mentre i discorsi sono la presentazione della stessa dottrina, in quanto rivolta ai principi potenziali (Strauss, 1997, 15).
Lo stesso utilizzo della concezione religiosa era per Machiavelli un mero instrumentum regni, in cui le divinità pagane venivano utilizzate a discapito del dio monoteistico occidentale. Per Strauss la fede di Machiavelli era un elemento fondante come mero fattore di utilità al servizio del principe e proprio a questo utilizzo della religione Strauss ribadiva che Machiavelli era un ispiratore di una politica immorale (Strauss, 1997, 27).
L’interesse accademico statunitense per Niccolò Machiavelli fu antologizzato nel 1960 da un articolo pubblicato da Eric Cochrane sul «Journal Of Modern History». Come si evince dal titolo, Machiavelli: 1940-1960, l’articolo è una sintesi di studi critici sull’opera di Machiavelli da parte degli studiosi statunitensi ed europei. Cochrane dà un ampio spazio agli studiosi italiani di Machiavelli e in modo particolare mette in evidenza gli scritti di Benedetto Croce, Federico Chabod e Gennaro Sasso. A parte la rassegna sistematica degli studi su Machiavelli ad ampia scala, il saggio non offre spunti metodologici, critici e filologici per un’interpretazione sugli scritti e sul pensiero filosofico, politico del Segretario fiorentino (Cochrane, 1960).
Con lo storico britannico John Greville Agard Pocock si ebbe un collegamento tra la parabola intellettuale e politica di Machiavelli, da un parte, e la rivoluzione americana, dall’altra. Pocock, londinese di nascita, ma laureato presso la Coventry University in Nuova Zelanda, si era poi trasferito in Inghilterra, a Cambridge, per ottenere un dottorato in Storia delle istituzioni politiche medievali. Nel 1966 si trasferì negli Usa. Prima insegnò all’Università di Saint Louis, poi nel 1975 si trasferì alla John Hopkins University di Baltimora. Proprio in quell’anno pubblicò il saggio The Machiavellian Moment: Florentine Political Thought and the Atlantic Republican Tradition. Secondo la tesi di Pocock, Machiavelli è stato un pensatore politico che ha riproposto un lessico di termini della teoria politica, quali virtù e corruzione, presi a prestito dall’opera storica di Polibio (Storie, libro VI). Secondo Pocock Machiavelli mise in collegamento i regimi politici delle poleis greche e della Roma repubblicana per una paventata restaurazione della Repubblica fiorentina dopo la caduta del regime di Pier Soderini. Teoria politica che andò a definire le basi della cultura politica moderna, ripresa successivamente dai padri della Rivoluzione americana, in modo particolare dal federalista John Adams:
an organic group of ideas and evaluations on Greece and Rome was acclimatized in Florence in the past…, then in England and America where it helped to organize the reproductive political orders (Pocock, 1975, pag. 68).
Per Pocock lo Stato repubblicano, concepito da Machiavelli, doveva essere fondato sul bene comune, dove il cittadino produceva la propria opera intellettuale e manuale per il bene stesso della propria città-stato.
Un’originale interpretazione di Machiavelli la si ebbe anche con John Michael Najemy, storico statunitense, coetaneo di Felix Gilbert. Najemy ha svolto la sua attività di ricerca accademica presso la Cornell University di Ithaca. La sua ricerca storica si è dapprima concentrata sulla storia di Firenze nell’età rinascimentale, sia sotto l’aspetto politico che quello sociale. Successivamente concentrò i suoi studi su Niccolò Machiavelli. Il primo di questi, intitolato Between Friends: Discourses of Power and Desire in the Machiavelli-Vettori Letters of 1513-151 (1993), dove lo studioso si è focalizzato sullo scambio epistolare tra Machiavelli e Vettori per delineare la personalità intellettuale e politica di Machiavelli.
L’interesse di Najemy per Machiavelli ha riguardato anche la storia delle idee, in particolare studiando il fattore della religione. Secondo Najemy la religione veniva interpretata da Machiavelli non come un concetto assoluto, ma secondo valori che dovevano coincidere con il bene pubblico (Najemy, 1999, 659–81). In uno studio successivo Najemy analizzò anche il rapporto tra lo stesso Machiavelli e la famiglia Medici, tramite l’indagine filologica delle Istorie Fiorentine (1520-1524). A giudizio dello storico, la famiglia dei Medici aveva indirettamente influenzato tutta la parabola personale e politica Machiavelli, «the Medici were, from different angles, both friends and foes, simultaneously the cause of his downfall and rescuers» (Najemy, 1982, 552). Nel saggio Machiavelli and Cesare Borgia: A Reconsideration of Chapter 7 of The Prince Najemy formulava la tesi, tramite l’analisi del capitolo VII del Principe, che Machiavelli non considerava Cesare Borgia il moderno principe, ma al contrario Cesare Borgia assumeva una configurazione di un esempio negativo perché emblema di una figura destinata a fallire, soggetto agli alti e bassi della fortuna e dalle circostanze imposte da soggetti terzi (Najemy, 2013, 546).
Un’altra interpretazione dei testi di Machiavelli è quella di John McCormick, docente di Storia del pensiero politico presso il Dipartimento di Scienze politiche alla University of Chicago. Secondo McCormick, Machiavelli ha teorizzato che la perdita della libertà politica, all’interno della Repubblica di Firenze, era stata causata dalla classe oligarchica. Secondo McCormick Il Principe, libello pro-mediceo, e i Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, pro-repubblicano, vanno letti proprio all’interno di questa linea tematica. McCormick individua l’importanza del pensiero di Machiavelli proprio nel porre al centro l’istituzione dei tribuni della plebe nella Roma in età repubblicana. Tribuni intesi come organismo fondamentale, che, grazie al loro diritto di veto contro il provvedimento del Senato composto dalle famiglie oligarchiche romane, dava al popolo la capacità di saper bloccare le mire espansionistiche della classe gentilizia (McCormick, trad. it. 2021). Sull’importanza dei tribuni della plebe e sul loro parallelismo con la situazione coeva della Firenze repubblicana, McCormick ha dedotto che il Segretario fiorentino patteggiasse per la parte popolare. A sostegno di ciò, McCormick ha addotto anche la positività che aveva Machiavelli nella dialettica conflittuale tra la classe senatoriale e quella popolare a Roma. Chiaro segnale questo, sempre secondo McCormick, di una preferenza in Machiavelli per un regime repubblicano di carattere popolare:
Tuttavia, poiché egli propone che le divisioni e i conflitti di classe siano integrati nella costituzione di una governo popolare, i suoi scritti possono intendersi come la sua più radicale, se non ultima espressione, del tradizionale repubblicanesimo populista (McCormick, 2007, 8).
A conclusione di quanto sopra scritto, appare evidente che vi sono state diverse categorie, ben definite, in cui la fortuna degli scritti di Machiavelli è stata definita nell’ambito dell’accademia storiografica statunitense. Una prima categoria può comprendere l’interpretazione di un Machiavelli scienziato politico, espressione di un neo-repubblicanesimo, fondato su un check and balances dei poteri, propugnato dal lungo asse storiografico che va dal civic humanism di Baron a Gilbert e Podcock. Un’altra categoria è quella propugnata da Strauss, del Machiavelli demolitore del concetto etico-politico classico dello Stato. L’ultima interpretazione, a noi coeva, è quella di McCormick, il quale incentra la parabola di Machiavelli come pensatore e uomo politico secondo una matrice filopopolare anti-elitista.
Bibliografia (in ordine cronologico di citazione)
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Pedullà G., Machiavelli dopo Auschwitz, in F. Gilbert, Machiavelli e Guicciardini. Pensiero politico e storiografia a Firenze nel Cinquecento, Einaudi, Torino 2012 (II ediz. it.).
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Gilbert F., The Humanist Concept of the Prince and the Prince of Machiavelli, in «The Journal of Modern History», XI, n. 4, 1939, pp. 449-83.
– The Renaissance of the Art of War, in Makers of Modern Strategy from Machiavelli to the Nuclear Age, a cura di P. Paret, A.G. Gordon, F. Gilbert, Princeton University Press, Princeton N.J, 1966, pp. 11-31.
– Review of The Composition and Structure of Machiavelli’s Discorsi by Leslie J. Walker, in «Journal of the History of Ideas», XIV, n. 1, 1953, pp.136-156.
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– Machiavelli and the Medici: The Lessons of Florentine History., in «Renaissance Quarterly», XXXV, n. 4, 1982, pp. 551-76.
– Machiavelli and Cesare Borgia. A Reconsideration of Chapter 7 of The Prince, in «The Review of Politics», LXXV, n. 4, 2013, pp. 539-56.
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