Luca Tedesco insegna Storia contemporanea presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi Roma Tre. Dirige le collane "Liberismi italiani" dell’Istituto Bruno Leoni di Torino e "Ulteriori Divergenze" dell’Università degli Studi Roma Tre. È Senior Fellow dell’Istituto Bruno Leoni e membro del Comitato scientifico della Fondazione Luigi Einaudi di Roma.
Caratteristica indefettibile di uno scienziato dovrebbe essere la curiosità. Andiamo, allora, a cercarli questi neofascisti nei loro “covi”, proprio come fa l’orco della fiaba di Bloch con le sue prede o don Milani con i suoi Gianni, anche a rischio di trovare porte sbarrate e di essere derisi.
Caro collega,
diverse sono le ragioni che mi hanno portato ad apprezzare il tuo discorso di insediamento a rettore dell’Università per Stranieri di Siena (https://www.roars.it/online/luniversita-una-comunita-aperta-critica-antifascista/). Cito, ma solo a titolo esemplificativo, l’accenno che hai fatto all’opportunità di suddividere, di delegare il potere, non per mortificarlo ma perché esso diventi esercizio di responsabilità.
Vorrei però richiamare l’attenzione, tua e di chi vorrà prendersi la briga di leggere questa mia, sull’insistenza nel tuo discorso della necessità di fare di quella universitaria «una comunità antifascista».
Ho un anno più di te. Ricordo, ero una matricola, come, in occasione delle elezioni per le rappresentanze studentesche nel 1989 alla Sapienza di Roma, alcuni docenti avessero diffuso un appello in cui esprimevano «viva preoccupazione e netto dissenso di fronte all’ipotesi di una lista che acco[gliesse] rappresentanti di gruppi cattolici ed esponenti del Fronte della Gioventù» (l’organizzazione giovanile, lo ricordo per i più giovani, del Movimento Sociale Italiano). Il riferimento era all’intesa tra questi ultimi e i «Cattolici popolari»; questa era la denominazione del braccio politico di Comunione e Liberazione. Grazie a questo patto elettorale, si puntualizzava nel documento, «ci sono, da oggi, nuove opportunità e nuove motivazioni perché questi ‘nostalgici’ condizionino in modo macabro la vita di questo ateneo». Quindici anni prima Pier Paolo Pasolini aveva scritto (rinvio ai suoi Scritti corsari) come circolasse ancora nel Paese «una forma di antifascismo archeologico che è poi un buon pretesto per procurarsi una patente di antifascismo reale. Si tratta di un antifascismo facile che ha per oggetto ed obiettivo un fascismo arcaico che non esiste più e che non esisterà mai più», per poi precisare che «buona parte dell’antifascismo di oggi, o almeno di quello che viene chiamato antifascismo […] dà battaglia o finge di dar battaglia ad un fenomeno morto e sepolto, archeologico appunto, che non può più far paura a nessuno. È, insomma, un antifascismo comodo e di tutto riposo». Tale antifascismo era tanto più esecrabile quanto più «tutti sapevamo, nella nostra vera coscienza, che quando uno di quei giovani decideva di essere fascista, ciò era puramente casuale, non era che un gesto, immotivato e irrazionale: sarebbe bastata forse una sola parola perché ciò non accadesse. Ma nessuno di noi ha mai parlato con loro o a loro. Li abbiamo subito accettati come rappresentanti inevitabili del Male».
Nessuna concessione, contaminazione o resa all’altro da sé, quindi, da parte di Pasolini, ma la consapevolezza che fosse più comodo per l’antifascismo, per l’appunto, «di comodo», la trasfigurazione demoniaca dell’avversario.
In verità, ci fu chi, anche all’interno della cultura antifascista, tentò di superare tabù e pigrizie. Antonello Trombadori, già gappista durante l’occupazione nazista della Capitale, partecipò nel mese di marzo, sempre del 1989, a un dibattito promosso da Fare Fronte alla Facoltà di Economia e commercio, ancora una volta della Sapienza, dal titolo Spegnere il fuoco della violenza. La reazione del Pci e della Federazione giovanile comunista fu durissima. Trombadori si sarebbe difeso sulle colonne del «Tempo» con le seguenti parole: «mi sono rivolto anche ai promotori del dibattito, e non so fino a che punto sono riuscito a far capire a questi ragazzi che si chiamano fascisti l’importanza della democrazia e della Costituzione repubblicana, ma credo di aver introdotto fra di loro qualche argomento di riflessione». Riflettendo qualche anno dopo sul senso di quell’iniziativa, Trombadori avrebbe aggiunto in un’intervista al «Corriere della Sera»: «quattro anni fa fui invitato dal Fronte della Gioventù ad un’assemblea all’università La Sapienza per discutere sul tema della violenza politica. Io parlai col sottofondo dei fischi e degli insulti dei ragazzi della Fgci e degli applausi dei missini. Per il solo fatto di aver partecipato ad un incontro con i fascisti, fui quasi ripudiato da una parte del mio partito». Anche qui, nessuna condivisione delle ragioni degli altri, quindi, ma riconoscimento che, lì dove si creavano le condizioni di una libera discussione, non avesse diritto di cittadinanza la figura del reietto, del paria.
Mi e ti domando, allora: oggi il neofascismo, certo anche quello che dà l’assalto alla sede nazionale della Cgil, deve destare più allarme che negli anni Settanta, quelli a cui si riferiscono i brani citati di Pasolini, gli anni, per intenderci, di Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale e poi del terrorismo nero? Pasolini era forse un ingenuo?
Può darsi. Eppure, mi e ti domando nuovamente, questi neofascisti nostrani perché si dichiarano tali? Perché hanno letto Evola, Gentile, Spirito, Drieu La Rochelle o Codreanu? Accanto a una, immagino, minoranza che ha coltivato e coltiva il suo neofascismo in biblioteca, la maggior parte di coloro che si definiscono neofascisti non lo fa forse anche per un sentimento di frustrazione, rancore, rabbia, livore, nei confronti di uno Stato democratico, tacciato, a torto o ragione, di essere il responsabile delle condizioni di precarietà, marginalità ed incertezza economica in cui versano? Questo neofascismo non abita forse più nelle periferie che nei centri storici?
Se così è, mi e ti domando, lo prometto, per l’ultima volta, se la comunità universitaria non debba aprire le proprie porte ed accoglierli, questi fascisti, sia il fascista tale proprio per, cito dal tuo discorso, le «letture tendenziose» che ha fatto, sia quello che lo è «perché povero culturalmente e materialmente» (con la consapevolezza, peraltro, che l’antifascista può essere culturalmente non meno modesto). Non possiamo difatti escludere che un giovane possa arrivare a qualificarsi neofascista proprio perché ha fatto ciò che Franco Antonicelli, come tu ricordi, consigliava ai portuali di Livorno: «cercate sempre i libri che vi tormentano, cioè che vi conducono avanti, i libri che vi gettano lo scrupolo di coscienza: questi sono i libri, i libri non di fede accertata, ma di fede incerta».
Hai sottolineato «la fatica e la felicità dell’attraversamento» di chi ti ha preceduto e lo scienziato sociale di Bloch, l’«orco della fiaba», sempre a caccia dell’uomo, la sua preda naturale. Le nostre prede, però, non abitano solo, e neanche principalmente, le aule universitarie, luoghi sempre più elitari, ma sono rintanate in quelle che certo linguaggio antifascista militante chiamerebbe i covi, le fogne. Andiamo a cercarli lì allora, proprio come, secondo il don Lorenzo Milani che menzioni, dovrebbe fare ogni professore o ogni professoressa con il suo Gianni: «cerchereste nel suo sguardo distratto l’intelligenza che Dio ci ha messa certo eguale agli altri […]. Andreste a cercarlo a casa se non torna. Non vi dareste pace».
Insegno a Scienze della Formazione, a Roma Tre. Il polo didattico è in piena zona Esquilino. Spesso per andare a lezione passo accanto alla sede di CasaPound, a via Napoleone III, e dico a me stesso: «adesso citofono, busso», ma non lo faccio. Anche se mi facessero entrare non so esattamente cosa direi ma la tentazione di dare un’occhiata, di curiosare nella ‘tana neofascista’ è forte, fortissima ma, ahimè, la codardia lo è ancora di più e il timore di non saper gestire la probabile diffidenza, l’ostilità, mi costringe alla ritirata. Di questo comportamento metto ogni tanto a parte qualche mio collega che cerca di rincuorarmi assicurandomi che non è vigliaccheria la mia ma manifestazione di «alta coscienza civile che mi impedisce di frequentare certa canaglia». Io ringrazio ma so che si tratta di viltà e nient’altro perché so che caratteristica indefettibile di uno scienziato dovrebbe essere la curiosità e non quella di impalcarsi a precettore, pure a rischio di trovare le porte sbarrate, se non addirittura lo scherno o un sonoro calcio nel culo («non provano curiosità per nient’altro, perché ciò potrebbe indebolire la forza dei loro argomenti»; del bellissimo monito di Wislawa Szymborska, che ricordi e non conoscevo, penso debbano farne tesoro tutti).
«Le brave ragazze vanno in paradiso, le cattive dappertutto», scriveva Ute Ehrhardt. Io penso che lo scienziato debba essere una ragazza cattiva.
Che dici allora, ci caliamo assieme nelle fogne?