Loris Zanatta (1962), professore ordinario, insegna Storia internazionale, Relazioni internazionali del­l’America Latina e Storia e istituzioni dell’America Latina all’Università di Bologna. È edi­to­rialista per diverse testate italiane e internazionali, membro dell’Accademia della Storia della Repubblica Argentina, nonché autore di numerosi libri editi in Italia e in America latina. Tra le sue pubblicazioni: Perón y el mito de la Nación católica (Buenos Aires 1999); Historia de la Iglesia argentina (Buenos Aires 2000); Eva Perón. Una biografia politica (Soveria Mannelli 2009); Storia dell’America Latina contemporanea (Roma–Bari 2010); Populismo (Roma 2013); “La internacional” justicialista (Buenos Aires 2013); I sogni imperiali di Peron. Ascesa e crollo della politica estera peronista (Padova 2016); Fidel Castro. L’ultimo Re cattolico (Roma 2019); Il populismo gesuita. Péron, Fidel, Bergoglio (Roma-Bari 2020); Popolo (Macerata 2023).

Intervista a cura di Danilo Breschi

  1. In occasione del suo recente viaggio istituzionale in Italia, si è molto parlato del neoletto presidente argentino Javier Milei, il quale ha incontrato, tra gli altri, papa Francesco, il presidente del Consiglio Giorgia Meloni, nonché il presidente della Repubblica Sergio Mattarella assieme al ministro degli Esteri Antonio Tajani. A chi non segue la politica internazionale e non ha conoscenza approfondita della storia politica argentina Lei come presenterebbe la figura di Milei?

Benché originale e radicale, sorprendente e dirompente, la figura di Milei non esce dai binari della storia argentina, anzi ne esprime la ciclicità. Mi spiego: in Argentina, per ragioni troppo articolate per esser espresse qui, non s’è mai raggiunto un solido consenso sui “fondamentali” dell’ordine politico, sociale ed istituzionale. Nonostante quarant’anni di democrazia ed una ricca tradizione di costituzionalismo liberale risalente al XIX secolo, è come se due piedi cercassero di stare dentro la stessa scarpa, due paesi nello stesso Stato, due nazioni sullo stesso territorio. Come in Spagna, la madrepatria, si scontrarono a lungo due Spagne, in parte conciliate dal destino europeo, così in Argentina si scontrano due Argentine, senza che alcun destino comune le abbia mai pacificate. All’Argentina liberale e cosmopolita si contrappose e ne uscì trionfante l’Argentina nazionalista e cattolica, contro la pretesa “civiltà” della prima la seconda gridò “viva la barbarie” e incluse le masse attraverso canali organici e corporativi, combattendo come antinazionali quelli liberali e costituzionali. L’Argentina nazionalpopolare s’alterna da allora al potere all’Argentina liberale, la democrazia organica alla democrazia rappresentativa, lo statalismo economico al mercato, il protezionismo al globalismo, il messianismo religioso al disincanto laico, l’antioccidentalismo all’occidentalismo. Ogni passaggio da un ciclo all’altro è segnato da profondi traumi, crisi politiche violente e violente esplosioni sociali, sempre legate a tracolli economici. Perciò l’Argentina è un paese dal grande futuro alle spalle, votato a sicuro successo ma protagonista di una decadenza senza uguali al mondo. Ciascuna di tali crisi ha segnato il passaggio da una stagione da cicale ad un’altra da formiche: alle politiche espansive ma inflazionistiche dei governi nazionalpopolari, insostenibili, seguono politiche di austerità e stabilizzazione, apertura e liberalizzazione. Visto così, Milei non è l’eccezione ma la regola: dopo vent’anni di cicala kirchnerista, di socialismo nazionale e terzomondismo, finanze allegre e Stato invasivo e inefficiente, ecco il vento girare e annunciarsi un ciclo liberale e occidentale.

Se mi fermassi qui, sarebbe forse chiaro ma più semplice di com’è. Caso vuole che l’uno e l’altro ciclo siano perlopiù stati guidati dalla stessa forza politica, il peronismo. Il quale non è, né si è mai considerato, un partito, ma il “movimento nazionale” custode della “ideologia della patria” ed espressione della “cultura del popolo”. Con tali tratti, si capisce quanto il peronismo sia molto eterogeneo e che la democrazia liberale, plurale per definizione, gli stia stretta: i governi non peronisti gli paiono poco meno che illegittimi, antinazionali e antipopolari, quanto basta per rendere loro la vita impossibile mobilitandogli contro la piazza. Tutti hanno infatti avuto vita breve e tormentata, l’ultimo quello di Mauricio Macri. Capita così che il peronismo giochi tutti i ruoli nello stesso film, che sia prima cicala e poi formica, fin dal peronismo delle origini, che dapprima elargì a piene mani e poi strinse la cinghia. Da qui deriva che anche il più solido esperimento di liberalizzazione economica tentata dall’Argentina sia stato a guida peronista e che ad esso s’ispiri Milei. Mi riferisco ai governi Menem negli anni ’90, i quali privatizzarono e liberalizzarono, s’aprirono al mondo e s’allearono all’Occidente, strangolarono l’inflazione ma “alla peronista”: più decreti che leggi, molto governo e poco Parlamento, tendenze plebiscitarie e capitalismo “di amici”, corruzione e scandali. Dapprima andò bene, ma finì male, molto male: con disoccupazione alle stelle ed esplosione sociale, il menemismo tenne a balia la sua nemesi, il kirchnerismo, anch’esso peronista, ma nazionalpopolare, la cui nemesi è oggi il mileismo. E la barca va, sembra sempre tutto nuovo, è sempre la stessa minestra.

Quel che più attrae il mondo è l’anarco-capitalismo, il richiamo alla scuola austriaca d’economia nella versione più estrema e perfino aggressiva. D’altronde Milei è homo oeconomicus, non c’è ambito sociale e politico che non veda attraverso le lenti economiche, si stenta a trovare nel suo pensiero e nella sua azione traccia di liberalismo classico o solo di umanesimo. Chiunque al mondo aspiri a una rivolta antistatalista e ad una rivoluzione capitalista, contro l’invadenza dei poteri pubblici e la loro recente espansione, in lui troverà un guru che a guru piace atteggiarsi: l’ha mostrato a Davos. Un tipico guru argentino, un po’ ganassa e molto arrogante, più caudillo che statista, un uomo dalla miccia corta che s’immagina già nei libri di storia. Gli amici del circolo intimo gli rendono culto: per loro è un “genio” e guai seri a chi lo discute. Il che dovrebbe forse indurre alla prudenza: né l’Argentina è il mondo né il mondo assomiglia per forza all’Argentina. Né in Argentina le cose sono come sembrano. Nel caso argentino Milei raccoglie l’esasperazione d’un ventennio che lascia un’eredità drammatica, d’un paese impoverito e infuriato, isolato e in cerca di riscatto. Ma è lecito dubitare che uno dei popoli più antiliberali al mondo, laboratorio storico d’ogni anticapitalismo immaginabile che ha votato peronista in massa fino alle ultime elezioni, cattolico d’un cattolicesimo antimoderno e liberale d’un liberalismo poco democratico, si sia di colpo convertito in modello universale di libertà politica ed economica. Il voto a Milei è solo in piccola parte un voto al cultore di Hayek, è perlopiù un voto antiperonista, una jacquerie antisistema non troppo dissimile da quella che nel 2001 spazzò via il “neoliberalismo”. Nemmeno antiperonista: è un voto antikirchnerista in cui si cela l’atavica attesa di un nuovo Messia, figura poco democratica e tollerante di cui Milei veste i panni come fossero i suoi dalla nascita. Il che ne fa, dice qualcuno scherzando, un “peronista asintomatico”, l’ennesima versione del “peronismo liberale”, un ossimoro, la conferma che il vecchio generale Perón aveva almeno in questo ragione: in Argentina ci sono i socialisti, i liberali, i radicali, i conservatori, ma tutti sono peronisti. E nel peronismo pesca infatti Milei buona parte della sua classe dirigente, così come peronista è la sua visione manichea del mondo, la sua fede nel destino di grandezza della patria e la sua tentazione d’appellarsi al “popolo” per scavalcare gli intralci istituzionali della democrazia. A ben vedere, non è nemmeno così asintomatico.

  1. Ha senso utilizzare la categoria di “populismo” per definirlo? In un articolo pubblicato su “La Stampa” lo scorso 13 febbraio, lo storico e politologo Giovanni Orsina ha invitato a non adoperare più il termine “populisti” per definire fenomeni come quelli di Zemmour in Francia o, appunto, di Milei in Argentina. Soprattutto se con ciò si intende una facile liquidazione in senso dispregiativo, anche perché, scrive Orsina, «la scelta di demonizzare questi nuovi movimenti e di sospingerli ai confini dei rispettivi sistemi politici si sta rivelando di utilità sempre più dubbia. Poteva magari avere senso, quella strategia, quando si trattava di partitini marginali […] Oggi che marginali non lo sono più, anzi spesso vincono e governano, si rischia di aggiungere danno a danno: di innalzare la temperatura del conflitto politico, di rendere l’opinione pubblica ancor più isterica e polarizzata, in definitiva di aumentare la pressione sulle istituzioni democratiche invece di alleggerirla». Come vede Lei la questione con specifico riferimento al caso argentino? In altre parole, come si spiega il successo elettorale di Milei? E cosa può comportare per la democrazia argentina?

Fosse per me, che lo studio da trent’anni, la parola populismo potremmo anche cestinarla, ormai vuole dire troppe cose troppo diverse per troppe persone per servire a qualcosa. Ma ogni volta che s’è cercato di farne a meno è rispuntata. Per il semplice fatto che non si trovavano modi migliori di definire certi fenomeni che ne evocavano la radice, il “popolo”. Pensare di schivarla come si schiva una bestemmia per non surriscaldare il clima della democrazia lo trovo encomiabile, ma velleitario. Preferisco piuttosto uno sforzo di igiene lessicale e concettuale. Non è detto che porti a nulla, ma né più né meno di un’autocensura impraticabile. Perciò io uso la parola populista a proposito di Milei, senza fini celebrativi né demonizzanti, ma per spiegarne le implicazioni e avvertire sulle conseguenze. D’altronde l’America Latina è sempre stata il paradiso dei populismi, ci sono ragioni storiche e culturali che aiutano a spiegarlo e che qui non posso approfondire, ma i suoi populismi, populismi d’ogni tipo, di destra e di sinistra, plebei e indigenisti, cristiani e socialisti, non hanno partorito partitini ma spesso veri e propri regimi, regimi populisti. Ciò ne fa almeno in parte un fenomeno diverso dal populismo nell’Europa contemporanea, più evocativo dell’Europa tra le due guerre, dell’Europa prima del consenso liberaldemocratico postbellico, che in America Latina è lungi dall’essere stato raggiunto. Mi sentirei incoerente se non impiegassi il concetto di populismo che ho sempre impiegato per analizzare il caso di Milei. È un concetto minimalista che richiama un nucleo ideale comune a fenomeni molto eterogenei che però, a mio giudizio, ne condividono l’essenziale e l’essenziale è un immaginario nostalgico, una nostalgia unanimista. Non parlo perciò di populismo in senso triviale, come fin troppo spesso si legge o si sente, di populismo inteso come eccesso del linguaggio, demagogia spiccia, sperpero economico. La nostalgia unanimista del populismo è nostalgia di un ideale età dell’oro, di un popolo mitico delle origini corrotto da una élite che distaccandosene lo ha tradito e traviato. Ne consegue la pulsione populista a interpretare la politica come una guerra morale al “nemico del popolo”, come una lotta di liberazione del “popolo puro” dalla élite che gli impedisce di ricongiungersi col suo passato mitico, il mito dell’eterno ritorno, ben noto agli studiosi delle religioni. Se così intendiamo il populismo, e così credo che sia serio intenderlo, come una utopia escatologica, allora Milei è populista dalla testa ai piedi. Non lo è in termini economici, anzi in tali termini è l’antipopulista per antonomasia, ma lo è eccome sul piano ideale. Come un profeta, Milei invoca la tipica parabola religiosa d’ogni populismo, il passato in cui il popolo argentino era felice, unito e prospero, quando nell’Ottocento coltivava il liberalismo dei padri e l’Argentina, ama spararle grosse, era “la prima potenza al mondo”. Ma ecco il peronismo, guarda un po’ figlio della stessa parabola ma a ruoli invertiti, nato sull’onda del riscatto nazional-cattolico dalle “ideologie protestanti”, liberalismo in primis, che finisce per asservire il popolo e impoverirlo a colpi di collettivismo. Finché un giorno, un uomo della Provvidenza, nella fattispecie Milei, le leggi di Dio in mano e ispirato dalla “forze del cielo” che sempre cita, giunge a liberare dalla schiavitù il popolo e lo conduce alla terra promessa, verso la “luce in fondo al tunnel”, ama ripetere, dove risplenderà di nuovo la purezza delle origini. A liberare, beninteso, il “suo” popolo, gli “argentini per bene” dalla “casta” che lo piaga, il suo “popolo” trasformato in tutto il popolo, nell’unico popolo veramente tale, la parte in tutto, il plurimo in uno. Da ciò il suo disprezzo per chiunque dissenta dalla sua setta, gli insulti ai “traditori”, l’insofferenza per il Parlamento e i media. Come spiegavo, l’avvento di Milei è tutt’altro che casuale e si fonda su ottime e profonde ragioni. Non solo, il suo programma di liberalizzazione economica è necessario e semmai tardivo per liberare l’Argentina dalle catene del corporativismo peronista. Ma se questo non è il manuale del buon populista, allora io ho buttato inutilmente trent’anni a studiarlo senza capirci nulla. A questo punto si potrebbe però obiettare, ed è lecito farlo, che Milei è “liberale”, non aspira cioè come i populismi ad un ordine “comunitario”. Il suo populismo, dicono i sostenitori, è strumentale non sostanziale, serve a combattere il vero populismo, il populismo peronista, altrimenti indistruttibile. Sarà. Altrettanto lecito è però domandarsi se i mezzi populisti possano creare ordini liberali o se i mezzi distorcano in larga misura i fini. L’insofferenza di Milei verso le regole, le istituzioni e l’ethos della democrazia impone la domanda.

  1. Ad una prima impressione, i due argentini più celebri in questo momento, escludendo Lionel Messi, sono papa Francesco e il presidente Milei. Sono davvero agli antipodi, oppure qualcosa li accomuna?

Sono i più celebri, senz’altro, ma anche i più discussi. E sollevano una questione cui è impossibile rispondere qui ma utile per affrontare questa domanda: perché i “miti” argentini sono tutte figure d’aura profetica, facili alla sacralizzazione, profili più tipici di un pantheon religioso che di uno civile? Da Eva Perón al Che Guevara, da Maradona a Bergoglio passando ora per Milei: al loro cospetto, un Borges o un Ginobili non sembrano nemmeno argentini! Non è questione di lana caprina poiché alludono ad una cultura politica poco secolarizzata, intrisa, direbbe il Papa, di “pietà popolare”, permeata, dico io, dall’immaginario confessionale della antica cristianità, evidente sintomo dell’egemonia, dal peronismo in qua, del mito della nazione cattolica, della fusione tra nazione e religione, cittadino e fedele, Stato e Chiesa. Da ciò il fatto che molti argentini vivano la politica come religione e la religione come politica, cosa che risulta difficile da conciliare con la democrazia liberale. Chiarito ciò, abbiamo i presupposti per trattare della “strana coppia”, poiché quella di Bergoglio e Milei è davvero strana. Sono così diversi da sembrare opposti. Ma si sa che gli opposti spesso si attraggono, per certi aspetti si assomigliano. Cresciuto a pane ed Hegel, studioso di Guardini, che spesso segue passo passo, Bergoglio ha sempre teorizzato il superamento delle “polarità opposte”. Ossessionato dall’“armonia” idealizzata del “popolo mitico” delle origini, dal “tutto superiore alla parte”, sogna la “sintesi”. A prima vista, l’abisso è incolmabile: Milei è anarchico e Bergoglio olistico, uno individualista e l’altro comunitario, il primo turbocapitalista e il secondo non capitalista. In campagna elettorale s’erano menati di brutto. Per Milei il Papa era “il maligno”, sostenitore dei peggiori tiranni “comunisti” latinoamericani e dei movimenti popolari che avevano trasformato l’Argentina in un deserto improduttivo e assistenzialista. Lo diceva in modo rozzo e violento, ma qualche ragione l’aveva. Il suo vate propose addirittura di rompere le relazioni col Vaticano, vista la sua pesante ingerenza nella politica argentina. Il Papa aveva risposto per le rime: aveva messo in allerta gli elettori argentini dagli aspiranti tirannelli, piccoli Hitler in pectore. Eppure li abbiamo visti abbracciarsi e baciarsi come vecchi sodali. Milei ha celebrato il suo battesimo internazionale in ginocchio dinanzi al “maligno”! Come spiegarlo, visto che loro non l’hanno spiegato? Ovvio vi sia un implicito do ut des, che ognuno abbia la sua agenda in mente. Per Milei è una benedizione. I suoi amici internazionali erano stati finora Orbán e Bolsonaro, Vox e Trump. Il Papa lo sdogana agli occhi del mondo. Non solo: vista l’influenza del clero bergogliano sui movimenti sociali argentini, Milei potrebbe ricavarne un po’ di tregua. Bergoglio ottiene ancora di più. Cosciente o no, Milei rende così omaggio alla legge non scritta della politica argentina, alla tacita bicefalia stabilita dal mito della nazione cattolica, alla tutela del popolo di Dio sul popolo della Costituzione, della Chiesa sulla Repubblica. Perciò liscia il pelo al Papa, gli promette di prendersi cura dei “più vulnerabili” mai considerati prima, perciò i suoi deputati cercano di abrogare la legge sull’aborto appena approvata. Pensare che aveva teorizzato il libero mercato degli organi! Si osserverà che Bergoglio detesta il mercato che Milei adora. Vero, l’ha scomunicato in tutte le lingue. Ma non vive su Marte e da buon gesuita ha dimostrato per l’intera vita di sapersi adattare alle più varie circostanze. Sa bene che la situazione è insostenibile, l’inflazione fuori controllo, che molti poveri hanno votato Milei, che il suo messianismo è penetrato in profondità nel gregge cattolico. Bergoglio è sceso da tempo dalla barca dello statalismo assistenziale di cui aveva benedetto il varo: non ha mai avuto vocazione al naufragio. Non ha risparmiato critiche al sindacalismo, a cui è sempre stato molto vicino, né al clientelismo, pur gestito da suoi vecchi amici. Le arringhe demagogiche ai movimenti popolari sono consegnate agli archivi. Ora il suo modello è l’appena scoperta “economia sociale di mercato”, di cui in realtà enfatizza il “sociale” sorvolando sul “mercato”. Sospetto vi colga una specie di terza via tra liberalismo e collettivismo, una versione teutonica dell’amato peronismo. Giocoliere delle parole, s’è d’altronde sempre tenuto aperta ogni porta, riconosce la “legittimità della proprietà privata” ma invoca lo “Stato quale promotore e tutore del bene comune”. La dottrina sociale della Chiesa è un passepartout molto flessibile tra le sue mani. Come Milei, anche lui vede il pendolo della storia argentina oscillare inesorabile dal polo nazional-popolare al purgatorio “liberale”, dall’età delle cicale a quella delle formiche, dal carnevale alla quaresima. A differenza di Milei, non rimpiange l’età di Menem, ma ricorderà che Menem riscattò agli occhi della Chiesa la “nazione cattolica” ferita a morte dal “laicismo antinazionale” di Alfonsín. Milei potrebbe, mutatis mutandi, fare altrettanto! Promuovere un ciclo religioso dopo un ciclo laico, combattere sia il liberalismo laico della “destra” sia il peronismo secolarizzato della “sinistra”. Perché non cercare di sottrarlo all’orbita di Macri? Milei non è un altro Macri, soltanto più radicale, al Papa non sarà certo sfuggito: Milei è popolo, Macri era casta, il primo lo abbraccia, l’altro lo accolse con faccia da funerale. Con Milei condivide d’altronde la tipica visione populista del mondo illustrata nella precedente risposta. A Bergoglio non ci sarà voluto molto per fiutare in Milei i sintomi del suo peronismo asintomatico. Le sue infuocate omelie da arcivescovo, il suo furiosio Te Deum in cattedrale, esprimevano la stessa virulenta predica di Milei contro la casta, i politici, la classe dirigente in nome di un “popolo eletto”, il “suo” popolo. Entrambi vedono la società divisa tra un popolo puro e una élite corrotta, entrambi coltivano l’utopia, entrambi hanno un’escatologia. Non basterà per amarsi, ma aiuterà a capirsi.

  1. «Filosoficamente sono anarcocapitalista e quindi sento un profondo disprezzo per lo Stato. Io ritengo che lo Stato sia il nemico, penso che lo Stato sia un’associazione criminale». In termini siffatti si è presentato Milei in un’intervista rilasciata a Nicola Porro in tv pochi giorni fa. Una posizione ideologica di questo tipo è un assoluto inedito per la storia politica argentina, oppure si possono rintracciare dei precedenti?

No, non ci sono precedenti e parole simili danno la misura della carica dirompente impersonata da Milei, nei modi e nei gesti ancor prima che nei fatti. Modi e gesti che fanno dubitare del suo equilibrio emotivo anche tanti suoi estimatori. Il consenso di cui tali parole godono in vasti settori dà a sua volta la misura del grado di frustrazione generato da decenni di Stato corporativo e paternalista, dal patrimonialismo peronista, retaggio ispanico se ve n’è uno! Un retaggio aduso ad impossessarsi dello Stato come di un bottino, a spolparlo per premiare i clienti e castigare i dissidenti. Anche in questo, Milei dice in modo orrendo cose sensate perché lo Stato è stato purtroppo spesso, in Argentina, troppo simile ad una associazione criminale. Da ciò a paragonare “lo Stato”, ogni Stato, allo Stato argentino, ce ne corre. Ma lui ne ha fatto una filosofia, tratta da una folta letteratura anarco-capitalista che conosce bene e ha assorbito a fondo. Se un Milei è oggi possibile in Argentina, va detto, è perché negli ultimi due decenni, in parte come rigetto dell’egemonia kirchnerista e chavista, in parte perché il liberalismo argentino è minoritario ma vitale, i temi del liberalismo, sia classico che “austriaco” o di Chicago, hanno guadagnato spazio. Si nota sui media e nelle università private, dove è cresciuta una nuova generazione che ne è imbevuta, tanto che nel dibattito pubblico s’odono oggi sostenere cose che un tempo erano tabù. L’Argentina, come dimenticarlo, è il paese dei mille antiliberalismi: socialisti e cattolici, marxisti e nazionalisti, indigenisti e ispanisti. Libero mercato, concorrenza, proprietà privata, solo a menzionarli si era condannati all’ostracismo, si passava per “servi dell’imperialismo”, per antinazionali e antipopolari. Di tale iceberg sommerso Milei è la punta emergente, una punta così estrema e grottesca da non risultare granché gradita a chi, sotto il pelo dell’acqua, la sostiene. Per ovvie ragioni ed evidenti contraddizioni: il liberalismo argentino che Milei evoca a gran voce, quello dei padri della patria ottocentesca, teorizzava lo Stato minimo, ma lo Stato lo edificò! Come ovunque o quasi nel mondo latino e cattolico, anche in Argentina i liberali edificarono lo Stato per separare il cittadino dal fedele, la Repubblica dalla Chiesa, ciò che la Controriforma aveva mantenuto fuso. Per spezzare la corazza della cristianità antica, assai solida nelle istituzioni politiche ma ancor più nella mentalità popolare, il liberalismo fu o apparve spesso autoritario ed elitista. Non a caso fu spazzato via dal peronismo quando si trattò di includere le masse, quando affrontò la sfida della democrazia. Chi, meglio degli italiani, può capirlo? Per molti liberali argentini della scuola classica, perciò, Milei è sia un’opportunità sia un pericolo. Un’opportunità poiché s’apre con lui in Argentina una nuova finestra d’opportunità per le idee liberali. Un pericolo perché Milei è un liberale sui generis, così sui generis che per molti è assai poco liberale, del liberalismo rappresenta la versione più estrema e insensibile alla grammatica democratica. Sembrerebbe quasi nostalgico di un liberalismo predemocratico. Si capisce perciò che temano l’effetto boomerang, che il liberalismo argentino possa ancora una volta fallire l’appuntamento con la democrazia e rimanere travolto dalla reazione antiliberale. Non mi sento di dar loro torto.

  1. C’è chi ha definito Milei il “Trump dell’America Latina”. Secondo Lei, è corretto esprimersi così o è una semplificazione? Più in generale, che tipo di politica estera ci possiamo attendere dal presidente argentino?

Riguardo alla prima parte della domanda, eviterei. Non perché non vi sia certa aria di famiglia tra Milei e Trump e un’ammirazione reciproca espressa più volte. Entrambi coltivano un popolo mitico e combattono da crociati una casta che, dicono, l’opprime. Milei è a sua volta intriso fino al midollo di letture statunitensi, cerca nel mondo anglosassone, così individualista, quel che Bergoglio, per fare un passo indietro, ha sempre pescato in quello tedesco, così organicista. Ma i contesti sono troppo diversi e troppo diverse le circostanze. Basti dire che tanto è isolazionista e protezionista Trump quanto liberoscambista e occidentalista, almeno a parole, Milei. Soprattutto, però, pesa la storia, storia così divergente tra America Latina e Stati Uniti da far sorridere la tenacia con cui s’invocano modelli anglosassoni per spiegare o interpretare fenomeni latini. La dico in modo semplice. Per quanto Trump, non certo un democratico a 18 carati, attenti alla democrazia statunitense, e vi attenta eccome, il popolo mitico che ambisce a proteggere dalle “minacce” dell’immigrazione e della globalizzazione è impensabile al di fuori di quella democrazia, alle sue origini vi sarà sempre la Costituzione di Filadelfia. La solidità istituzionale degli Stati Uniti è in tal senso incommensurabile con quella dell’Argentina, dove, come nel resto dell’America Latina, il costituzionalismo liberale non è affatto l’unico attore in gioco e il modello organico e unanimista della cristianità ispanica, reinterpretato dai populismi nazionalpopolari, ha sempre rappresentato una poderosa alternativa. Non è certo ad esso che si ispira Milei, ci mancherebbe, ma ciò spiega la fragilità costitutiva delle democrazie latinoamericane, assediate da un retaggio che le disprezza, e il frequente ricorso del liberalismo, per affermarsi, a metodi autoritari ed elitisti. Metodi che lo discreditano mentre rafforzano il suo nemico. Riguardo alla seconda parte della domanda, non c’è alcun dubbio che Milei porterà l’Argentina su posizioni filooccidentali. L’ha annunciato e lo farà. Così è sempre stato: i governi nazionalpopolari erano non allineati e antioccidentali, quelli liberali l’opposto. Il punto però è che mentre un tempo era abbastanza facile distinguere l’Occidente dai suoi nemici poiché in seno all’Occidente esisteva un generico consenso liberal democratico, oggi le cose temo stiano diversamente. Con quale Occidente si schiererà dunque Milei? Quello di Biden o quello di Trump? Di Macron o di Le Pen, per fare due esempi a caso? Il suo cuore batte coi secondi, poco ma sicuro.

  1. Fermo restando che uno storico, così come uno scienziato politico e sociale, non si avventura in previsioni, tanto meno in profezie, che cosa è plausibile attendersi nei prossimi mesi in Argentina rispetto alle politiche annunciate, e in parte già avviate, da Milei?

È tutto talmente fluido e confuso, che nessuno si azzarda a fare previsioni. Milei è partito per fare la rivoluzione ma per ora ha fatto soprattutto una gran confusione. Il che non vuol dire che non abbia portato a casa nulla e nulla porterà a casa in futuro. Flessibilizzare il mercato del lavoro, tagliare la spesa pubblica, colpire l’enorme potere sindacale, aprire il mercato alla concorrenza, tagliare le mille irrazionali sovvenzioni e portare i prezzi al loro effettivo valore, privatizzare le imprese pubbliche in perdita che alimentano il clientelismo politico, razionalizzare la spesa assistenziale. E strangolare l’inflazione, la madre di tutte le battaglie. Il compito, come si vede, è titanico. Dietro ognuna di tali misure vi sono poderosi interessi, ma anche il destino di individui e famiglie. Milei ha pensato bene di affrontare tutto insieme e tutto agli inizi, di battere il ferro finché è caldo, di combattere tutti i nemici nello stesso tempo, pur avendo pochi deputati nel Congresso e alleati che fino a ieri ha preso a sassate. Sarà il miglior cammino? Eccolo così presentare prima un mega-decreto “di necessità e urgenza”, presto sommerso da fondati ricorsi legali, e poi una sola legge con oltre 600 articoli che vanno dalla legge elettorale alle tariffe commerciali, dalla pesca al codice civile, dal fisco al teatro, un pot pourri che il Parlamento ha fatto, come prevedibile, a pezzi. Rimanevano comunque oltre 200 articoli assai rilevanti, bastava un po’ di flessibilità e qualche concessione in più per ottenerne l’approvazione, ma Milei è uomo da tutto o nulla, da prendere o lasciare, non è un politico ma un antipolitico, ama gli applausi della folla più che i voti dei deputati, per cui al vederne cadere alcuni ha ritirato la legge, coperto d’insulti i “traditori” e sparato violenti tweet a destra e a manca. Guai a parlargli di “creare consensi”, s’infuria e diventa paonazzo. Come non fosse eletto dallo stesso popolo che ha eletto lui, il Parlamento è “la casta”, fosse per lui ne farebbe a meno e a meno cerca di farne. Ma sarà liberale governare sempre per decreto? Chiedendo deleghe al Parlamento per ergersi a monarca? Come un Maduro qualsiasi? È vero, ha ragione a dire che così hanno sempre fatto i peronisti. Ma se i liberali fanno come i peronisti, si chiedono in molti, non finirà mai, ad ogni oscillare del pendolo l’uno distruggerà quello che l’altro ha costruito sulla sabbia. Perché dico questo? Perché penso che non è tanto questione di cosa Milei riuscirà a fare: abbastanza, credo, il vento spira a suo favore, per ora la maggioranza degli argentini lo sostiene. La domanda è se lo farà consolidando o distruggendo l’impianto istituzionale, se costruirà una casa di mattoni o di paglia. Se l’avrà consolidato, le sue riforme potranno resistere alla risacca nazionalpopolare, che prima o poi ci sarà e sarà estesa e, temo, violenta. Se invece avrà giocato a distruggerlo è molto elevato il rischio che siano spazzate via. La questione è dunque se il profeta Milei saprà trasformarsi nello statista Milei. Ad occhio sembra improbabile, ad oggi pare impossibile, profeta è e profeta ama essere. Ma è ciò su cui scommettono i suoi alleati, specie il partito di Macri: civilizzare il barbaro. Ci provano, ma sanno di giocare col fuoco, che rischiano di bruciarsi e di essere trascinati nelle fiamme.

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