Valerio Vagnoli (1952) si è laureato in letteratura italiana moderna e contemporanea con Luigi Baldacci. Dal 1973 al 2007 ha insegnato in tutti gli ordini di scuola, inclusi gli istituti penitenziari di Firenze. Rimane fondamentale la sua esperienza di maestro nel carcere minorile e nella sezione femminile del carcere di Sollicciano (sembra sia stato il primo docente maschio a ricoprire questo ruolo in Italia) ove peraltro incontrò e lavorò con Antonio Gelardi, già allora un illuminato giovane vicedirettore e in seguito uno dei direttori carcerari più innovatori del nostro Paese. Dal 2007  ha diretto scuole di ogni ordine e indirizzo chiudendo dopo 44 anni la propria attività all'Istituto professionale Saffi di Firenze. E, non a caso, sull'importanza di ricostruire  una autentica formazione professionale nel nostro Paese continua a mantenere  un costante e motivato impegno. Ha fatto parte del “Gruppo di Firenze” e collabora da tempo con quotidiani e riviste.

Un collega, oramai in pensione e con il quale ho una familiarità consolidata nel tempo, mi ha inviato la sua relazione per il superamento dell’anno di prova di quando, per aver superato il concorso per l’insegnamento di materie letterarie nelle scuole superiori, ebbe la cattedra in un istituto tecnico senese. Poveretto, c’è da capirlo! Quando si è in pensione per non pensare al futuro, non conviene, credetemi, si guarda piuttosto al passato. Comunque sia, di quell’ampia e articolata relazione mi sono permesso di estrapolare alcune riflessioni che sottopongo all’attenzione soprattutto dei neo-immessi in ruolo a cui va il mio sincero in bocca al lupo. La relazione si riferisce all’anno scolastico 1985/86.

Vorrei fare presente che compito dell’insegnante è anche quello di essere educatore. Svolgere la funzione docente nel solo veicolare le informazioni in nostro possesso agli allievi significherebbe rendere la scuola, e il nostro compito, asettico ed incapace d’essere davvero costruttivo nei confronti della società, come peraltro la stessa Costituzione ci richiede. L’insegnante è sempre educatore nei confronti dei suoi allievi anche quando presenta loro la più ovvia delle operazioni o la più elementare delle informazioni perché anche queste attività sono veicolate dalla sua personalità e dalla sua etica professionale oltreché, beninteso, dalla propria preparazione, che si spera debba essere sempre adeguata.

 Insieme a questi princìpi non posso fare a meno di ribadire l’inopportunità che nella didattica e nella nostra funzione docente sia sempre più invadente lo spirito delle idee correnti e di “mode pedagogiche” spesso veloci ad entrare nel mondo scolastico e altrettanto repentine ad uscirne. Questa sistematica adesione al “nuovo” a tutti i costi, tanto caldeggiata dai cosiddetti innovatori, nel frattempo procura danni non indifferenti soprattutto ad allievi che avrebbero, per le loro condizioni socio-culturali, necessità di punti fermi, rassicuranti e per questo solidamente sperimentati a proposito della loro efficacia didattica. Occorre pertanto che la propria personale metodologia abbia delle forti, incisive ed efficaci basi in un’etica professionale nient’affatto improvvisata, ma trovi invece le radici nella personale formazione culturale, negli esempi proficui dei propri maestri, se si è avuta la fortuna di averli incontrati, in un costante aggiornamento indirizzato al mondo della cultura e della didattica, ma anche a fatti rilevanti della vita quotidiana che, quando occorre, deve essere commentata e rivisitata insieme ai nostri allievi anche sollecitando eventuali parallelismi con la storia curriculare oggetto di studio.

Sono soprattutto questi i riferimenti attraverso i quali mi sono avvicinato al mondo della scuola, ed è con queste convinzioni che ancora oggi, dopo quasi 13 anni d’insegnamento per la maggior parte svolto nelle scuole di altro ordine e grado, ogni giorno in cui mi trovo di fronte ai miei allievi trovo il medesimo stimolo e la medesima curiosità di quando ho iniziato questa professione. Insomma, ogni giorno tocco con mano, come avrebbe detto una mia meravigliosa e famigliare maestra, che lavorare per e con i giovani significa anche lavorare per se stessi.

Mi corre l’obbligo di sottolineare quanto sia importante per l’insegnante adoperarsi affinché riconosca nell’intero gruppo della classe anche le particolari caratteristiche di ciascun componente: il carattere, i problemi, le esigenze e, ancor più importante, le carenze che differenziano i singoli da tutti gli altri. Ritengo che sia soprattutto il superamento, o almeno un sostanziale abbattimento di queste ultime, che ci può permettere, alla fine, di creare un vero gruppo-classe e in quanto tale abituato alla solidarietà, ad un lavoro di ricerca comune e ad un obiettivo altrettanto condiviso: il rispetto per i compagni e una consapevole stima reciproca.

È anche per questi motivi che con i ragazzi delle due prime di quest’anno (1985), gran parte del programma d’Italiano è stato indirizzato verso il recupero delle loro particolari carenze logico-sintattico-espressive. In particolare sono state messe in atto ricerche di analisi linguistica legate al loro variegato ambiente geografico e famigliare (amiatino, grossetano, Val di Chiana, Valdelsa…). La ricerca si è indirizzata verso il mondo del lavoro artigianale (gran parte degli allievi proviene da quel contesto), in particolare sugli strumenti di lavoro e sugli oggetti prodotti. Tutto ciò è stato utile, non tanto per una sorta di ricognizione linguistica da risolvere in una sua ordinata catalogazione, ma soprattutto per far prendere consapevolezza di come la lingua stia appiattendosi e omologandosi su quella propinata dai media sempre più invasivi e per questo gli effettivi formatori dell’attuale linguaggio dei ragazzi. Molti di loro, occorre farlo presente, sono i primi delle rispettive famiglie a frequentare una scuola superiore. (Segue un’ampia e scrupolosa disanima degli altri argomenti trattati durante l’anno e sulla ricaduta formativa e culturale che questi hanno, o non hanno, avuto. Quindi la conclusione…).

Occorre tuttavia concludere questa relazione e mi sembra per questo opportuno richiamare le premesse da cui essa è iniziata e ricordare perciò che ogni programmazione, qualsiasi accurato processo tassonomico, qualsiasi sconfinamento nelle sperimentazioni più o meno avanzate hanno un sincero e onesto valore se non prescindono dalla realtà dei singoli allievi e dell’intera classe. Dovrà essere da questa realtà che il docente farà partire il proprio processo educativo, contenutistico e formativo. Il docente che parla a se stesso e va incurante per la sua strada rassomiglia ad una falena che sbatte inutilmente le ali su un vetro chiuso della finestra finché non cede alla stanchezza senza aver così scoperto cosa vi sia oltre quel vetro.

P.S.: Alla copia della sua relazione il collega ha infine aggiunto la seguente postilla:

 Ho lavorato sino alla fine della mia esperienza professionale seguendo questi princìpi. Alcuni dei miei colleghi che ho conosciuto e che inneggiavano al nuovo a tutti i costi, li ho poi perduti per strada perché, spesso, hanno abbandonato la scuola per distaccamento sia all’interno dell’amministrazione scolastica che in varie associazioni sindacali e professionali. Di solito si trattava di docenti molto motivati politicamente e sindacalmente ma refrattari alla quotidianità del lavoro in classe che è fatto di routine e noia solo per coloro che si ritrovano ad insegnare perché non avevano altre aspettative se non quella per uno stipendio, seppur inadeguato, di cui nessuno gli avrebbe mai chiesto conto.

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