La Redazione di IPS
Byung-Chul Han può vantare ottime ragioni per essere considerato uno dei pensatori più interessanti del panorama intellettuale contemporaneo.
Nato a Seul, in Corea del Sud, nel 1959, si trasferì in Germania all’inizio degli anni ’80 per studiare filosofia, addottorandosi presso l’Università di Friburgo con una tesi su Martin Heidegger. Intellettuale curioso, ha frequentato molti ambiti disciplinari, dall’etica alla filosofia sociale, dalla fenomenologia all’antropologia, dall’estetica alle comunicazioni di massa, con una particolare attenzione ai cosiddetti «cultural studies», interpretati in chiave interculturale. Dal 2012 occupa la cattedra di filosofia e studi culturali presso l’Università delle Belle Arti di Berlino.
Il suo pensiero, che è il frutto dell’incontro tra le categorie della filosofia tedesca di matrice fenomenologica con il suo retroterra culturale orientale, si traduce in una puntuale e irriducibile requisitoria della società contemporanea – sviscerata nelle sue piaghe con la stessa acribia che un buon anatomopatologo dedica ad un cadavere (la metafora è tutt’altro che casuale). Giusto per offrire qualche sommaria, ma corretta informazione in proposito, con l’auspicio di suscitare la curiosità del lettore – al quale eventualmente raccomandiamo la lettura diretta dei suoi saggi, peraltro abbondantemente tradotti in italiano – approfittiamo di quanto scritto su La mente è meravigliosa (https://lamenteemeravigliosa.it/byung-chul-han-pensiero/).
S’inizia col concetto di «autosfruttamento»:
Gran parte delle riflessioni di Han ruotano intorno al modo in cui oggi intendiamo il lavoro. In un’intervista ha riassunto in maniera lapidaria il suo pensiero al riguardo affermando: “Oggi arriviamo a sfruttarci da soli, nella falsa convinzione che ci stiamo realizzando”. Per Han, l’uomo contemporaneo segue acriticamente il dettato sociale: fa’ tutto ciò che PUOI. Fino a qualche tempo fa era invece tenuto a fare quello che DOVEVA. Oggi l’essere umano crede di dover raggiungere il “successo” a ogni costo, anche andando contro se stesso, e cade in uno stato di profonda angoscia se non vi riesce. Il potere non ha nessun bisogno di applicare metodi di coercizione. Tutti si sottopongono a questo regime di lavoro e di consumo in maniera completamente volontaria.
C’è poi la questione della «comunicazione», che è centrale per una creatura naturalmente socievole come l’Uomo:
Nelle opere di Byung-Chul Han vi sono anche costanti riferimenti ai fenomeni della comunicazione come li osserviamo oggi. Sostiene che le relazioni sono ormai state sostituite dalle connessioni. Oggi ci si limita a stabilire un mero collegamento tra fonti di informazione sparse per il mondo. Sottolinea che senza la presenza fisica altrui non può esserci comunicazione, ma solo scambio di informazioni. Tutti i sensi, tranne la vista, stanno così cadendo in disuso. Ed ecco perché, sotto certi aspetti, la comunicazione si è notevolmente indebolita. A loro volta, le persone guardano solo i loro “simili”, quelli cioè disposti a ricambiare i loro “mi piace”. Dove trovare le differenze, allora?
A proposito di socialità, poi, nella società contemporanea è in crisi il concetto di «altro»:
Quello di “altro” è uno dei concetti più in crisi nella società di oggi, che sembra avere come unico slogan il conformismo. Le “tendenze” e il “virale” non sono altro che manifestazioni di questo desiderio di appartenere a una collettività che marcia all’unisono. Han sostiene che, quanto più siamo uguali, più aumenta la produzione. Secondo il suo giudizio, le divergenze vanno contro gli obiettivi del neoliberismo. Se fossero solo alcuni, per esempio, a usare gli smartphone e altri no, il mercato ne risentirebbe senz’altro. Allo stato attuale delle cose, invece, sperimentiamo un conformismo radicale, un’immensa passività che riduce l’essere umano alla condizione di cliente o produttore.
Infine, si cita un riferimento alla questione del «tempo» nella iper-dinamica società contemporanea:
[…] Han sostiene la necessità di una vera e propria rivoluzione nella gestione del tempo. Oggi prevalgono la velocità e la transitorietà. Tutto viene fatto nel modo più veloce possibile, e non appena si raggiunge un obbiettivo, si è già pronti a passare oltre. È una guerra costante all’idea di permanenza. Per un pensatore come Han, è essenziale recuperare il tempo personale, cioè quello in cui ci dedichiamo a noi stessi. Tempo proprio, da vivere al di fuori del sistema produttivo. Recuperare i momenti di ozio e i momenti per divertirsi. Ritagliarsi del tempo per essere improduttivi, un’idea diversa da quella di “pausa” che è solo un altro dei modi per renderci più efficienti al lavoro.
Già da questi indizi, possiamo facilmente dedurre qual è, secondo Han, l’origine dei mali che si abbattono sull’umanità nella società contemporanea: il regime neoliberale, che come un cancro si è trasmesso in metastasi in tutti i settori della società, finanche a viziare la condizione antropologica stessa. Ma in questa sede ci interessa soffermarci ovviamente su un settore in particolare, quello della scuola. Han vi giunge da un percorso apparentemente distante, quello della ritualità. Lo seguiremo in questo percorso, compiuto nel saggio La scomparsa dei riti (trad. it. di S. Aglan-Buttazzi, Nottetempo, Milano 2021).
I riti sono azioni simboliche. Tramandano e rappresentano quei valori e quegli ordinamenti che sorreggono una comunità. Creano una comunità senza comunicazione, mentre oggi domina una comunicazione senza comunità. A costruire i riti è la percezione simbolica (p. 11).
La percezione simbolica, intesa come riconoscimento, percepisce ciò che dura: il mondo viene liberato dalla propria contingenza e ottiene un che di permanente. […] I riti si lasciano definire nei termini di tecniche simboliche dell’accasamento: essi trasformano l’essere-nel-mondo in un essere-a-casa, fanno del mondo un posto affidabile. Essi sono nel tempo ciò che la casa è nello spazio (p. 12)
Le cose sono il punto fermo, stabilizzante della vita. I riti hanno la medesima funzione: stabilizzano la vita per mezzo della propria medesimezza (Selbigkeit), della loro ripetizione (Wiederholung). Rendono, dunque, la vita resistente (p. 13).
I riti si sottraggono all’interiorità narcisistica e la libido dell’Io non vi si può agganciare dal momento che, se si concede loro, deve prescindere da se stessa. I riti producono una distanza da sé, una trascendenza da sé. Essi de-psicologizzano, de-interiorizzano chi li inscena. Nell’epoca attuale la percezione simbolica [tipica dei riti, n.d.r.] scompare sempre più a favore di una percezione seriale incapace di esperire la durata. […] Mentre la percezione simbolica è intensiva, la percezione seriale è estensiva, e per via della sua estensità porta con sé un’attenzione piatta. L’intensità, al giorno d’oggi, cede ovunque il passo all’estensità. La comunicazione digitale è una comunicazione estensiva […] Il regime neoliberale forza la percezione seriale e rafforza l’attitudine al seriale. Cancella consapevolmente la durata per costringere a un maggior consumo (pp. 17-18).
La ripetizione è il tratto essenziale dei riti. Si differenzia dalla routine in quanto capace di generare una particolare intensità. […] La ripetizione come riconoscimento è […] una forma compattante: il passato e il futuro vengono compattati in un presente vivo. In quanto tale, essa stimola la durata e l’intensità, fa sí che il tempo indugi (p. 19).
E finalmente:
Il disturbo da deficit di attenzione scaturisce da un incremento patologico della percezione seriale. […] La profonda attenzione, in quanto tecnica culturale, si costruisce proprio a partire dalle pratiche rituali e religiose. […] Oggigiorno molte forme di ripetizione come l’imparare a memoria vengono tacciate di opprimere la creatività, l’innovazione, ecc. Imparare a memoria in francese si dice apprendre par cœur. È evidente che le ripetizioni, da sole, arrivano al cuore (pp. 18-19).
Si tratta di idee appena accennate; ma che sono comunque il precipitato di una riflessione più ampia e sistematica, che giustifica la loro utilità nel pensare la scuola contemporanea.