Enrico Orsenigo (1992), psicologo iscritto all’Ordine degli Psicologi del Veneto, è Ph.D. Student in Learning Sciences and Digital Technologies all'Università degli studi di Modena e Reggio Emilia. Nei suoi articoli si occupa di psicologia clinica, psicologia dello sviluppo, psichiatria fenomenologica e filosofia della tecnica.

L’intera storia dei paesi dell’Asia Centrale è una storia di invasioni, di accumuli e filtraggi costanti della conoscenza, di incontri e scontri tra religioni che, attraverso i mercanti, stringevano relazioni in queste aree del mondo sulla via di Pechino o di Venezia. Qui i caravanserragli hanno ospitato mercanti e spie, rifugiati e vagabondi, nondimeno animali, piante, tessuti, alimenti ricevuti per lecito scambio o trafugati e rubati. Tuttavia, la merce più preziosa e allo stesso tempo più ricercata era evidentemente la conoscenza: nelle diverse vie della seta a ‘muoversi’ erano prima di tutto le idee.

L’Asia Centrale, luogo di scambio e relazione per eccezione, è tuttavia una delle zone del mondo la cui indipendenza politica, economica e culturale ha sempre incontrato numerosi ostacoli a causa di invasori la cui potenza, in tutti i campi, ha sempre vinto. Mongoli, russi, inglesi e cinesi, ma non solo, da più di mille anni occupano sistematicamente queste zone continuando a segnare non solo le vite di interi popoli (cambiando, di secolo in secolo, usanze, lingue e in definitiva habitus) ma anche il territorio; ad esempio, possiamo pensare ai tentativi di deviazione di fiumi da parte dei russi in Uzbekistan e Turkmenistan, a volte per raggiungere più facilmente l’India del Nord, altre volte per effettuare rapide e sempre più incisve invasioni dell’Afghanistan.

Viaggiare oggi in questi paesi significa incontrare delle città che vivono una nuova riorganizzazione, prima di tutto commerciale. Milioni di turisti, ogni anno, sono interessati a visitare le zone che hanno segnato la storia del commercio eurasiatico. In realtà, all’occhio critico, bastano pochi giorni per rendersi conto che non esistono più le Xiva e Samarcanda storiche e delle narrazioni. Esistono città che durante l’Unione Sovietica hanno avviato forti rivalutazioni dei siti storici, nondimeno apportando modifiche significative che hanno contribuito sì a ricostruire alcuni siti centrali della storia di questi paesi (pensiamo al Registan di Samarcanda) ma altresì a mutarne definitivamente l’immagine (sempre il Registan, presenta da decenni le famose cupole azzurre, colore non originale, studiato e poi realizzato a partire da studi archeologici russi).

La ricostruzione di siti, e talvolta di interi quartieri, consente oggi al visitatore di spostarsi con un certo agio dentro le città il cui valore storico, però, richiede uno sforzo immaginativo davvero notevole. Infatti, con le numerose invasioni sopra citate, queste città sono costituite da numerosi strati la cui estetica unisce le società europee, l’architettura brutalista di matrice russa, le maioliche giunte attraverso la Turchia e la Persia. Tuttavia, tra questi stili, e ad un primo impatto, sembra valere soprattutto lo stile dell’ex Unione Sovietica, sia per quanto riguarda la costruzione e l’organizzazione architettonica dei quartieri e delle metropolitane, sia per la gestione della rete dei trasporti (una buona parte dei treni risale all’epoca sovietica, e così le stazioni ferroviarie salvo quelle delle tappe più turistiche che negli ultimi anni hanno subito dei restauri).

La politica, negli ultimi tempi, deve fare i conti anche con il problema dei siti storici abbandonati. La città di Xiva, per esempio, luogo centrale della via della seta che univa Venezia a Pechino, conta un numero significativo di mederse e moschee abbandonate e che solo nell’ultimo decennio sono state convertite in luoghi o turistici o per altri utilizzi. Non è raro, però, incontrare siti religiosi ancora abbandonati ma accessibili: questa è un’occasione che, per analogia, consente di osservare lo stato finale di un certo islam che prima dell’invasione sovietica, qui, aveva preso una sua forma originale e unica, e che si caratterizzava per le fortissime relazioni con il mondo scientifico del paese e per l’interesse nei confronti dei mercanti “portatori” di un altro sapere, un altro credo.

In alcuni di questi luoghi abbandonati, che come già detto sono perlopiù ex luoghi religiosi e spirituali, che hanno giocato un ruolo centrale nella formazione di un certo assetto culturale di intere generazioni di credenti e non, ora si tenta di ricreare delle situazioni alternative, non raramente capaci di far fruttare economicamente il luogo. Qualche esempio: la conversione di una medersa a Xiva in zona di allenamento circense; la conversione dei luoghi di soggiorno e riposo di una antica medersa in piccole aree museali (in queste zone la cultura museale è alle prime armi, e tra le teche si possono incontrare oggetti esageratamente comuni come “una mela” o “una pera” o “una pecora brutta”, quest’ultima didascalia sotto una pecora a due teste imbalsamata).

Per tornare al tema storico delle invasioni e di come queste hanno segnato e continuano a segnare le continue mutazioni dell’assetto socioculturale dell’Asia Centrale, che nella storia ha risentito profondamente di questa scarsa possibilità di stabilizzare in culture può o meno definite e definibili le usanze, si deve rilevare l’enorme complessità impossibile da cogliere attraverso i cliché e le generalizzazioni e che spesso emergono quando si parla di questa zona del mondo senza effettuare le distinzioni tra stato e stato. Tuttavia, qualche similarità esiste e proprio su queste si possono costruire delle riflessioni riguardanti i fenomeni estesi all’intera area.

Prima di tutto, il 1991 dove comincia una nuova fase del Grande Gioco, con la caduta dell’URSS. Nascono le Repubbliche indipendenti dell’Asia Centrale, e così si sviluppano delle politiche le cui manovre vengono stabilite da uomini cosiddetti “forti”; nonostante le personalità da un lato carismatiche e dall’altro centrate in una nuova visione del potere (più che del sapere), queste nuove politiche, ancora una volta, si sono ritrovato entro un Grande Gioco a controllo esterno: non più, come nell’Ottocento, Russia e Inghilterra; dal 1991, gli scenari degli -stan vengono influenzati da USA, Russia e Cina. Gli uomini “forti” al comando dal secondo dopo guerra fino a Gorbaciov, si sono dimostrati profondamente devoti all’impero; basta pensare all’accettazione della monocultura del cotone o alla concessione degli spazi del Lago di Aral (sia nel lato uzbeko che in quello kazako) per gli esperimenti russi durante la Guerra Fredda.

Nel dicembre 1991 prende vita la Comunità di Stati Indipendenti (CSI) e nelle cinque Repubbliche centro asiatiche quattro vengono sin dal principio comandate da ex appartenenti all’élite comunista – Karimov, Nazarbaev, Niyazov, Rakhmonov. Le strutture burocratiche della politica, nonostante lo scollamento dell’impero, non subiscono una mutazione profonda; salvo la rivisitazione di alcuni nomi di partiti, al potere rimane quello comunista. Tuttavia permangono e si rafforzano anche le forze del fondamentalismo islamico che in questa nuova fase vivono una nuova nascita data proprio dalla situazione di anarchia post-sovietica.

Il primo scontro tra uomini “forti” e fondamentalismo islamico unito a nazionalisti del Pamir scoppia in Tagikistan: una guerra civile appoggiata da Mosca e che vuole colpire prima di tutto l’Opposizione Tagika Unita. Solo nel 1997 si giunge ad un trattato di pace che parzialmente riporta ad una situazione di ordine interno. Il Tagikistan rimane uno tra gli stati del mondo che presentano una maggiore tensione interna e nei confini, tuttora parzialmente minati.

Considerata la tendenza all’anarchia post-sovietica, i governi decidono di implementare le proprie forze militari, cercando comunque di mantenere solide le forme di tutela russa. L’atteggiamento nei confronti delle opposizioni islamiche diventa repressivo e di sorveglianza (gli stati dell’Asia Centrale, l’Uzbekistan in prima posizione, detengono per tutti gli anni novanta la nomea di stati con il maggiore numero di spie all’interno). Nonostante le relazioni tra le ex Repubbliche sovietiche e la Russia, l’ultimo decennio del XX secolo non segna ancora la nascita delle strategie dei player internazionali per ridefinire interessi ed economie della zona. USA e Cina, dopo la caduta dell’URSS e fino ai primi anni del nuovo secolo, vedono le nuove Repubbliche “in naturale transizione” verso le forme neoliberiste. Da qui, comincia la seconda fase del Grande Gioco che vede al centro la questione degli oleodotti che andrà a influenzare il Caucaso e il Medio Oriente e dall’altro lato la Cina e in particolare le zone di confine dell’Asia Centrale con lo Xinjiang.

Molto cambia dopo l’attentato dell’11 settembre 2001. Russia e Cina iniziano a sospettare nei confronti degli USA che riferiscono di voler utilizzare l’Asia Centrale solo come zona strategico-militare, avamposto per il rifornimento dei mezzi militari e come luogo di partenza per le ricognizioni nelle missioni afghane. L’inizio del nuovo secolo è segnato dalla preoccupazione, internazionale, delle nuove forme di radicalismo islamico. Gli uomini “forti” al governo delle Repubbliche vengono autorizzati più di quanto non venivano autorizzati, anche implicitamente, prima dell’attentato, ad una politica di controllo e repressione; anche la Cina ‘solleva’ nuovamente e in maniera decisamente più forte rispetto ai decenni precedenti il “problema” delle minoranze musulmane ad Ovest e Sud-Ovest del paese. Prima di tutto, musulmani uiguri e ancora una volta buddhisti tibetani.

Islam Karimov, in Uzbekistan, concede agli americani l’utilizzo della base K2, Karshi Karabad, strategica per la vicinanza al confine nord dell’Afghanistan. Non solo: gli americani vengono autorizzati a sorvolare per intero il paese e ad utilizzare, oltre a K2, installazioni ausiliarie. Karimov, che sviluppa una repentina sintonia con Bush e che sposa in toto la Global War On Terror di quest’ultimo, curva a suo favore l’intera situazione di tensione centro-asiatica imprigionando migliaia di oppositori politici, musulmani e non. Questo naturalmente non vede l’appoggio esplicito da parte di Bush perché la GWOT resa operativa nella versione di Karimov si sviluppa in maniera decisamente repressiva nei confronti di coloro che, in generale, esprimono dissenso verso il governo uzbeko.

I rapporti tra Washington e Karimov iniziano ad incrinarsi quando, dopo una serie di eventi estremamente violenti autorizzati dal governo uzbeko (per esempio, le repressioni che hanno condotto a centinaia di uccisioni nella Valle di Fergana, i sistemi di sicurezza applicati sempre in questa Valle), Washington decide di incontrare le più alte autorità dell’opposizione. Dopo questi incontri, prendono vita una serie di impedimenti burocratici e limitazioni che il governo uzbeko impone agli americani nelle loro missioni afghane. Prima di tutto, limitate autorizzazioni nelle installazioin ausiliarie e una richiesta di pagamento superiore per la base K2. Alla fine del 2005, l’Uzbekistan, entra definitivamente nell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva coordinato dalla Russia.

Le missioni americane nella zona subiscono a questo punto una revisione drastica, con la necessaria formazione di una nuova rete di trasporto dei rifornimenti per le truppe che si trovano in territorio afghano. Si cerca di dare vita, con grande difficoltà, al Northern Distribution Network, una rete logistica a tre percorsi con l’intento di trasportare materiali non bellici. Il primo percorso si estende dai paesi baltici e attraverso la Russia; il secondo, dal Caucaso e attraverso il Mar Caspio; il terzo dal Kazakistan e lungo i territori del Kirghizistan e del Tagikistan. Si tratta di una nuova fase dei rapporti commerciali tra le Repubbliche e gli USA, che nel frattempo vedono incrinarsi il rapporto con il Pakistan, sempre più instabile politicamente e socialmente.

(Fine prima parte)

 

 

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