Edoardo Tabasso, sociologo e ricercatore, insegna presso l'Università di Firenze e l'Italian Diplomatic Academy per la formazione e gli alti studi internazionali. Autore di numerose pubblicazioni, tra cui saggi e studi sulla storia sociale della comunicazione, le teorie complottiste, gli scritti e i discorsi di Bettino Craxi (1976-1993).
Il realismo politico, tra guerre culturali, immigrazione e derive multiculturali
Incipit
“Distratto” dalla pandemia globale, il nostro mondo sembra essere arrivato al punto finale del globalismo, ovvero di quella visione iper-ideologica senza se e senza ma della fase di globalizzazione, iniziata con il crollo del Muro di Berlino.
Dopo il 1989 gli Stati nazione sembravano divenire residuali, in attesa della loro scomparsa nella post-storia che avrebbe dovuto aprire l’età della post- democrazia, del post-nazionale, quella della pace universale. Nella democrazia cosmopolita del futuro non si sarebbero più avuti né nazionali né stranieri, né cittadini né immigrati. E tutti gli umani sarebbero divenuti mobili. È (stato) l’abbaglio ideologico del postmodernismo politico smontato con vis polemica, tra gli altri, da Pierre-André Taguieff nell’articolo L’immigrationnisme, dernière utopie des bien-pensants, pubblicato su “Le Figaro” del 9 maggio 2006.
Dell’intercultura
Al concetto di integrazione sono legati strettamente altri due, solo apparentemente simili tra di loro: multiculturalismo e interculturalismo. Per multiculturalismo si intende una politica che mira a tutelare l’identità culturale dei vari gruppi etnici di un Paese, mentre l’interculturalismo è la tendenza a favorire scambi e rapporti tra culture diverse.
In sostanza il multiculturalismo prevede la presenza di più gruppi di diverse culture in un unico contesto, che tendono prevalentemente all’autoreferenzialità e alla conservazione della propria cultura così com’è. Potrebbe idealmente essere considerata come una forma di società oggetto di immigrazione ma nella quale deve ancora avvenire integrazione. L’interculturalismo è invece un ripensamento della propria identità anche in relazione all’altro per crearne una nuova condivisa, un parziale sradicamento dalla cultura originaria per venire incontro alle altre, al fine di avere un contesto armonico e non conflittuale.
Tra gli attacchi all’educazione “multiculturale” spicca l’asserzione di Allan Bloom, secondo cui solo nelle nazioni occidentali, cioè in quelle influenzate dalla filosofia greca, c’è qualche propensione a dubitare dell’identificazione del bene con il proprio stile di vita. Riconoscere le differenze non vuol dire giudicare valide solo le norme stabilite dalle tradizioni locali oppure rifiutarsi di accettare criteri morali validi per ogni cultura. In democrazia molti aspetti portano ad un attacco contro la consapevolezza della differenza, la tirannia più riuscita – sostiene sempre Bloom ne La chiusura della mente americana – non è quella che usa la forza per assicurarsi l’uniformità, ma quella che elimina la coscienza di altre possibilità, che fa sembrare inconcepibile che siano fattibili altri modi.
Armi di migrazione di massa
Fra le conseguenze dirette delle varie crisi concatenatesi a partire dalle Primavere arabe c’è la marea di profughi che ha investito l’Europa. E qui non si tratta solo di gestire i flussi migratori, ma anche fronteggiare una minaccia ben più grave: quella legata alla possibile perdita di sicurezza dei nostri confini politici e culturali.
Se i risultati e i costi dell’immigrazione si pagano dopo anni e per anni, le spaccature politiche si evidenziano più velocemente. Sotto pressione è anzitutto il sistema politico che, polarizzandosi tra pro e contro i nuovi venuti, può facilmente rendersi vulnerabile al ricatto, al punto da affidare le proprie frontiere a partner dalla dubbia autorevolezza democratica. Fu Gheddafi a darne una dimostrazione nel 2004, quando ottenne la revoca delle sanzioni da parte dell’Unione Europea. La paura dell’immigrazione e dell’arrivo di masse di rifugiati può divenire un’arma per alimentare, manipolare e sfruttare il fenomeno migratorio. Come almeno dal 2016 sta facendo il presidente turco Receyp Erdogan, utilizzando gli immigrati turchi e i rifugiati siriani contro l’Europa.
I flussi migratori da tempo rappresentano da tempo “un’arma di guerra” che rientra nel novero di quelle non convenzionali impiegate nella cosiddette “guerre asimmetriche”, al pari del terrorismo, della manipolazione dei media, della pirateria informatica. E il provocatorio libro di Kelly Greenhill, dal titolo Armi di migrazione di massa per la Leg Edizioni, descrive senza filtri emotivi il fenomeno delle migrazioni di massa dal punto di vista strategico. Dalla Convenzione sui rifugiati del 1951 a oggi la Greenhill analizza una cinquantina di tentativi di migrazione forzata tra quelli creati deliberatamente e quelli manovrati. I boat people cubani verso gli Usa, i conflitti africani degli ultimi trent’anni, la Corea del Nord nei confronti di quella del Sud. E ancora l’episodio emblematico di Deng Xiaoping che silenziò un Carter ansioso per la scarsa libertà di movimento dei cinesi chiedendo quanti ne volesse: un milione, dieci, trenta? E ancora tra l’Italia e l’Albania di Berisha, tra la DDR e la Repubblica federale tedesca.
Il saggio mette in evidenza come le migrazioni siano uno strumento utilizzato in situazione di confronto asimmetrico. E come governi autoritari, attori non statali e gruppi armati si servono di queste riserve umanitarie per sfidare gli avversari e, in particolare, le democrazie liberali, quelle teoricamente più dotate di salvaguardie giuridiche per i diritti umani. Greenhill argomenta che i governi sotto il tiro di armi di migrazione di massa possono aprire le porte enfatizzando i benefici economici a lungo termine, ma è una strategia poco efficace nel pieno di una emergenza. Oppure possono accantonare i propri principi e chiudere le frontiere vanificando quelle armi, ma aprendo una contraddizione interna in termini di valori e rischiando di pagare alla fine un prezzo identitario più alto.
Nonostante l’onere di migranti sostenuto dall’Occidente sia minimo rispetto al resto del mondo, è la debolezza politica e sociale dell’Europa a far diventare i flussi migratori illeciti una super-arma. E di questa debolezza le classi dirigenti europee (politiche, economiche, accademiche e dei media) hanno gran paura di parlare e di rendere consapevoli i propri cittadini. Che prima o poi finiscono per accorgersene da soli.
La retorica integrazionista
Lungi dal perseguire una qualche forma di integrazione, il comunitarismo a base etnico-religiosa ha prodotto la creazione di vere e proprie società separate e non comunicanti. Più che una forma di pluralismo, basata sul rispetto delle differenze e delle tradizioni culturali, si è invece prodotta una forma di separazione che, alla fine, ha generato un clima di scontro e di opposizione tra modelli culturali e stili di vita incompatibili. Riconosciamo come all’interno delle comunità islamiche, ma non solo in queste ultime, che sono presenti in Europa sia abbastanza diffuso il ricorso a tribunali informali che giudicano secondo i precetti della sharia. E riconosciamo il fatto che si è consentito loro di organizzarsi secondo le proprie regole ed usanze islamiche, anche quando queste erano palesemente in urto con le leggi delle nostre società.
A dispetto delle alte aspirazioni sociali, della grande retorica sull’integrazione e sull’opportunità pronunciate da quegli europei che tessono con entusiasmo le lodi dei propri modelli sociali, gli immigrati arabi e mussulmani hanno continuano a ristagnare in un’atmosfera fatta di falsa inclusione, disoccupazione e crimine. È in questi ambienti, ad esempio, che gli imam del Marocco, da cui è venuta la maggioranza dei musulmani del Belgio, sono da decenni egemonizzati dai generosi finanziamenti dei sauditi con il loro approccio salafita e wahabita: monoteismo assoluto, divieto di innovazioni, rigetto di tutto ciò che non è musulmano, scomunica dei “miscredenti”, la lotta armata.
Molenbeek in Belgio è un distretto di nemmeno 6 chilometri quadrati, con una delle densità di popolazione più alte, 16mila persone per chilometro quadrato, età media 34 anni, disoccupazione giovanile sopra il 40%, con 24 moschee, ma solo quattro riconosciute. Per vent’anni nella città-quartiere “laboratorio multiculturalista” qualcosa è andato storto. Si è diffuso un Islam radicale nella piena consapevolezza delle autorità che sapevano ma non hanno fatto niente per contrastarlo.
Quello belga è un sistema sociale che incentiva marginalità e disoccupazione con sussidi vari. Più precisamente, un sistema dove un senza lavoro riceve 800-1.300 euro di sussidi dallo Stato, nel quale finiscono per prevalere la ghettizzazione e il conflitto culturale tra sicurezza e legalità. Da Molenbeek sono transitati i protagonisti di alcuni dei peggiori attacchi degli ultimi decenni: da uno degli assassini del comandante Massud in Afghanistan alla vigilia dell’11 settembre 2001, ai membri dell’attentato al treno Thalys Bruxelles-Parigi dell’agosto 2015, segnalando il Belgio come il paese che ha fornito allo Stato Islamico il più consistente battaglione di tutta Europa: più di 600 combattenti.
Multiculturalismo, alibi del politicamente corretto
Decenni di tolleranza verso l’immigrazione di massa e il multiculturalismo hanno prodotto più luci che ombre anche nella società olandese. L’Olanda è il secondo paese in Europa con la più alta percentuale di immigrati, subito dietro alla Svizzera. Nel 2000 gli extracomunitari erano 1.400.000, oggi, su una popolazione totale di 17 milioni, questi sono diventati 2 milioni. L’integrazione è un traguardo che non va mai dato per scontato. E se c’è stato un tempo in cui in Olanda anche il multiculturalismo aveva trovato una propria identità, ora ci si interroga su un’integrazione sempre più a rischio.
A Rotterdam, il primo porto d’Europa per volume di traffico, interi quartieri sono pezzi di Medio Oriente, qui sorge la più grande moschea d’Europa e nei tribunali si applica la legge islamica. L’ondata che ha cambiato il volto del Paese è stata quella dell’immigrazione prima turca e poi marocchina negli anni Settanta e Ottanta per carenza di mano d’opera. I ricongiungimenti familiari e le nuove migrazioni degli ultimi anni hanno destabilizzato una società tradizionalmente tollerante e cosmopolita.
L’Olanda ha sperimentato drammatici contraccolpi: dall’uccisione del leader politico anti-islamista Pim Fortuyn nel 2002, alla persecuzione della dissidente somala Ayaan Hirsi Ali e all’assassinio del regista Theo Van Gogh nel 2004, condannato a morte per il film Submission di denuncia dei crimini della teocrazia musulmana. Geert Wilders, il cui nome era inciso sulla pancia di Van Gogh, vive dell’eredità tragica di quell’omicidio costretto da una sorveglianza di 24 ore su 24 per proteggersi dai militanti islamici che vogliono ucciderlo.
La sfida islamista e le guerre culturali
Come possono sistemi democratico-liberali convivere con la minaccia del fanatismo islamista e uscirne vincenti, senza rinunciare alla legalità e allo stato di diritto che è il loro punto di forza, non di debolezza?
Per i jihadisti qualsiasi apertura viene concepita come prova di debolezza. I nuovi shahid sono per lo più immigrati di seconda, terza generazione, che hanno beneficiato dei vantaggi dell’accoglienza, della nostra tecnologia, del nostro benessere, ma che non hanno perso l’ideologia e la cultura dell’odio. Sopravvivono in un tessuto sociale che li mantiene in condizioni di marginalità. Sono però tutti profondamente connessi: investono i risparmi in smartphone e Internet proprio per vincere l’isolamento e trovare ascolto e motivazione. Per questo risultano facile preda di chi sa sfruttare il loro disagio per portarli alla radicalizzazione e a diventare strumenti del terrore. La complessità del fenomeno sfugge a espressioni troppo semplicistiche come “mancata integrazione”, “radicalizzazione online” o “lupo solitario” e la lotta al terrorismo non si fa solo con le indagini e con la prevenzione, ma anche partendo dalle scuole, dal web, dalle carceri. E in nome della foglia di fico del politicamente corretto molti attentati sono stati superficialmente attribuiti allo “squilibrio mentale” dei loro esecutori.
In Europa pochi hanno osato criticare l’islam radicale ed è stato anche il silenzio a permettere che la radicalizzazione si diffondesse in Germania, in Belgio, in Olanda, in Svezia e soprattutto in Francia, come descrive Georges Bensoussan nel libro da lui curato, Une France soumise. Accusare di “islamofobia” – come è capitato ignobilmente allo stesso Bensoussan e raccontato nel saggio a più voci Autopsie d’un déni d’antisémitisme. Autor du procés fait a Georges Bensoussan – chiunque non voglia abdicare al compito di capire il mondo del fanatismo islamico per indicare con chiarezza le sue contraddizioni significa circoscrivere a priori il terreno del lecito, di ciò che è giusto e non è giusto dire.
Si accusa di islamofobia chi ha il coraggio di guardare i fenomeni storici e sociali per quello che sono e chi riconosce quegli “sconvenienti” legami tra islamismo, terrorismo e immigrazione.
Conclusioni
Nel suo libro Un racisme imaginaire Pascal Bruckner (2018) denuncia con forza l’odio e la violenza contro i musulmani, ma contesta la nozione equivoca di “islamofobia”, un’arma usata per soffocare il dibattito. Da oltre vent’anni, scrive Bruckner, siamo testimoni della costruzione di un nuovo delitto di opinione simile a quello che veniva rinfacciato ai dissidenti, etichettati come “nemici del popolo” dagli intellettuali organici dei regimi comunisti.
Le accuse, oltre a limitare la libertà d’espressione, ottengono il risultato di bloccare ogni tentativo di riforma nel mondo musulmano, isolando come islamofobo chi vorrebbe, anche tra gli stessi mussulmani, denunciare le derive islamiste di una minoranza bellicosa che si fortifica in nome di una presunta autentica interpretazione della fede.
Uno scontro culturale da cui dipende il futuro di un’Europa sempre più permeata dalla diversità culturale: un punto di forza, se non fosse che gli integralisti islamici la rivendicano come arma contundente contro le stesse società aperte.