Raimondo Fabbri (1978) è Dottorando di Ricerca in Scienze Giuridiche e Politiche presso l’Università degli Studi Guglielmo Marconi. Coordinatore Desk Infrastrutture del Centro Studi Geopolitica.info. Autore per il mensile OpinioJuris e per la rivista Il Pensiero Storico.Ultime pubblicazioni: Pnrr e dibattito pubblico. Prospettive di applicazione per uno strumento di democrazia deliberativa,in Rivista Giuridica del Mezzogiorno n.1/2022 a. XXXVI pp. 99-113, (ISSN 1120-9542); Il mare come la terra: le Zone Economiche Esclusive come nuove frontiere nel Mediterraneo, M. Durante (a cura di) in Al di là dei confini. Ripensare il paradigma della frontiera in una prospettiva interculturale, pp.224-247, in Quaderni di OCSM 1/2022, (ISBN 978-88-3121-629-6); L’esperimento di Dalmine. Lo sciopero produttivo alla Franchi Gregorini del 1919in Progressus n.2/2020 pp.27-43, (ISSN 2532-7186)

Recensione a
A. De Benoist, Populismo. La fine della destra e della sinistra

Arianna, Cesena 2017, pp. 304, € 14,50.

10.5281/zenodo.3544804

La nozione essenziale della democrazia è il popolo, e non l’umanità. Se la democrazia deve restare una forma politica, ci sono solo democrazie del popolo e non una democrazia dell’umanità (Carl Schmitt)

Se esiste un termine tra i molti che descrivono il momento storico che stiamo vivendo, quello sicuramente più calzante è disaffezione. Applicato alla politica il sostantivo descrive un solco divenuto sempre più ampio fra la classe politica e l’elettorato in un quadro generale di perdita di fiducia e consenso nelle élite che hanno animato gli anni dal 1945 al 1975, i cosiddetti trenta gloriosi. In questo contesto Alain de Benoist, indossando le vesti del politologo, indaga le cause che hanno condotto alla fine di un’era politica e al manifestarsi sulla scena di un concetto oramai ampiamente utilizzato, il populismo. Nonostante l’innegabile predilezione dei commentatori politici per il termine, in sede scientifica invece, come ha sottolineato Marco Tarchi nel suo fondamentale l’Italia populista (Il Mulino 2018), «la difficoltà di definirne un’essenza e di circoscriverne il raggio di applicazione ne ha determinato […] un destino contradditorio fatto di improvvise fiammate di popolarità e lunghi periodi di oblio». Per tali ragioni risulta ancora più interessante l’ampia e approfondita analisi dell’intellettuale francese. Oltre a riproporre temi familiari, ad esempio il superamento della dicotomia destra/sinistra, per la quale «i politologi non sono mai riusciti a mettersi d’accordo su un criterio o una nozione che potesse servire da denominatore comune per tutte le destre o tutte le sinistre» (p.63), Alain de Benoist individua nell’opposizione verticale fra popolo ed élite il tratto caratteristico della fine del XX secolo.

Così facendo l’autore indaga le ragioni della crisi delle democrazie liberali e della rappresentanza politica, divenuta uno strumento inutile per il popolo, sempre più incline ad orientarsi, negli appuntamenti elettorali, verso soluzioni di rottura o per meglio dire antisistema. Emerge chiaramente nel testo la presa d’atto di quella che, con altri termini, è stata definita da Damiano Palano come la crisi di governabilità che investe le democrazie occidentali (La recessione democratica e la crisi del liberalismo in Rapporto ISPI 2019 La fine di un mondo. La deriva dell’ordine liberale) e, inoltre, quanto questa «appare piuttosto connessa al “disallineamento ideologico” tra partiti e cittadini e all’attitudine critica dei cittadini delle democrazie contemporanee». Anche per Alain de Benoist la democrazia moderna, sfociando in una nuova forma di oligarchia politico-mediatica e finanziaria, non ha fatto altro che acuire lo smarrimento del popolo nei confronti della Nuova Classe. Dopo aver fatto entrare in crisi il popolo a causa della sua sostituzione con la società civile, che altro non è se non una sommatoria di interessi, la democrazia liberale ha dimostrato tutti i propri limiti e soprattutto un’intima contraddizione in termini. Peraltro tale contraddizione fu colta già da Carl Schmitt quando affermava che liberalismo e democrazia non erano affatto sinonimi ed anzi sottolineava quanto, in alcuni casi, potessero persino opporsi.

In questo senso la crisi che vive la democrazia liberale per De Benoist deve essere considerata in quanto crisi sistemica della sua articolazione storica contingente (p. 39). È quindi possibile sostenere che la crisi della rappresentanza e della democrazia derivi da patologie che l’hanno profondamente cambiata rinviandola, in ultima istanza, alle sole libertà personali e. citando Marcel Gauchet, De Benoist aggiunge che la pietra di paragone della democrazia non è più la sovranità del popolo ma la sovranità dell’individuo, una «postdemocrazia che altro non è se non il programma del capitalismo liberale nella sua forma postmoderna. Un progetto di società la cui ragion d’essere fondamentale è quella di legittimare e mantenere in vigore l’ordine dominante, creando le condizioni di adeguamento del dato sociale più favorevole all’espansione planetaria della logica del capitale» (p.93). Con ciò si spiega l’utilizzo di una terminologia squalificante a proposito di populismo, come emblematicamente avvenuto nel caso della Brexit per cui, invece di comprendere le cause che hanno provocato un pronunciamento favorevole alla uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, i commentatori hanno preferito ricondurre le ragioni di un tale risultato all’ignoranza del popolo. Quando quest’ultimo si esprime in maniera diversa da come si attende l’establishment, è diventata regola fare immediato ricorso all’uso di termini negativi come incompetenza, al fine di giustificare il ricorso all’espertocrazia senza rammentare che «in politica la competenza non risiede nel sapere tecnico ma nella capacità di decidere tra diversi possibili, ossia nell’attitudine alla decisione» (p. 102).

Il populismo non sarebbe quindi antidemocratico visto che, lungi dall’incoraggiare soluzioni autoritarie, contesta la regressione in senso oligarchico dei sistemi fondati sulla rappresentanza. De Benoist per tali ragione si trova a concordare con molte delle tesi avanzate da Jean Claude Michéa rispetto alle critiche da questi rivolte alla sinistra oggi dominante. Una sinistra che attacca quel popolo di cui un tempo lodava l’istinto rivoluzionario, additandolo oggi invece come piccolo borghese, razzista e reazionario. Sinistra oramai lanciata in una fuga in avanti nel processo di modernizzazione, e che si è completamente appiattita sull’economia di mercato e sull’ideologia dei diritti dell’uomo. Per questi motivi, non essendo più immaginabile l’opposizione destra/sinistra, l’unico spartiacque valido, secondo Michéa, sarebbe quello fra gli oppositori del capitalismo globalizzato e coloro che lo sostengono come sistema di dominio e disumanizzazione totale. Concordemente con il filosofo marxista, Alain de Benoist accosta il metodo di pacificazione della società elaborato nel XVIII secolo dal liberalismo per scongiurare le guerre di religione, a quello contemporaneo per cui è risulta necessario edificare uno Stato neutro, ossia uno Stato che annulli ogni riferimento valoriale e che permetta agli individui di autodeterminarsi, «vivendo come vogliono sotto la protezione (e l’autorità) di un diritto assiologicamente neutro, cui spetta soltanto il compito di fare in modo che l’esercizio della libertà degli uni non nuoccia alla libertà degli altri» (p. 152).

L’ideologia dei diritti dell’uomo, del progresso e l’estremizzazione del concetto di libertà sono le fondamenta su cui si basa questo nuovo Stato che lo scrittore francese mette in discussione per l’atteggiamento moralistico che lo contraddistingue e per l’etica orientata a privilegiare il giusto sul bene. Le conseguenze di questa neutralizzazione liberale sarebbero dunque l’atomizzazione della società e il definitivo cedimento del vincolo umano al principio dello scambio interessato, il “do ut des” come fondamento della razionalità in ogni relazione mercantile. La destrutturazione del concetto di popolo ritorna in diverse pagine di Populismo e, in special modo, nella confutazione dedicata delle tesi espresse da Toni Negri e Michael Hardt nei loro ultimi due importanti volumi, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione (Rizzoli 2000) e Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale (Rizzoli 2004), testi a cui De Benoist eccepisce innanzitutto l’utilizzo della parola “Impero” utilizzata in senso informale ed in opposizione all’Impero formale che si estende mediante successive conquiste territoriali. La contestazione dell’intellettuale francese riguarda sia la presunta assenza di un centro di potere riconoscibile che egli invece identifica nella Nuova Classe mondiale, sia l’indifferenza dei due autori per il portato culturale della globalizzazione dei valori occidentali, in special modo quelli anglosassoni (leggasi americani, ndr.) che, per mezzo degli strumenti tipici del soft power, esercitano un’egemonia su scala mondiale. Cogliendo nei giudizi formulati da Hardt e Negri una sostanziale accettazione di questo Impero, De Benoist concentra le sue riflessioni sull’esaltazione della deterritorializzazione e sull’ideologia cosmopolita che l’accompagna, disapprovandone le argomentazioni e l’accettazione del capitalismo cognitivo, inteso quale strada maestra per l’emancipazione delle masse, o per meglio dire della moltitudine. Quest’ultima è considerata come insieme di singolarità formanti un corpo collettivo immanente in aperta opposizione al popolo, perché fondata sulla molteplicità aperta, sulla sommatoria dei comportamenti, dei desideri e dei bisogni. Concetti nebulosi, secondo De Benoist, che in «definitiva conciliano una certa forma di marxismo con certe correnti postmoderne. Insieme con le idee di Spinoza, o, se si vuole, l’ideologia del progresso con l’idea postmoderna che non esiste una “oggettività” storica» (p. 280). In conclusione risulta qui utile prendere atto che quanto affermato oramai 25 anni fa da Christopher Lasch ne La rivolta delle élite (Neri Pozza 2017), a proposito delle ideologie politiche di destra e di sinistra, si è materializzato in tutta la sua evidenza, vista la loro incapacità di chiarire i problemi e di fornire una mappa fedele della realtà. In queste condizioni riusciranno le classi parlanti ad uscire dal loro mondo artificiale per tornare nel mondo reale?

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